La riconciliazione è opera di Dio in Cristo: ci viviamo dentro, respiriamo dentro questa grazia anche se per la nostra cattiva volontà possiamo uscirne. Che altri per loro volontà possano rompere la comunione con noi non giustifica una nostra uscita dallo spazio della riconciliazione.
“Conversione” dice un processo di costante ricerca della persona nell’intimo della sua coscienza di accogliere in sé nel proprio operare l’energia sanante del dono di Dio. E’ un processo personale che si svolge eminentemente nell’interiorità nell’aspirazione a dominare le forze contrarie che ci portiamo dentro, orgoglio, egoismo e tutte le passioni bisognose di essere dominate per conservarci in armonia con Dio e con i fratelli.
Ai discepoli di Cristo, poi, è affidato “il ministero della riconciliazione”. Destinatario è il mondo, ogni uomo che non ha conosciuto o non ha accolto il dono della riconciliazione. Ciascuno di noi, la chiesa, oggi si interroga se siamo, come comunità cristiana in grado di esercitare questo ministero, che è la comunicazione del messaggio della riconciliazione, cioè del “vangelo”. Su questa domanda cade felicissima l’espressione: “fra conversione e riforma”. Due condizioni necessarie perché la chiesa oggi possa evangelizzare.
Si ha l’impressione che il tema dell’evangelizzazione, nel suo senso radicale della proposta della fede ai non credenti, ha ancora bisogno di sciogliersi dai lacci che lo condizionavano all’idea di una restaurazione, sia pure in forma nuova, della societas christiana, nella prospettiva di poterne influenzare in maniera determinante la cultura, il costume e la legislazione attraverso un uso imponente dei media e la mediazione dei partiti politici da guadagnare influenzando l’elettorato.
Occorre inquadrare la missione della Chiesa all’interno di una società ormai pluralista: il rischio è quello di operare ancora al di dentro di un quadro mentale riferito ad un vecchio mondo, dove la società era fondamentalmente cristiana. Il mondo non si trasforma attraverso l’esercizio del potere, bensì attraverso quello dell’amore: è questa la via di Gesù».
Conversione e riforma sono concetti da non sovrapporre: la conversione riguarda un cammino di santità della persona e la metanoia la sua visione del mondo e della missione della chiesa, la riforma invece riguarda gli ordinamenti, le procedure, le prassi delle istituzioni ecclesiastiche.
Se, conforme al magistero degli ultimi papi e in particolar modo di Francesco, «ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale» (Giovanni Paolo II) è l’evangelizzazione che deve costituire il principio regolatore dell’essere e dell’agire della chiesa.
Se quindi “ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore” nessuno può negare la necessità della loro riforma: EG 27 “perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie”.
Su questa direzione viene in causa il fondamentale ordinamento delle istituzioni. Il Codice non non è un dogma e gli ordinamenti sono sempre mutati: la stessa creazione di un codice nel 1917 ha rappresentato una rivoluzione nella tradizione canonistica.
La sua impostazione, però, è rimasta coerente più al quadro antico della società che alla modernità avanzata dell’inizio del Novecento: basti pensare all’uso del termine “sudditi” che già la Costituzione americana del 1783 rifiutava perché irrispettoso della dignità umana. Tracciava esclusivamente il quadro delle relazioni interne alla chiesa, riservando al sommo pontefice le questioni del rapporto con il mondo, come se non fosse la missione a dettare le regole per la vita interna della chiesa.
Il concilio riapre il dialogo con il mondo moderno e dichiara tutto il popolo di Dio e non solo la gerarchia soggetto della missione della chiesa, ma anche il nuovo codice continua a non regolare i rapporti ad extra della chiesa e, pur citando il concilio sul popolo di Dio soggetto, non si impegna a creare strutture adeguate di sinodalità, che permettano un esercizio della missione articolato sulla base dei diversi carismi: la stessa collegialità episcopale resta inattuata e praticabile solo nella tradizionale forma del concilio ecumenico.
Resta fondamentalmente contestualizzato dentro il quadro di una società cristiana, già nel lessico, continuando ad usare il termine “sudditi”, e resta inadeguato a riconoscere la libertà religiosa, elemento fondamentale per la impostazione della missione nel mondo, conservando la definizione di delictum per l’ipotesi dell’abbandonato della fede di un battezzato.
Due linee di riforma sembrano imporsi, parallele, dentro l’unico ambito della sinodalità postulata dal principio che è il popolo di Dio il soggetto della missione: l’attuazione della collegialità episcopale con il presupposto delle chiese locali come soggetti della missione, la creazione di strutture sinodali nella chiesa locale al livello della diocesi e della parrocchia. Esse comportano ovviamente a tutti i livelli un decentramento della responsabilità sulla base di competenze da riconoscere canonicamente.
E’ suggestivo ricordare che già nel 1964 il Rapporto dei 500 Padri a Paolo VI, a proposito dell’amministrazione dei beni ecclesiastici, affermava “la necessità di ammettere progressivamente i laici, cioè più precisamente dei rappresentanti della comunità dei fedeli, nelle gestioni patrimoniali degli enti ecclesiastici, ponendo fine a una situazione estremamente dannosa per la Chiesa, nella quale i chierici sono sinora i soli soggetti attivi e passivi delle operazioni e dei rapporti economici”.
Ben più impegnativa l’affermazione di Papa Benedetto riguardo allo stesso esercizio del magistero, di cui i fedeli laici non dovrebbero essere “soltanto fruitori ed esecutori passivi”, ma “collaboratori preziosi dei pastori nella sua formulazione, grazie all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze”[1].
Vedi il caso del carisma, sacramentale tanto quanto quello dell’ordine, dei coniugi-genitori che di fatto non ha voce in capitolo nella formulazione del magistero sulla famiglia.
In conclusione, si sente il bisogno di un salto di qualità che, dopo che si è affermato il diritto dovere di tutti i fedeli di essere partecipi della missione, il diritto dovere della partecipazione attiva alla liturgia, crei strutture di partecipazione responsabile dei fedeli alla vita della chiesa, dei vescovi con il ministero del papa, dei preti con quello dei vescovi e dei fedeli laici con quello dei preti per non lasciare vuoto il grande spazio intermedio fra l’inizio, la partecipazione di tutti all’evangelizzazione da cui nasce la chiesa e la partecipazione dei fedeli alla celebrazione eucaristica, che è ne è culmen et fons.
[1] Discorso nel 50° anniversario dell’enciclica Mater et Magistra, 16 maggio 2011