Chiesa e mondo del lavoro 

(articolo tratto dalla rivista Orientamenti Pastorali n. 3 del 2017, edizioni EDB – tutti i diritti riservati)

  1. Dai margini al centro

 

Non sfugge a nessuno il senso di emarginazione e di episodicità che i temi sociali hanno avuto – e hanno – nella ordinarietà della prassi pastorale delle nostre comunità.

Finora la pastorale del lavoro si è espressa soprattutto come cura pastorale degli operai o del mondo produttivo. Una pastorale che si è espressa o con interventi occasionali (sulla spinta di scioperi con cui solidarizzare, prese di posizione in occasione di particolari avvenimenti del territorio…) o con la creazione di reti imprenditoriali/sindacali, o – in altri anni – con il sostegno al partito cattolico e la fornitura di quadri dirigenti al partito stesso, o con la fascinazione dell’ideologia marxista che avrebbe riformato la Chiesa come «chiesa del popolo» dedita principalmente all’emancipazione sociale (e quindi all’assunzione di temi sociali «caldi», come temi immediatamente/induttivamente pastorali: ecologia, pace, diritti civili, questione femminile…), o, infine, con l’attivazione di scuole e di percorsi formativi di dottrina sociale della Chiesa. Azioni tra loro molto diverse, che hanno per comune denominatore quello di interessarsi di fatti/eventi/dimensioni considerati non prettamente intra-ecclesiali. La pastorale del lavoro e, più in generale la pastorale sociale, si è venuta di fatto configurando come quel settore della vita pastorale che si doveva interessare di problemi o di emergenze che non riguardano la comunità cristiana, ma il suo «altrove».

Pur coinvolgendo i cristiani (o in quanto operai, o in quanto destinatari di certi servizi sul territorio) la pastorale sociale si è strutturata come un settore «ponte» tra Chiesa e mondo, nella quale la Chiesa – intesa non immediatamente come popolo dei battezzati, ma piuttosto come istituzione (corpo intermedio) presente sul territorio – poteva offrire un certo tipo di servizi (scuole, raccolta firme, corteo/manifestazione), esauriti i quali l’istituzione non aveva altro da dire/fare. Una pastorale intesa in questo modo è andata in crisi per una serie di fenomeni, tra cui ricordiamo: le modificazioni del mercato del lavoro e della produzione, per ciò che riguarda l’operaismo ancora possibile nei primi anni Ottanta; la transizione infinita della politica italiana e i fenomeni ambigui che l’hanno contraddistinta; l’accresciuta mobilità imprenditoriale, che ha reso difficoltosa la creazione di una rete di imprenditori che insista su uno stesso territorio, e dunque in grado di condividere le stesse frequentazioni o partecipare alle medesime occasioni formative. La formazione dei presbiteri più giovani pare risentire di una vistosa lacuna (non soltanto teorica, ma più ancora pratica) che riguarda proprio la dottrina sociale e più generalmente l’impegno pastorale in campi sociali, non più avvertiti come rilevanti in ordine alla missione propria dei pastori o alla vita del gregge.

È stata questa pastorale «occasionale» e «esclusivamente ad extra» a non saper più che senso avesse la sua azione, non tanto l’interesse della Chiesa per la società, poiché tale interesse – come si sa – è costitutivo dell’identità e della missione della Chiesa stessa, che esiste «per evangelizzare» le società umane. Le ragioni di questa occasionalità, risiedono non tanto nell’interesse o disinteresse del presbitero e della comunità ecclesiale, quanto invece nella stessa «mappatura pastorale» comunemente configurata nel trinomio evangelizzazione/liturgia/carità. Dobbiamo riconoscere che il trinomio è messo seriamente in crisi dalle esigenze della nuova evangelizzazione.[1] L’idea stessa di una «nuova evangelizzazione» mostra categoricamente – non solo e non tanto dal punto di vista teoretico, ma dal punto di vista pratico – che la pastorale reale, quella che effettivamente cerca di fare i conti con la postmodernità e con la differenziazione, non può essere limitata o progettata dentro a quello schema.

Non sfugge a nessuno che la «mappatura» dell’azione ecclesiale in questo nostro tempo e in questo contesto deve saper distinguere senza dividere ciò che serve ad edificare la comunità nel proprio vissuto interno (ad intra) e le azioni che servono ad extra, cioè quelle che riguardano l’evangelizzazione, la missione e l’animazione delle realtà temporali. Il trinomio evangelizzazione/liturgia/carità ha spinto/spinge verso una azione pastorale fortemente squilibrata: dedica molto tempo alla parte ad intra (strutturando organicamente le celebrazioni, i sacramenti, i vari momenti della vita interna di una comunità) e fatica molto ad organizzare il resto, configurando la pastorale ad extra più come una pastorale di iniziative più o meno occasionali, che come una pastorale strutturata organicamente. Il IV Convegno della Chiesa italiana [2] aveva offerto la possibilità di ripensare l’impianto della prassi pastorale della comunità cristiana, ponendo al centro la persona e le sue dimensioni, ma all’enunciazione non ancora fa seguito il necessario cambiamento. L’uscita da questa impasse pastorale sarebbe possibile adottando un nuovo modello di azione ecclesiale progettato a partire dall’antropologia drammatica di Hans Urs von Balthasar,[3] il quale ha individuato tre polarità antropologiche costitutive (anima/corpo, uomo/donna, individuo/società) che a loro volta identificano tre grandi campi del vissuto umano: quello della cura dell’anima (ciò che in tedesco è espresso dal termine seelsorge, classico e specifico nella letteratura e nel pensiero teologico-pastorale) e del corpo (le attuali pastorali della salute e del tempo libero), quello della vita affettiva (di coppia e di famiglia, alla quale appartengono tutte le generazioni), quello della vita sociale che qui ci interessa, con i temi correlati del lavoro, dell’economia e dei fenomeni/modelli che strutturano appunto la vita sociale.

La scelta di questo paradigma romperebbe il dilemma insito nello schema ad intra/ad extra e scioglierebbe il nodo, pastoralmente così inibente, se la comunità cristiana debba occuparsi dei vicini o dei lontani, dei pochi o dei molti, di chi «viene in parrocchia» o di chi «non viene in parrocchia», della evangelizzazione o della promozione umana. Si tratta, infatti, di dimensioni che appartengono contemporaneamente al vissuto dell’uomo in quanto uomo (a prescindere dalla sua appartenenza o no a una religione istituzionale) e al vissuto cristiano specifico, perché sono dimensioni strutturali della persona alle quali l’ottica del vangelo e la grazia dello Spirito Santo danno una forma specifica e originale, plastica e dinamica; dimensioni, quindi, che contempo-raneamente sono missionarie e di edificazione della comunità cristiana. Non c’è, infatti, essere umano (cristiano o non cristiano) che non sia interessato alla propria vita affettiva o che non la viva; o che non sia posto in relazione con una società di cui parla la lingua e della quale ha assunto la cultura; o che non si ponga il problema del rapporto con l’autorità civile che promulga le leggi alle quali deve sottostare. Non c’è essere umano che non si trovi oggi a fare i conti con la questione antropologica, dalla quale dipende non solo il presente ma anche il futuro degli individui, della società e della Chiesa. Dunque non c’è essere umano che non sia in condizione di valutare, comprendere ed eventualmente scegliere, la via cristiana per fronteggiare le tensioni che queste polarità antropologiche quotidianamente gli pongono. In tale visione la pastorale sociale – e al suo interno la pastorale del lavoro − non può che ritenersi necessaria, e la sua identità attuale deve essere compresa allargandone l’orizzonte: dalle «cose da fare per le classi lavoratrici» al compito di risignificare in Cristo la dimensione sociale della vita umana, così come essa è venuta articolandosi in questo tempo della post-modernità. Un contesto segnato dall’abbandono di assetti sociali coesi e dall’emergere di una pluristratificata, complessa articolazione di sottosistemi; dall’abbandono della cultura della stabilità, di una quasi immutabilità dell’ambiente sociale per adottare la regola del cambiamento, in cui tutto è temporaneo e provvisorio. Con l’inevitabile indebolimento delle eredità tradizionali, una conseguente labilità dei riferimenti normativi, retrocessi nel privato, e una crescente attenzione pubblica agli ambiti procedurali e produttivi. L’ambiente sociale si trasforma da comunità in società, dove la soggettività sociale non fa riferimento alla comunità, ma a ruoli formalizzati, a persone giuridiche e ad attori corporativi, che partecipano alla vita sociale, che non hanno alcun denominatore comune e nemmeno un’istanza universalmente riconosciuta.

Si può affermare che rientra tra i compiti pastorali oggi ineludibili farsi carico della sfida che viene dal contesto. In un certo senso, il compito dell’evangelizzazione inscritto nel ministero pastorale passa per il coinvolgimento in tale sfida, che deciderà sia dell’inculturazione della fede sia della sua forma ecclesiale e perciò oggettiva e comunitaria. All’interno di questa prospettiva, assume necessariamente un’importanza decisiva il compito che spetta ai laici coinvolti nell’azione pastorale della Chiesa. Hervé Legrand, così descrive il ruolo dei laici oggi: «Ai nostri giorni, il ruolo dei laici e la loro responsabilità sono meno apprezzati e meno sostenuti […] poiché la promozione dei laici sta per prendere la forma di una loro più grande partecipazione nell’attività che spettava tradizionalmente ai preti e alle suore. Ma durante lo stesso lasso di tempo, il servizio specifico che spettava ai laici, uomini e donne, che si svolgeva essenzialmente nell’ambito della professione e del lavoro è stato trascurato, come pure le sue responsabilità per trasformare il mondo della politica, dell’economia, delle istituzioni sociali. Il risultato è preoccupante. Si constata il declino delle organizzazioni dell’apostolato laico, il disdegno dei laici nelle loro occupazioni quotidiane e molto probabilmente la scomparsa di una generazione di militanti. Non vi sarebbe un’ironia della storia in rapporto al Vaticano II? Questo concilio, come era necessario, aveva aperto le finestre della Chiesa sul mondo, ma ecco che sta per uscire una Chiesa che rischia di rinchiudersi in se stessa».[4]

Sulla stessa linea la diagnosi di papa Francesco: «Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose «dei preti», e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede».[5]

Né, infine, è stata diversa la sorte di coloro che hanno privilegiato la responsabilità negli ambiti secolari. «Il loro rapporto con la Chiesa – scrive Paola Bignardi – è la storia di un dialogo interrotto. […] Non si può dire che questi laici non esercitino l’autonomia delle loro scelte cristiane, ma essi non hanno altro rapporto con la comunità che quello della liturgia della domenica e di una comunicazione della fede povera di quella mediazione culturale che è necessaria per comprendere e vivere il rapporto tra il messaggio cristiano e il proprio tempo. Spesso questo messaggio viene presentato in forme che sembrano fuori del tempo e che non riescono a mostrare la bellezza del vangelo».[6]

La configurazione di un modo di essere definitivamente cristiani rappresenta oggi un obiettivo cruciale per le ambizioni di una cosciente testimonianza evangelica. Per dare a essa carne e sangue tuttavia non servirà a nulla intensificare ulteriormente i molti itinerari di aggregazione alla vita parrocchiale o i percorsi di introduzione in ecclesialese alle diverse spiritualità di ambito (la famiglia, il lavoro, la politica). Si tratta piuttosto di ridare una forma univoca e riconoscibile allo statuto della perfezione cristiana realmente plasmata con la materia della vita umana comune. Restituire profilo e riconoscibilità a un modo di essere credenti in cui si incarni visibilmente la vocazione evangelica dell’esistenza ordinaria. La questione del laico si sovrappone a questa necessità. La questione dei laici nella Chiesa riguarda la configurazione di una generazione di cristiani capaci di dare «alla sequela forma della vita, non della parrocchia».[7]

Non si tratta di favorire la partecipazione dei laici, quanto la loro corresponsabilità.
Tale corresponsabilità è radicata nella consacrazione battesimale e richiesta dalla missione evangelizzatrice implicita in quella stessa consacrazione (è il tema del sacerdozio di Cristo, a cui partecipano tutti i battezzati). La corresponsabilità non è, prima di tutto, un aiuto ai pastori, ma un’espressione della vita cristiana, che trova luogo e forma principalmente non nella cooperazione ai compiti pastorali intra-ecclesiali, ma nella vita concreta del territorio, della gente, del luogo di lavoro. È molto importante partire da questo riferimento fondamentale, perché esso chiarisce che i laici sono abilitati e riconosciuti nella loro responsabilità ecclesiale innanzitutto e propriamente come laici, cioè non in forza di eventuali incarichi intra-ecclesiali, ma in forza piuttosto della loro concreta vita cristiana, secondo la vocazione e lo stato di ognuno. È la cosiddetta «indole secolare» (diversamente da come riteneva Lutero) che definisce la qualità specificamente teologica del laico. È all’interno di questo orizzonte che si giustifica quella responsabilità condivisa per il vangelo che può implicare anche il coinvolgimento attivo nella vita della comunità (dal diritto di parola alla presenza negli organismi ecclesiali). L’ambito dell’impegno laicale non è peculiarmente la cura pastorale della comunità cristiana, ma si esprime nella responsabilità testimoniale e nel servizio della comunità ecclesiale e sociale. «L’indole secolare esprime la modalità – la forma – con cui la costitutiva dimensione secolare della Chiesa si realizza nella vita della maggior parte dei fedeli, i laici: cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e orientandole secondo Dio». […] L’indole secolare ha significato teologico perché dice la modalità specifica con cui il cristiano laico partecipa alla instaurazione del Regno edificando la Chiesa e operando nel mondo. […] Il fatto che la teologia del laicato si collochi correttamente nell’ambito della teologia pratica può sembrare riduttivo soltanto a chi – con persistente distorta ignoranza – considera tale ambito teologico secondario (come se l’uomo e la storia fossero un mero accidens dell’opera di salvezza, come se l’alleanza e l’incarnazione non fossero costitutivi e «formativi» della elaborazione teologica). In tale ambito, la corresponsabilità va vissuta nella testimonianza attiva senza necessitare di mandati speciali».[8]

Se vale questa tesi di una diversa mappatura della azione ecclesiale in questo nostro tempo e in questo contesto – che nell’individuo/società individua una delle sue priorità, e nel lavoro/vita sociale un campo che realmente occupa gran parte del tempo, delle energie e delle cure degli uomini – la centratura di tutta la pastorale a partire dalle grandi polarità costitutive renderebbe presente e attiva la guida del pastore in dimensioni centrali per la vita delle persone (centrali sia per l’interiorità che per la socialità). La reinterpretazione della funzione direttiva (o di guida) del sacerdote pastore andrebbe nella direzione di un recupero del suo ruolo – oggi offuscato se non misconosciuto – di figura autorevole in ordine alla chiarificazione e alla trasmissione del senso della vita.

  1. La comunità cristiana: locanda di racconto del lavoro

 L’aver cercato, sommariamente, di indicare la necessità di un cambiamento della «mappatura» pastorale non ci esime dall’indicare alcuni tratti di una comunità cristiana che fa i conti con il mondo del lavoro. Innanzitutto immaginare la comunità cristiana come «comunità di racconto», assumendo il libro degli Atti come paradigma esemplare, è il segreto che consente alle comunità cristiane di pensarsi missionarie. Perché un simile esercizio porta in modo naturale ad assumere come punto di vista dal quale leggere la storia quello dell’azione di Dio, del suo disegno su di noi. Radunarsi e ascoltarsi non tanto per condividere in modo malinconico le nostre negatività, quanto piuttosto per cercare assieme la prospettiva giusta che ci consente di scorgere l’agire di Dio anche in una storia difficile e ostile. Di questo racconto non può non far parte l’interrogativo su cosa oggi viene chiesto alla Chiesa, cosa le comunità cristiane sono chiamate a vivere nella totalità dell’esperienza umana. Diventa allora centrale il riscoprire il lavoro come luogo in cui l’essere umano esprime ed accresce la dignità della propria vita.[9] Perché ciò avvenga è necessario che il lavoro sia «libero, creativo, partecipativo e solidale». Di queste caratteristiche – in un incontro del maggio 2013 – papa Francesco ne ha dato una esplicitazione che qui riportiamo:[10]

  • Libero. La vera libertà del lavoro significa che l’uomo, proseguendo l’opera del Creatore, fa sì che il mondo ritrovi il suo fine: essere opera di Dio che, nel lavoro compiuto, incarna e prolunga l’immagine della sua presenza nella creazione e nella storia dell’uomo. Troppo spesso, invece, il lavoro è succube di oppressioni a diversi livelli: dell’uomo sull’altro uomo; di nuove organizzazioni schiavistiche che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno che contraddice la creazione nella sua bellezza e nella sua armonia. Dobbiamo far sì che il lavoro non sia strumento di alienazione, ma di speranza e di vita nuova.
  • Creativo. Ogni uomo porta in sé una originale e unica capacità di trarre da sé e dalle persone che lavorano con lui il bene che Dio gli ha posto nel cuore. Ogni uomo e donna è «poeta», capace di fare creatività. Poeta vuol dire questo. Ma questo può avvenire quando si permette all’uomo di esprimere in libertà e creatività alcune forme di impresa, di lavoro collaborativo svolto in comunità che consentano a lui e ad altre persone un pieno sviluppo economico e sociale. Non possiamo tarpare le ali a quanti, in particolare giovani, hanno tanto da dare con la loro intelligenza e capacità; essi vanno liberati dai pesi che li opprimono e impediscono loro di entrare a pieno diritto e quanto prima nel mondo del lavoro.
  • Per poter incidere nella realtà, l’uomo è chiamato a esprimere il lavoro secondo la logica che più gli è propria, quella relazionale. La logica relazionale, cioè vedere sempre nel fine del lavoro il volto dell’altro e la collaborazione responsabile con altre persone. Lì dove, a causa di una visione economicistica, come quella che ho detto prima, si pensa all’uomo in chiave egoistica e agli altri come mezzi e non come fini, il lavoro perde il suo senso primario di continuazione dell’opera di Dio, e per questo è opera di un idolo; l’opera di Dio, invece, è destinata a tutta l’umanità, perché tutti possano beneficiarne.
  • Non può mancare l’apertura verso coloro che non hanno trovato, o hanno perso il lavoro, offrendo innanzitutto la propria vicinanza, la propria solidarietà. Ma poi bisogna anche dare strumenti ed opportunità adeguate di nuovi percorsi di impiego e di professionalità.
  1. La comunità cristiana: locanda della speranza per il mondo del lavoro

 Nel racconto comunitario non saranno estranee né la domanda: «quale speranza per il mondo del lavoro, oggi?», né l’invito a trovare risorse di speranza nella propria esperienza credente. È facile porre la domanda «quale speranza….?», mentre non è facile dare una risposta, almeno una risposta che sia chiara e sicura. O se si preferisce, sembra di dover dire più esplicitamente che sono poche le speranze di fronte ai giovani che a fatica riescono a trovare lavoro, ai disoccupati e a quanti soffrono i disagi dovuti alla diffusa crisi occupazionale. Comunque la domanda sulla speranza va posta e la risposta va cercata, dal momento che sono in questione il senso della nostra esistenza e la nostra stessa fede. Che senso ha, dunque, sperare a proposito dei vari aspetti concreti della nostra vita, e quindi anche del lavoro? Si potrebbe dire: spero perché sto cercando; spero perché credo; spero perché desidero; spero perché mi fido; spero perché mi è stato promesso; spero perché sono solidale; spero perché mi si allargano orizzonti sul futuro e scopro che camminiamo insieme. Ma sin dove sono ragioni valide, queste? In altre parole, quale concretezza hanno queste risposte? Sì, perché per un uomo e una donna che lavorano la speranza passa attraverso dei gesti molti concreti, si lega ad obiettivi precisi che scadono ogni mese, coinvolge delle responsabilità che vanno onorate e mantenute, riguarda il danaro da guadagnare per mantenere la moglie o il marito, i figli, la famiglia, come pure per acquistare una casa e vivere degnamente in essa. È solo in questo orizzonte molto concreto che si deve seriamente affrontare l’interrogativo circa la speranza possibile nel mondo del lavoro. In questo senso è giusto e necessario partire dal lavoro così come esiste oggi qui, considerato sia nella sua quantità che nella sua qualità: «quanto» lavoro e «quale» lavoro possono dare speranza.

Le risposte

 Anzitutto, il lavoro come un fondamentale valore per la persona, per la sua realizzazione di persona. E questo valore è intimamente intrecciato con la speranza. Il Signore, infatti, ci ha dato la vita perché possiamo viverla con gioia. Ora la speranza cristiana, che ha come sua aspirazione suprema l’aldilà, la vita eterna, ossia la comunione piena e definitiva di amore e di vita con Dio − con il Dio che è oceano infinito di gioia, e dunque beatitudine somma −, non ci chiede affatto di cancellare le attese di questo mondo per pensare solamente all’aldilà. Ci chiede piuttosto di accoglierle e di viverle nell’orizzonte e nella proiezione dell’aldilà. La vita ci è stata data per crescere, è dono all’umanità per svilupparsi, è dono all’uomo e alla donna per una relazione di amore. Tutto il creato e tutto il lavoro intendono sostenere questa vita e questo suo cammino, rendendo così possibile un progresso umano dignitoso e sereno. D’altra parte anche il lavoro – come del resto ogni realtà e attività umana – può essere oggetto di una grave tentazione, che Gesù ha espresso con le parole: «Nessuno può servire a due padroni…: non potete servire a Dio e a Mammona». Qui il «servire» ha un significato religioso, in quanto non può prescindere dal riferimento a Dio. In particolare il «servire» richiama l’obbedire, il decidere in modo totale, il mettersi a piena disposizione. In questa linea allora si deve dire che il lavoro non può assorbire tutte le energie della persona e non può diventare l’orizzonte unico, ultimo e definitivo dell’esistenza. Nel testo evangelico «Mammona» indica i beni materiali, i possedimenti. E originariamente questa parola non aveva, di per sé, un significato negativo, in quanto richiamava «l’essere saldi, ancorati, garantiti» (dalla radice aman, analoga al nostro amen). Tuttavia Mammona tende di fatto a configurarsi come una realtà alla quale ci si affida e ci si appoggia a tal punto da considerarla come un Dio. Così si finisce, addirittura, per divenire idolatri, per adorare un idolo, scegliendo cioè il benessere e il guadagno come unico valore della vita, e per ritrovarsi, di conseguenza, in contrapposizione a Dio stesso, il solo Dio vivo e vero. La speranza si presenta allora come un’energia morale e spirituale che ci rende vigilanti di fronte a questa tentazione e ci aiuta a combatterla e a vincerla. Infatti, sperare richiede orizzonti più alti del benessere e del guadagno. Se si fanno sovrani del nostro «io» profondo, di ogni nostro desiderio e di ogni nostra scelta, il benessere e il guadagno diventano una minaccia, anzi una forza disgregatrice della nostra autentica «umanità», perché consumano la relazione personale, la condivisione, la vita comune nella spasmodica ricerca delle «cose» e nella inevitabile competizione che fa prevaricare sugli altri.

  1. Ancora: il lavoro fa parte della vita e dei valori di ciascuno per una esistenza umana tesa alla sua pienezza. Dio, infatti, ha scolpito nel nostro cuore la sua legge e ha consegnato alla nostra responsabilità la sua creazione e il suo disegno su di essa, sul mondo tutto e su ciascuno di noi in particolare. Dio, creandoci a sua immagine e somiglianza, ci ha chiamati a dominare il mondo (cf. Gn 1,27-28) come proseguendo la sua stessa opera creatrice e impegnandoci ad osare, a tentare, ad intraprendere (imprenditorialità) per un domani degno della persona umana, per sé e per gli altri. Eccolo allora il nostro lavoro farsi momento alto di servizio a Dio e ai fratelli, di condivisione di una missione e di un destino; farsi momento costituente: di me, uomo-lavoratore, in quanto persona in rapporto con l’altro – e con l’Altro, con il trascendente, Dio – e, proprio in forza di quel rapporto, dell’etica stessa che quel rapporto deve regolare. Ma se leggiamo questo nel mandato del Dio creatore, anche più grande, più impegnativa e più ricca di speranza ci appare la sua parola redentrice: «Il regno di Dio è qui»! Con questa parola Gesù ci ammonisce dicendo che è lo stile e sono le scelte del regno di Dio che soli possono fondare e alimentare la vera speranza, quella che libera l’uomo dalle diverse forme di chiusura e di schiavitù e che lo spinge a ricercare il Signore, a cogliere i segni della sua presenza e azione nella storia, a fare nostri i suoi disegni, a seguire la sua logica. Chi segue questo cammino di speranza può scoprire, proprio attraverso il lavoro, che esistono valori grandi per tutti: valori belli e necessari, valori che meritano di essere accolti e vissuti perchè con essi il mondo possa diventare sempre più umano. Anzi valori propriamente evangelici: quelli di un lavoro che è partecipazione all’opera redentrice di Cristo, che diviene via di purificazione e di santificazione, che si fa strumento di un amore nuovo.

Chiamati a riscoprire il volto autentico della speranza

 Se tutti abbiamo bisogno di riscoprire la speranza – i suoi doni e le sue esigenze – nel mondo del lavoro d’oggi, coloro che credono e che quindi devono essere «testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo» avvertono questa esigenza in un modo più forte e peculiare. In questo senso è necessario «riscoprire» il vero e autentico volto della speranza, in specie della speranza cristiana.  Ecco, allora, alcuni lineamenti di questo volto.

  • Sperare è la lucidità di scoprire i segni di Dio anche in realtà che possono sembrare o essere povere e banali. Bisogna saperli individuare, questi segni, e saperli accettare come incoraggiamento. E in una comunità di lavoro questo significa animare di vera e fondata speranza questa stessa comunità con un inevitabile miglioramento del suo dinamismo e della sua efficacia a beneficio di tutti.
  • Sperare è credere nel significato di una Provvidenza che non ti esime dal lavoro, ma ti salvaguarda dall’ossessione del guadagno continuo e dalla sensazione di essere indispensabile.
  • Sperare è sviluppare, per quanto è possibile, il rispetto dei ritmi del lavoro e della festa, conservando nel cuore la bellezza della festa anche nel lavoro, se necessario, come incontro profondo con Dio e con le persone con cui operi.
  • Sperare è vivere e coltivare il coraggio di non vendersi mai a nessuno, ma di offrirsi per amicizia dove c’è bisogno. E la testimonianza di chi così opera è conforto e speranza per chi vive ed opera con lui.
  • Sperare è prendere sul serio il proprio impegno, compiere il proprio dovere, con la fedeltà e l’entusiasmo di costruire un capolavoro. E l’entusiasmo, si sa, è contagioso quanto e più della depressione, cosicché il mio impegno non è mai speranza solo per me. Si tratta poi, non solo di «riscoprire» questi lineamenti, ma anche di «viverli», di farli diventare «carne della propria carne» nella vita di ogni giorno, così da rendere sempre più luminoso e attraente il volto della speranza.

Antonio Mastantuono, vice assistente generale Azione cattolica italiana, docente di teologia pastorale − Pontificia Università Lateranense

[1] Cf. F.G. Brambilla, «La pastorale della Chiesa in Italia. Dai tria munera ai “cinque ambiti”?», in La Rivista del clero italiano, 92(2011), 389-407.

[2] Cf. IV Convegno della Chiesa italiana Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo tenuto (Verona 16-20 ottobre 2006).

[3] Cf. H.U. Von Balthasar, Teodrammatica II – Le persone del dramma. L’uomo in Dio, Jaca Book, Milano 2000, 335-369. Cf. Mysterium salutis 11/2, Queriniana, Brescia 1970, 243-531.
[4] H. Legrand, «Nuovi modelli di animazione pastorale in Francia. Analisi, soluzioni pratiche e questioni ecclesiologiche», in A. Toniolo (a cura di), Unità pastorali. Quali modelli in un tempo di transizione?,  Messaggero, Padova 2003, 161-201.

[5] Papa Francesco, Lettera del santo padre Francesco al Cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia commissione per l’America Latina (19 marzo 2016).                                                                       https://w2.vatican.va/content/francesco/it/letters/2016/documents/papa-francesco_20160319_pont-comm-america-latina.html (accesso del 13 febbraio 2017).

[6] P. Bignardi, «L’autonomia dei laici: il percorso postconciliare», in C.Militello (a cura di), I laici dopo il concilio. Quale autonomia?, EDB, Bologna 2012, 52-53.

[7] P. Sequeri, «Programmare la perfezione? Il problema teologico pratico», in Cammini di perfezione cristiana, modelli definitivamente superati?, Glossa, Milano 2001, 75.

[8] S. Lanza cit. in P.Asolan, Il pastore in una Chiesa sinodale – Una ricerca odegetica, San Liberale, Treviso 2005, 432-433.

 

[9] Francesco Evangelii gaudium, n.192.

[10] Francesco Discorso alle ACLI in occasione del 70° anniversario di fondazione.  (23 maggio2013) in https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/may/documents/papa-francesco_20150523_acli.html. Accesso 13 febbraio 2017.