«La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria». Così esortava i suoi confratelli l’allora cardinal Bergoglio nel suo intervento durante le Congregazioni generali prima del conclave. Era il 9 marzo 2013: quattro giorni dopo, con la sua elezione a sommo pontefice, queste parole divennero il leitmotiv del suo programma pastorale, fattosi ancor più concreto con la promulgazione, sei mesi più tardi, dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. In essa, il tema della Chiesa in uscita verso le periferie diviene fondativo, oserei dire quasi cristologico: «Ogni Chiesa particolare, porzione della Chiesa cattolica sotto la guida del suo vescovo, è anch’essa chiamata alla conversione missionaria. Essa è il soggetto dell’evangelizzazione […]. La sua gioia di comunicare Gesù Cristo si esprime tanto nella sua preoccupazione di annunciarlo in altri luoghi più bisognosi, quanto in una costante uscita verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio-culturali» (EG 30).

 

Periferie: un concetto «pre-bergogliano»

Questo processo di discernimento, purificazione e riforma cui papa Francesco richiama da sempre la Chiesa ha portato ogni operatore pastorale a concentrare la propria attenzione sul concetto di «periferie geografiche ed esistenziali»; un concetto che non si può dire «sconosciuto» nella Chiesa, anche precedentemente a Francesco. I «papi del concilio» (da Giovanni XXIII a oggi) si sono tutti, in maniera diversa, confrontati con il tema delle «periferie» in relazione all’annuncio evangelico.

Giovanni XXIII, nell’allocuzione pronunciata nell’abbazia di San Paolo fuori le mura il 25 gennaio 1959, durante la quale annunciava il sinodo romano e il concilio ecumenico Vaticano II, disse – riferendosi alla città di Roma –: «Qua e là ancora si scorgono le sue linee architettoniche fondamentali più vetuste, che talora costa qualche pena il rintracciare, soprattutto alla periferia avviluppata ormai in un agglomerato di case, di famiglie, qui convenute da ogni parte del continente italico, dalle isole circostanti, e si può dire da tutta la terra. Un vero alveare umano da cui si svolge un brusìo ininterrotto di voci confuse, in cerca di accordi».[1] La consapevolezza di papa Roncalli di un mondo in grande trasformazione, lo portava a sentire innanzitutto la preoccupazione per la periferia della città di Roma, definita «un alveare umano».

In occasione della beatificazione di Paolo VI, il cardinale Pietro Parolin, di lui così parlava: «Va ricordata la delicata attenzione di papa Montini per le periferie esistenziali in ogni latitudine del pianeta, […] la sua capacità di dar voce agli ultimi e ai lontani e il richiamo nel suo testamento spirituale a una Chiesa povera, cioè libera» (Roma, 28 settembre 2015).

Giovanni Paolo II inaugura il proprio pontificato invitando a «spalancare le porte a Cristo»: occorre rievangelizzare l’umanità, invitandola a non avere paura di Cristo. C’era bisogno di ricordare al mondo l’esistenza di una Chiesa periferica, quella dell’est Europa da cui lui proveniva, ma anche quella di ogni parte del pianeta che spesso soffriva persecuzione ma che non crollava mai. E per ricordare l’universalità dell’istituzione ecclesiale, serviva proprio un pontefice non italiano, intento a portare Cristo in ogni periferia del mondo, sino ai confini della terra.

Il pontificato di Benedetto XVI fa emergere una nuova frontiera ecclesiastica: quella delle «periferie intellettuali». Papa Ratzinger ha avviato un dialogo con la cultura laica e con le altre religioni, a partire dalla verità sull’uomo e dalla ragione. C’è una domanda di senso che tocca il profondo del cuore e stimola la mente di credenti e non credenti. Dove ci sono dei valori fondanti di una società e di una civiltà, c’è sempre qualcosa che li trascende e che li supera, e per questo gli uomini, pur nella fatica e nel dubbio, saranno sempre portati a cercare Dio.

Al riguardo, il messaggio di Francesco, il papa che «i confratelli cardinali sono andati a prendere quasi alla fine del mondo» (come disse la sera dell’elezione) è chiarissimo: Cristo va portato in primo luogo in tutte quelle situazioni di marginalità che riguardano principalmente i poveri e gli ultimi della terra, ma che chiamano in causa la povertà spirituale presente in ognuno di noi, la nostra più o meno evidente «perifericità» rispetto alla centralità di Dio. Papa Francesco invoca una Chiesa inclusiva, fuori dal proprio guscio autoreferenziale; una Chiesa pronta a mettersi in gioco una volta per tutte, anche a costo di trovarsi «incidentata». «Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala […]. La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire. […] Ma che cosa succede se uno esce da se stesso? Può succedere quello che può capitare a tutti quelli che escono di casa e vanno per la strada: un incidente. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura!».[2]

 

Il triplice concetto di «periferia»

Questa breve carrellata di «pensiero pontificio» sul tema delle periferie l’ho voluta per cercare di superare un atteggiamento che vedo molto in auge da quando abbiamo papa Francesco alla guida della Chiesa: ovvero, quello per cui tutti coloro che hanno a che fare con la pastorale – in particolare noi esponenti del clero – si sono messi a cavalcare il «cavallo delle periferie», fino a quattro anni fa ritenuto indomabile, oppure pericoloso, quando invece è da almeno sessant’anni che il magistero papale e la sua stessa prassi pastorale hanno messo al centro chi al centro non c’era mai stato, ovvero l’uomo nella sua dimensione di fragilità umana e spirituale. Certo, il papato di Francesco sta dando un impulso tutto particolare a questo tema: ma grazie a Dio, la missionarietà di molte delle nostre chiese locali e la ricchezza degli istituti missionari (o religiosi aventi missioni) non hanno mai smesso di mantenere aperta una finestra, se non addirittura un portone spalancato, sulle periferie dell’umanità, a partire proprio da quelle geografiche, alle quali ci siamo rivolti sostenuti dalla semplicità della fede e della carità del popolo di Dio, particolarmente di quello che abita le nostre periferie territoriali e umane.

Ciò premesso, vediamo di fare un po’ di chiarezza su ciò che si intende con «periferie» alla luce dell’insegnamento di papa Francesco e dei suoi predecessori. Sistematizzando quanto finora affermato e citato, credo si possano individuare almeno tre tipi di «periferie» a livello ecclesiale-evangelico (tanto nella dimensione di Chiesa universale, quanto in quella di Chiesa locale), definite le quali cercheremo anche di determinare alcune istanze pastorali pratiche, utili alla vita di fede delle nostre comunità parrocchiali.

 

Le periferie geografiche

Sono quelle più facilmente determinabili, anche se rimane da stabilire quale sia il centro di riferimento che definisce la loro perifericità. Appare abbastanza evidente che a livello ecclesiale, le periferie geografiche sono quelle chiese sorelle (in genere del sud o dell’est del mondo) che hanno una storia relativamente recente rispetto alle chiese di antica tradizione storica e culturale, oppure che si trovano a vivere una situazione di marginalità e/o persecuzione dopo aver avuto un glorioso passato anche di rilevanza spirituale e teologica. È il caso, ad esempio, delle chiese del Medio Oriente, sicuramente periferiche rispetto alle chiese di antica tradizione proprio perché fortemente minoritarie nel contesto in cui sono inserite, e di conseguenza spesso perseguitate. Ma sono viste come periferiche anche quelle chiese o quelle esperienze di vita cristiana lontane da un «centro» che coincide con la vecchia Europa cristiana, periferiche anche per via di collegamenti non certamente agevoli con il resto del mondo cristiano. Non è difficile pensare che, pur avendo numeri di cristiani a volte consistenti, alcune chiese dell’America Latina o dell’Africa vengano avvertite come periferiche in quanto disconnesse da ogni tipo di ragionevole collegamento, non solo logistico e dei trasporti, ma anche virtuale, di quella rete che con difficoltà fa conoscere o «girare» le esperienze che in essa avvengono. Eppure, anche in questo tipo di perifericità, abbiamo esperienze favolose di vita cristiana, d’incontro con il Cristo, di cristianesimo vissuto rispetto alle quali forse sono più «periferie» le nostre, quelle delle nostre grandi città, quelle dei nostri quartieri, quelle dei nuovi insediamenti urbani nei paesi «dormitorio» sorti ai bordi delle città che di conseguenza si spopolano. Ecco quindi che le periferie geografiche ci sono anche tra le nostre parrocchie: viene da pensare, come accennato sopra, alle periferie delle grandi città del nostro paese (è sufficiente essere passati anche una sola volta sopra il Grande Raccordo Anulare di Roma per capire cosa si intende quando si parla di «borgate»), ma non dobbiamo dimenticare anche l’eterogeneità del nostro territorio, che pur non essendo enorme, tuttavia si espande in luoghi e realtà dove fai una grande fatica a ritrovare un aspetto di centralità. Pensiamo, ad esempio, alle molte frazioni dei municipi di montagna: sono circa 130 i comuni italiani con meno di 150 abitanti, e tutti sono collocati oltre i 900 metri di altitudine. La recente vicenda del terremoto di Lazio-Marche-Abruzzo-Umbria ci ha drammaticamente sbattuto in faccia questa difficile realtà. Per non parlare delle oltre 60 piccole isole italiane abitate da almeno un centinaio di persone, la maggior parte di esse senza alcun tipo di servizio a livello ecclesiale e prive anche dei servizi base a livello socio-civile. E in ognuna delle parrocchie collocate nelle città e nei paesi della nostra penisola, c’è sempre almeno una situazione di perifericità geografica, anche in quei luoghi in cui i collegamenti a livello d’infrastrutture e trasporti esistono e funzionano. Pensiamo, infatti, a quelle abitazioni delle nostre parrocchie collocate a vari chilometri di distanza dalla chiesa parrocchiale, oppure isolate dal resto del paese dal passaggio di una strada di grande comunicazione o di una linea ferroviaria: sono certo che ogni parroco potrebbe narrare un’esperienza di periferia geografica anche all’interno della parrocchia urbana o rurale meglio organizzata o aggruppata.

 

Le periferie esistenziali

Quando ci addentriamo nel leitmotiv della visione pastorale di papa Francesco, ci si apre ovviamente davanti un mare magnum di situazioni e di casistiche umane e sociali che cercare di definire in maniera esauriente è quantomeno utopistico. Quelle con cui aprivamo l’articolo, citando il cardinal Bergoglio al conclave, sono solo alcune delle realtà con cui abbiamo quotidianamente a che fare. Certamente, in quel frangente alla mente del papa tornavano le parole del Documento conclusivo della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e caraibico celebratasi ad Aparecida nel 2007, ritenuta un «faro ispiratore» nella traiettoria pastorale di Bergoglio. Al paragrafo 8.6 si parla dei volti sofferenti del Cristo presenti nel continente latinoamericano, ma che possono benissimo essere presi a paradigma per le forme di perifericità esistenziale presenti in ogni parte del mondo: i senzatetto che vivono nelle strade della grandi città, gli emigranti e i rifugiati politici, i profughi, i malati (specialmente quelli cronici e terminali, o colpiti dalla piaga mai debellata dell’AIDS), chiunque viva una forma di dipendenza (dall’alcool, dalla droga, dal gioco), i carcerati. A essi aggiungiamo i giovani disoccupati e quelli discriminati da gravi forme di bullismo, le famiglie immerse in situazioni di disagio sociale, le persone colpite da gravi calamità naturali, interi paesi che vivono nell’ombra del terrorismo locale o internazionale, oppure in tutte quelle situazioni tipiche di «una terza guerra mondiale vissuta a pezzetti», per dirla ancora con le parole di papa Francesco. Da ultimo, ma non per importanza, tutte quelle forme di nuova povertà che caratterizzano, nella nostra società postmoderna, alcune situazioni di vulnerabilità sociale sempre a un passo dal crollo nel baratro della miseria: e qui, gli «esclusi» sono coloro che faticano ad accedere alla vita sociale, o per i quali si crea uno svantaggio generalizzato come somma di più condizioni legate alla qualità relazionale e ai bisogni sociali.

 

Le periferie spirituali e religiose

Nonostante ci sia una sostanziale appartenenza di queste ultime alla sfera delle periferie esistenziali, ci tengo a fare una specifica distinzione, perché su questo punto vedremo anche la necessità di un differente approccio dal punto di vista delle istanze pastorali. Ci sono molte persone che vivono al margine della società, e in particolare della dimensione ecclesiale per motivi non precisamente economici, ma di tipo culturale, morale, valoriale, antropologico, psicologico e, più in generale, spirituale e religioso. Non è per niente difficile scorgere queste periferie tra i pianerottoli dei nostri condomini, nelle ville lussuose iperprotette da accurati sistemi antintrusione, tra i banchi di scuola, nei luoghi di lavoro dove ottenere un impiego continua a essere una conquista. Si tratta spesso di persone di ceto sociale medio-alto che a una profonda preparazione culturale e intellettuale non sempre associano l’assimilazione altrettanto profonda dei valori che contano nella vita; vi dimorano insegnanti e genitori che assistono impotenti al disgregarsi dell’istituzione scolastica sotto i colpi del disinteresse e del qualunquismo; vi abitano persone di differenti culture, etnie, lingue e religioni, la cui convivenza in un unico condominio diviene un drammatico faccia a faccia quotidiano; vi risiedono professionisti della finanza e dell’economia talmente abituati a speculare su azioni e titoli telematici che non si fanno alcuno scrupolo a manipolare e speculare su corpi e vite di tante persone soggette ai loro giochetti.

Mentre la sfera più direttamente religiosa e spirituale, quella con cui ogni giorno ci confrontiamo nell’agire pastorale, è abitata, oltre che dagli utilizzatori temporanei del sacro, anche da persone che credono di avere un’intensa vita spirituale, ma che in realtà allontanano gli altri, e di conseguenza se stessi, dall’incontro con la grazia salvifica di Dio. In corrispondenza delle periferie del sacro troviamo chi, ai sacramenti, accede solo in occasioni di una festa o di un lutto; chi delega l’educazione cristiana dei propri figli a un’agenzia educativa spesso non del tutto preparata a questo (e nel nord da cui scrivo non possiamo dimenticarci di ringraziare il Signore e di benedirlo per l’opera preziosa – laddove ancora esiste – degli oratori e dei centri giovanili); chi confonde la fede con il precetto o con l’erogazione di un servizio, e non accetta che «i sacramenti non si pagano», e vuole sapere quanto costa una messa di suffragio; chi ti chiede l’eccezione di ammettere comunque al sacramento della confermazione il figlio che non ha mai partecipato agli incontri di catechesi perché «lui va a scuola dalle suore». Questi utilizzatori temporanei del sacro hanno dei concittadini, in queste periferie, che si comportano in maniera diametralmente opposta nei confronti di Dio, e con i loro santi atteggiamenti «separano» e «si separano» da Dio. Uso il verbo farisaico di «separare» per richiamare non a caso la setta ostile a Gesù, alla quale, oggi, appartengono alcuni che – convinti di vivere nel centro, nel cuore della fede – in realtà sono essi pure periferici rispetto al volto genuinamente misericordioso di Dio. E all’interno di queste periferie prendiamo dimora anche molti di noi, uomini e donne «di Chiesa», che «periferizziamo» le persone dal sacro in nome del rispetto delle leggi ecclesiastiche, dell’osservanza del Diritto canonico, dell’applicazione rubricistica delle norme liturgiche, di presunte o vere indicazioni pastorali diocesane, di decisioni prese in un consiglio pastorale che, finché rimarrà consultivo, di «consiglio» avrà gran poco. In questo vortice delle periferie spirituali – spesso supportati da fratelli e sorelle laici molto più clericali di noi – trasciniamo soprattutto i più deboli: coloro che già faticano a vedere il volto misericordioso di Dio nella comunità ecclesiale, coloro che vengono da fallimenti e drammi nella loro vita affettiva e per di più devono sentirsi «fuori dalla comunione con la Chiesa», coloro che vorrebbero dare una mano in parrocchia ma si sentono dire che «ci siamo già noi», coloro che di fronte alla proposta di nuove idee si sentono rispondere «abbiamo sempre fatto così».

 

Implicanze pastorali

Lasciamoci con qualche elemento di speranza, perché, in fondo, è ancora possibile, e pure bello ed entusiasmante, abitare le periferie dell’umanità presenti sul nostro territorio, sul territorio delle nostre parrocchie, nella misura in cui operiamo una metanoia, una radicale conversione pastorale che, prima ancora che al cambio di strutture caduche e obsolete punti, in noi e nelle nostre comunità, a un serio cambio di mentalità.

 

Sdoganare e decentralizzare la pastorale

Rispetto alle periferie geografiche, penso che si debbano mettere in atto due movimenti, tra di loro interfacciabili ma anche indipendenti, poiché si muovono su ambiti differenti. Il primo rimanda a una specie di «sdoganamento» delle pratiche pastorali, in altre parole quello per cui non si debba essere più legati in maniera tassativa, come ancora un po’ capita, al concetto di territorialità parrocchiale. Oggi il concetto di parrocchia legata a un determinato territorio si è molto liquefatto: la parrocchia deve avere sempre attinenza al territorio nel senso di un costante dialogo con tutto l’ambito sociale e civile, soprattutto a proposito di temi di comune interesse, ma lo deve fare senza l’eccessiva preoccupazione di rinchiudere i propri parrocchiani in un’idea di territorialità che ormai non regge più. Oggi la mobilità e la fluidità delle relazioni tra le persone fa in modo che la pratica religiosa (almeno quella domenicale, là dove essa tiene ancora) si giochi su luoghi che non sempre sono quelli di residenza o di appartenenza giuridica. Molta gente partecipa alla messa in parrocchie o chiese «altre» rispetto alla sua per vari fattori: per legami affettivi o di origine, per motivi devozionali, per praticità legate al luogo del lavoro, per un concetto di famiglia allargata che spesso porta un genitore a visitare i suoi figli e a partecipare con loro alla vita ecclesiale nel paese di residenza dell’ex coniuge, oppure anche per maggior simpatia e affinità con lo stile pastorale di un sacerdote piuttosto che di un altro. Credo che nessuno di noi si debba, per questo motivo, sentire gelosamente defraudato di uno o più parrocchiani, purché essi partecipino alla pratica religiosa, alla quale per di più possono accedere presso le nostre parrocchie anche fedeli di altre giurisdizioni. E a tal proposito, forse è bene iniziare a «sdoganare» anche qualche aspetto giuridico legato alla territorialità, ossia quello per cui una famiglia possa scegliere di celebrare i sacramenti dell’iniziazione cristiana in altre parrocchie, magari quelle concernenti i criteri di cui sopra. Un discorso a parte merita il sacramento del matrimonio, in quanto l’aspetto giuridico è maggiormente vincolante, per via del matrimonio concordatario: anche qui, però, si deve certamente concedere una maggior flessibilità nella scelta del luogo, dal momento che è già di per sé raro vedere due giovani che decidono di consacrare il loro amore di fronte a Dio e alla Chiesa. Il lavoro di coordinazione tra parrocchie dello stesso vicariato o decanato, così come la prassi ormai assodata in molte diocesi delle cosiddette unità pastorali tra più parrocchie, danno sicuramente una mano nel cercare di superare l’impasse giuridico-territoriale.

Se questo primo aspetto ha una valenza soprattutto interparrocchiale, l’aspetto della decentralizzazione della pastorale ha invece un risvolto interno alla singola parrocchia. Mi riferisco al fatto che non si può più considerare la chiesa parrocchiale e le strutture a essa connesse (oratorio, sale parrocchiali, casa canonica, centro pastorale, ecc.…) come luogo unico dell’annuncio, al quale tutti debbano accorrere per creare e sentirsi comunità. Oggi la Chiesa per sentirsi comunità deve costruire questo concetto sulla relazionalità, ovvero sulla sua capacità di entrare a contatto con i problemi della gente, nei luoghi dove essa vive. Tra l’altro, molte delle nostre parrocchie, soprattutto quelle di antica tradizione o con forte connotazione storico-culturale, hanno luoghi significativi di presenza ed espressività religiosa: una cappella devozionale, piuttosto che una chiesina periferica, o una statua di un santo collocata in una piazza, oppure la cappella di un ricovero, così come lo stesso camposanto, meta di quotidiane visite e luogo di preghiera per eccellenza. Impariamo a celebrare di più là dove la gente vive e trascorre le proprie giornate, curando ovviamente sempre che le liturgie siano fatte con decoro e che favoriscano la partecipazione. Se anche, in un giorno feriale, in una chiesa parrocchiale (o chiesa madre) non viene celebrato alcun sacramento perché all’interno del consiglio pastorale si fa la scelta di celebrare in un altro luogo, nessuno perde la fede. Anzi, ogni volta che ci avviciniamo alla gente con una celebrazione, una piccola processione, una via crucis nel tempo quaresimale, la recita del rosario sulle panchine di una piazzetta o in un cortile (o, nei luoghi di campagna, sull’aia delle cascine, come avviene nella mia parrocchia), premurandoci di salvaguardare il rispetto e la libertà anche di chi non crede, abbiamo riscontri immediati di condivisione e consolazione spirituale da parte degli abitanti di quella determinata zona, meglio ancora se marginale rispetto al centro o spesso esclusa da ogni tipo di partecipazione.

 

Rendere «reale» la forza centrifuga «apparente»

Le mie scarse reminiscenze scientifiche mi fanno ricordare che, in fisica, la forza centrifuga che pare spingere i corpi in movimento verso l’esterno, è di fatto solamente una forza apparente, in quanto – in riferimento al movimento della terra – si rimane comunque nello stesso posto sull’automobile anche quando si affronta una curva in velocità e ci si sente spinti all’esterno. Pastoralmente parlando, credo che sia bene che iniziamo a dare un valore reale a questa forza centrifuga apparente, ovvero a questa spinta della Chiesa verso l’esterno, verso le benedette periferie esistenziali di cui tutti parliamo anche abusando del termine. È il caso di dare una sistematicità a questo momento, a partire da ciò che già si fa nelle nostre comunità. Se c’è una ricchezza nelle nostre comunità parrocchiali e nei luoghi di volontariato in genere, è proprio quella dell’attenzione a tutte quelle situazioni esistenziali di disagio a cui spesso nessun altro fa caso. Valorizzando la ricchezza di questa esperienza, rendiamola sistematica attraverso un duplice movimento:

  1. rimettere i poveri al centro non solo della nostra prassi pastorale, della nostra riflessione teologica e della nostra eucologia e liturgia. L’opzione fondamentale per i poveri tanto cara alla Chiesa latinoamericana non è un fatto meramente sociologico ma, come disse papa Benedetto XVI nel discorso inaugurale ad Aparecida, «l’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà». Si tratta dunque di una scelta che è al tempo stesso teocentrica e cristologica. Tale scelta, tuttavia, non implica rifiuto o disinteresse nei confronti di coloro che non sono poveri, ma sottolinea chiaramente che i poveri hanno diritto al primo posto nelle preoccupazioni dei credenti;
  2. dare un’organizzazione sistematica e metodica a questa opzione per i poveri, creando in ogni comunità parrocchiale un ambito di riflessione e di attenzione alla carità. Non ci si può più permettere, alle soglie degli anni venti del secondo millennio cristiano, che ogni parrocchia non abbia la propria Caritas parrocchiale o un’altra realtà analoga, volta ad animare la comunità cristiana perché ogni fedele abbia a cuore la sorte dei fratelli e delle sorelle che soffrono e che abitano le periferie esistenziali. E questo, deve avvenire già a partire dalle giovani generazioni, alle quali sappiamo offrire catechesi, animazione e divertimento, ma difficilmente proponiamo concrete opere di carità e di attenzione agli ultimi.

 

Riportare noi stessi e la gente al cuore di Dio

Quella separazione tra la sfera spirituale-religiosa e la dimensione del vivere quotidiano di tanti nostri fratelli nella fede; quella separazione attuata da alcuni cristiani ritenentisi migliori e più meritevoli di altri perché presenti da più tempo come operai nella vigna del Signore, devono essere superate riportandoci tutti quanti al cuore di Dio, che è un cuore misericordioso, pronto ad accogliere tutti, ma veramente tutti, indipendentemente dalla loro traiettoria spirituale, dal fervore della loro preghiera, dalla sensibilità nella loro vita di carità. Non è più procrastinabile l’urgenza di un cambio epocale di mentalità rispetto alla vita delle nostre comunità parrocchiali, le quali purtroppo continuano a essere luogo di impegno solo per alcuni «eletti», che spesso si ergono a «privilegiati» in virtù dell’esperienza da loro acquisita negli anni. Abbiamo bisogno di attirare gente nuova nelle nostre comunità, gente che ci aiuti a vedere le cose con lo sguardo di quelli «di fuori», che anche se non è teologicamente corretto, è però antropologicamente arricchente.

È giunto anche il momento che la nostra prassi pastorale abbia il coraggio di fare scelte profetiche che, senza la necessità di stravolgere in maniera arbitraria la tradizione della Chiesa, dicano l’attenzione del cuore di Cristo verso chi è lontano spiritualmente forse anche per colpa di noi cristiani impegnati. E allora, se chi vive in una situazione affettiva irregolare dal punto di vista canonico forse vede ancora come un’utopia le aperture chieste con forza da papa Francesco nella Amoris laetitia riguardo alla comunione eucaristica a essi negata, di certo può profeticamente puntare già da subito a forme di partecipazione e di piena comunione con la propria Chiesa, a partire, ad esempio dalla possibilità di esercitare il ministero di lettore o di catechista in comunità, o di poter assumere il ruolo di padrino o madrina in un sacramento della iniziazione cristiana.

Oppure, quale impedimento ci può essere a che una persona che vive esplicitamente e stabilmente una relazione affettiva ritenuta «diversa» possa far parte di organismi collegiali di comunione nella parrocchia, come il consiglio pastorale o il consiglio parrocchiale per gli affari economici? E chi può mai eliminare il primato della coscienza in ogni persona che vive situazioni disagiate a livello sociale, familiare, affettivo?

È un processo inesorabile ma lento, che può durare parecchio tempo; basta invece un attimo a fare crollare il faticoso lavoro legato al cambio epocale, attraverso atteggiamenti farisaici di superiorità da parte di molti di noi «cristiani convinti e praticanti» nei confronti di coloro che accedono alla fede dopo percorsi tribolati, e desiderano anche solo ricevere comprensione all’interno della comunità.

 

Alberto Brignoli, parroco di Bolgare (BG), già missionario «Fidei donum» in Bolivia

 

[1] AAS, vol. LI, 1959, 65-69.

[2] Papa Francesco alla veglia di Pentecoste con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, 18 maggio 2013.