Emilio Baccarini, docente di filosofia morale Università di Roma Tor Vergata

Il titolo di queste note potrebbe apparire pretenzioso, in realtà nelle poche pagine che seguono, senza alcune pretesa di esaustività, vorrei semplicemente dare il senso del nomadismo che certamente costituisce lo sfondo antropologico, ma anche teologico nel primo Testamento e che, a mio avviso, permane anche nel secondo. «Gli antenati degli Israeliti e gli Israeliti stessi, all’inizio della loro storia hanno condotto una vita nomade o seminomade», così inizia il classico studio di R. De Vaux, Le istituzioni dell’Antico Testamento,[1] che, tuttavia, rileva che il popolo d’Israele non è stato nomade nel senso più autentico del termine. Il nomadismo, propriamente, ha a che fare con l’allevamento e con la vita nel deserto, ma in senso più ampio possiamo considerarlo come una «forma di esistenza sociale che implica spostamenti periodici per la sopravvivenza e la riproduzione del gruppo», come recita la definizione del Dizionario Treccani. Nella storia di Israele il vissuto profondo dell’esperienza nomadica si è trasformata in una categoria antropologica prima e spirituale poi ed è su questa trasformazione che vorrei fermare l’attenzione, perché ha ancora per noi oggi un significato di grande rilevanza. L’esperienza nomadica si è trasformata in storia santa, e lo stesso nomadismo ha perso i caratteri socio-economici per divenire un carattere antropologico-teologico permanente e indipendente. Se ne ricava l’invito a un’esistenza nomade anche nella più sedentaria delle realtà e in tal modo si apre la possibilità di un nomadismo spirituale che dovrebbe costituire lo specifico dell’autentica umanità e in particolare nella sua prospettiva credente. Sarà questo il senso del percorso che vorrei proporre nelle pagine che seguono. La questione abbraccia pressoché tutti i libri della Bibbia; per far emergere quel senso teo-logico del nomadismo che dicevo, fermerò l’attenzione su alcuni testi e personaggi più significativi. La storia di Abramo, innanzitutto, narrata nel libro della Genesi, che costituisce il vero paradigma fondativo dell’esistenza nomade; l’esodo dall’Egitto e l’esperienza della Pasqua; l’evento giubilare nel libro del Levitico e infine qualche riflessione sul Salmo 23 da cui ho preso il titolo e che mi sembra un autentico manifesto spirituale del nomadismo.  Come si vede, in queste poche pagine, più che uno studio sul nomadismo, mi limito a offrire delle suggestioni che possano divenire suggerimenti per un vissuto nomadico che consenta di ritrovare le radici della fede. La nostra riflessione ha necessariamente come proprio orizzonte costitutivo di senso il viaggio, l’essere umano come viandante, pellegrino; questa è infatti la caratteristica prima del nomade. Per la cultura occidentale, Ulisse e Abramo, al di là del mito e dei diversi orizzonti culturali e letterari a cui rinviano, possono essere assunti come figure archetipe, metafore essenziali e paradigmatiche dell’umano, come due diverse modalità di concepire il viaggio, come due diversi modi di abitare il mondo, infine, come rappresentanti di due diversi modelli che hanno strutturato la cultura e l’uomo occidentali. Tuttavia, diversa è la consapevolezza della presenza e dell’efficacia delle due figure nella storia e nella cultura dell’Occidente. Oserei dire che alla preponderanza di Ulisse corrisponde la quasi assenza di Abramo, se non nel contesto della fede, ebraica o cristiana. D’altra parte un archetipo, per la sua stessa natura, in quanto rinvio all’archè, non appartiene mai all’ordine della manifestazione, al piano del fenomeno, piuttosto costituisce lo scarto del non luogo, o luogo utopico originario dove è possibile attingere la significazione ultima dell’esistenza. La significazione archetipa, in questo contesto specifico, potrebbe suonare: «esistere è viaggiare». L’affermazione è apparentemente obsoleta nel tempo del turismo globale, condivisa dalle culture più diverse, eppure, mi sembra che non è mai stata portata a chiarificazione ultima, e forse è proprio questo il segno dello scarto che si diceva, l’eccedenza che rimanda sempre a un piano di alterità assoluta. La categoria di Homo viator, costituisce certamente un paradigma che attraversa l’intera autocomprensione dell’uomo occidentale. Ciò che non è stato sufficientemente indagato, almeno a me così sembra, è la specificità tipologica del viaggio che, come l’essere, può dirsi in molti modi. Infatti, il viaggio di ritorno (Ulisse) è altra cosa dal viaggio come partenza irreversibile (Abramo) e in questa diversità consiste proprio la differenza tipologica, con una conseguente differente modalità di «attraversamento» della differenza. I verbi che costituiscono il viaggio indicano una dinamica intenzionale che esigerebbe un’analisi fenomenologica specifica per approdare a una comprensione adeguata: partire, arrivare, attraversare, tornare. Un viaggio è sempre, necessariamente, sostenuto da una motivazione che lo origina e lo orienta manifestandone anche il «senso». Per definizione, infatti, il viaggio manifesta un «senso», come direzione e come significato, e quando questo senso manca, non è del viaggio che stiamo parlando, siamo piuttosto di fronte a un vagabondare «insensato». Ulisse e Abramo marcano, più di altre figure, la vicenda esistenziale come viaggio, sebbene si tratti di due viaggi con intenzionalità profondamente diverse, addirittura nel caso specifico si tratta di due viaggi che manifestano una sorta di intenzionalità «estranea», in modo differente una non-intenzionalità. I due viaggi, infatti, sono caratterizzati da due diverse «passività», la non-intenzionalità che si diceva: la punizione, per Ulisse, e la chiamata, per Abramo. Qui ci occuperemo esclusivamente della prospettiva aperta da Abramo da cui si origina un altro senso della storia e della vita.

Abramo: il più grande di tutti

Trovo di grandissima suggestione alcuni passaggi dell’Elogio d’Abramo che S. Kierkegaard scrisse in Timore e tremore[2] e che mi sembrano un’ottima introduzione anche all’approccio biblico. Scrive il filosofo danese: «…chi amò Dio fu il più grande di tutti […] chi sperò l’impossibile fu il più grande di tutti […] chi lottò contro Dio fu il più grande di tutti […] colui che credette in Dio fu il più grande di tutti […] Ci furono uomini grandi per la loro energia, per la saggezza, la speranza o l’amore. Ma Abramo fu il più grande di tutti: grande per l’energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follia, grande per la speranza la cui forza è demenza, grande per l’amore che è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa».

La storia di Abramo narrata dal libro della Genesi (11,27-25,18)[3] segna l’inizio della lunga peregrinazione di Israele, un inizio che è un’ingiunzione, un comando, con un verbo all’imperativo, che ha però le caratteristiche della chiamata che esige quindi fiducia: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore» (12,1-4). La partenza ha un che di definitivo che non prevede né rimpianto, né ritorno per il futuro. Significative le pagine della ricerca della sposa di Isacco (Gen 24), neppure il figlio della promessa può tornare all’indietro. Lo sguardo di Abramo è puro futuro, è speranza intrisa di fede come legge il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei. Ma proprio con la fede/fiducia nella promessa Abramo può attraversare da straniero le molte terre che lo separano dalla terra della promessa senza però la nostalgia della terra dei padri. La categoria dello straniero appartiene in maniera decisiva alla nomadicità, perché in essa si apre un’altra caratteristica, l’ospitalità, come vedremo più avanti. Abramo non ha «il male del ritorno», non cerca il radicamento nella terra, ma attende la terra del dono. In questa prospettiva Abramo abita un non luogo che è il suo presente, ma c’è una presenza che lo guida e continuamente lo rassicura. Abbandonati i riferimenti rassicuranti degli ancoraggi, la terra dei padri, l’esistenza nomade non ha più in se stessa la propria sicurezza, potremmo dire che è puro bisogno, perché totale dipendenza, e al tempo stesso è puro desiderio. Sono queste le caratteristiche della speranza nel suo significato teologico fondamentale. Abramo non avanza pretese, attende, ma nell’attesa attenta abita con gratitudine il presente di volta in volta donato. Nei capitoli 17, 18 e 22 del libro della Genesi, troviamo altre caratteristiche preziose per cogliere il senso più profondo del nomadismo biblico. Il capitolo 17 narra l’alleanza di Dio con Abramo che assegna al patriarca una nuova identità. «Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: “Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò molto, molto numeroso”. Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: “Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò. E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te usciranno dei re. Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. La terra dove sei forestiero, tutta la terra di Canaan, la darò in possesso per sempre a te e alla tua discendenza dopo di te; sarò il loro Dio”» (Gen 17,1-8). In questo passo, a mio avviso, di grande suggestione, troviamo alcuni elementi essenziali. Primo tra tutti l’affermazione dell’onnipotenza di Dio che istituisce un’alleanza che chiede in risposta fedeltà. Sono queste caratteristiche che ritroveremo anche nell’esperienza dell’Esodo. Il nomade, colui che cammina davanti a Dio nel tempo, sa che riceve tutto in gratuità esclusivamente a partire dalla sua fiducia. Nei versetti 17-22, la promessa del figlio Isacco, è il suggello dell’alleanza attraverso la circoncisione. La conferma della promessa del figlio avviene in un contesto che è diventato paradigmatico dell’esistenza nomadica, l’attenzione allo straniero e l’accoglienza. Essere nomade, soprattutto spiritualmente nomade, significa appunto questa attenzione allo straniero, al bisognoso. L’ospitalità ne è in qualche modo il segno distintivo. L’episodio narrato di quanto accadde alle querce di Mamre può essere letto su più registri,[4] qui mi limito esclusivamente all’attenzione-attesa dello straniero che può essere «angelo», messaggero di Dio. In realtà la teofania narrata dal testo della Genesi è molto particolare, sembrerebbe un’antropo-teofania. Il fulcro della scena, nonostante tutti gli eventi narrati, è la ripresa della domanda: «C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore?» (v. 14). Questa impossibilità può spingersi fino a chiedere ad Abramo di sacrificargli Isacco, il figlio della promessa?[5] Nell’economia di queste riflessioni mi limito a osservare che la conclusione della narrazione riprende il contenuto dell’alleanza che fonda la promessa attraverso la richiesta della fiducia-fedeltà del capitolo 17. Qui leggiamo: «L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (22,15-18). Da questi pochi cenni si comprende perché l’esistenza di Abramo costituisca l’archetipo del nomadismo. Il modello che egli suggerisce ancora oggi, nell’esperienza della ridefinizione dell’identità, è particolarmente significativo. L’esistenza più autentica non si produce nella stasis, nella stanzialità, bensì nell’exstasis, nell’uscire fuori da sé rispondendo a una chiamata.

Vediamo ora brevemente un altro paradigma di nomadismo che troviamo nelle pagine della Bibbia, nel libro dell’Esodo.

Mosè l’esperienza della liberazione

L’esodo è quasi per antonomasia la categoria che definisce la nomadicità dell’esistenza, l’uscita verso la libertà e quindi un processo di liberazione. Soprattutto è diventato un paradigma socio-politico dell’intera storia dell’umanità tra i più utilizzati nel corso dei secoli.[6] Oppressione e schiavitù sono certamente situazioni di negazione dell’umano tutt’altro che rare, ma la narrazione biblica, credo che vada oltre questo paradigma senza tuttavia eliminarlo, bensì ricomprendendolo dentro un orizzonte più ampio. La teo-logica che si manifesta nella narrazione è un messaggio per l’intera umanità, oserei dire al di là di una vita credente. La logica di Dio è rivelazione di un messaggio all’umanità, per l’umanità. Il libro dell’Esodo si può considerare il libro delle origini specifiche del popolo d’Israele. Contiene infatti le strutture fondamentali della fede, dell’identità e della vita d’Israele. Sullo sfondo permane il viaggio verso la terra della promessa, ma ciò che accade durante questo viaggio ha una valenza assolutamente unica: il Signore, mediante Mosè, rivela il proprio Nome al popolo; in vario modo fa sperimentare la propria presenza come conduttore del suo popolo. Soprattutto la celebrazione della Pasqua permette a ogni generazione di Ebrei, fino a oggi, di rivivere e riappropriarsi della liberazione dalla schiavitù. Mediante l’alleanza al Sinai, Israele diviene il popolo di Dio, con l’impegno di osservarne la legge. La vocazione di Mosè è nella continuità del cammino di un popolo, ora oppresso e reso schiavo, verso la terra che Dio gli ha promesso. In questo cammino la rivelazione del nome di Dio è forse uno degli eventi più rilevanti della storia dell’umanità, almeno da un punto di vista filosofico-teologico. «Io sono colui che sono» traduce la versione italiana. La traduzione dei Settanta ha «Io sono l’essente», l’ebreo traduce al futuro, «io sarò colui che sarò». Non è la sede di discussione filosofica o teologica, ma ciò che è rilevante è che Dio si fa conoscere, entra in una relazione personale con il suo popolo. La narrazione dell’evento della Pasqua è certamente tra i più suggestivi. C’è l’urgenza di un viaggio, il viaggio verso la libertà, che sta per iniziare: «Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore!» (12,11). La vita nel deserto, il lungo viaggio, ha quasi il senso di una lunga purificazione, di una trasformazione del popolo di Israele, nel popolo santo di Dio attraverso il quale tutte le nazioni saranno benedette. La descrizione della partenza, di grande bellezza anche dal punto di vista letterario, introduce però immediatamente anche l’elemento costante di tutto il viaggio, la presenza di Dio come compagno di viaggio: «Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo, né la colonna di fuoco durante la notte» (13,21-22). La certezza della presenza di Dio costituisce una delle caratteristiche essenziali di un viaggio che sa di andare verso una direzione anche senza sapere qual è. Da un punto di vista esistenziale, è questa l’esperienza credente fondamentale, ma la certezza della fede, per definizione, non è quella del sapere. Nel deserto il popolo di Israele fa l’esperienza della fedeltà di Dio, nonostante la «dura cervice» che lo caratterizza. Le narrazioni dei capitoli 16-19, dopo l’inno di lode e ringraziamento del capitolo 15, riguardano tutte segni della sollecitudine di Dio, l’acqua, la manna, le quaglie. Camminare all’ombra di Dio significa essere consapevoli che Dio è affidabile, ma che richiede anche all’uomo la sua disponibilità. In questa prospettiva uno dei momenti più alti di tutto il libro dell’Esodo è la teofania del Sinai, narrata nel capitolo 20, in cui Dio rinnova il patto con il suo popolo attraverso l’osservanza delle dieci parole. I «comandamenti», come abitualmente chiamiamo le dieci parole non sono soltanto norme di comportamento morale, bensì le clausole del patto con cui Dio e l’uomo si uniscono in un’esistenza significativa. La relazione di Dio con l’uomo accade, diviene reale attraverso il rispetto delle dieci parole. Rinviando alla lettura integrale del capitolo, mi limito qui a leggere quella che può essere considerata la clausola essenziale, la premessa: «Dio pronunciò tutte queste parole: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti» (20,1-6).[7] Dopo il rinnovamento dell’alleanza, Dio camminerà concretamente nell’Arca insieme al suo popolo. La conclusione del libro dell’Esodo riprende l’inizio del viaggio di fuga dall’Egitto, ma ora con spirito totalmente diverso. Leggiamo: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora. Per tutto il tempo del loro viaggio, quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli Israeliti levavano le tende. Se la nube non si innalzava, essi non partivano, finché non si fosse innalzata. Perché la nube del Signore, durante il giorno, rimaneva sulla Dimora e, durante la notte, vi era in essa un fuoco, visibile a tutta la casa d’Israele, per tutto il tempo del loro viaggio» (40,34-38).

Giubileo

«Il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai e disse: “Parla agli Israeliti dicendo loro: ‘Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà’”» (Lv 25,1-6).[8] Questo è l’inizio un po’ sconcertante del capitolo 25 del libro del Levitico e che io vorrei mettere in correlazione con la prospettiva nomadica. In realtà io sono convinto che esista una profonda affinità tra una visione nomadica e una visione sabatica dell’esistenza. Le accomuna, a mio avviso, una fondamentale logica della gratuità,[9] che non significa rassegnazione o passività deresponsabilizzata, bensì consapevolezza di essere situati dentro un orizzonte ontologico e, a maggior ragione teologico, di donatività. Il nomade non possiede perché sa che tutto gli è dato e che la sua stessa esistenza, come dono, non gli appartiene, ma gli è data per essere donata. L’esistenza nomadica come quella sabatica sono penetrate da una fondamentale libertà, non come stoica apatia o indifferenza, bensì come responsabilità; responsabilità dello spazio-tempo che si abita e di coloro che di volta in volta incontriamo. È la libertà della non-dipendenza che sa riconoscersi come bisognosa di tutto e quindi dipendente. La prospettiva nomadica, come quella sabatica, indicano il riconoscimento della signoria di Dio, che non produce servitù, ma appunto libertà, secondo l’espressione evangelica, la libertà dei figli di Dio.

Articolo pubblicato su Orientamenti Pastorali n.12 del 2017 (tutti i diritti riservati)

 

[1] Marietti, Casale Monferrato 1964, 13.

[2] Edizioni di Comunità, Milano 1971, 40 ss., cit. 41-42.

[3] Per una introduzione filologico-teologica rimando al bel libro del biblista W. Vogels, Abramo. L’inizio della fede, Cinisello Balsamo 1998. Un’attualizzazione interessante ne fa A. Ségal, Abraham. Enquête sur un patriarche, Paris 1995. Una lettura particolarmente suggestiva proprio nell’ottica del nomadismo, che di per sé suggerisce estraneità al luogo, ma proprio per questo anche ospitalità, è fatta da C. Monge, Stranieri con Dio. L’ospitalità nelle tradizioni dei tre monoteismi, Milano 2013, che alla figura di Abramo dedica la sezione conclusiva del suo libro: Storia della ricezione e dell’interpretazione di Genesi 18 (le querce di Mamre).

[4] Per un adeguato approfondimento rimando al testo già citato di C. Monge e alla relativa bibliografia. Nell’ottica dell’incontro dei tre monoteismi si può vedere anche M. Giuliani, Le tende di Abramo, Trento 2007.

[5] Con grande coraggio e profondità si pone di fronte a questa domanda S. Kierkegaard, nell’opera che ho citato sopra.

[6] Si veda M. Walzer, Esodo e rivoluzione, Milano 2004 (1986).

[7] Nel libro del Deuteronomio, com’è noto, saranno ripresi molti temi dell’Esodo.

[8] La terra della promessa, ormai conquistata, non è un possesso, ma bisogna abitarla secondo la logica di Dio. Invito a leggere l’intero capitolo.

[9] Un passo del Deuteronomio lo ricorda esplicitamente: «Guàrdati dunque dal dire nel tuo cuore: “La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze”. Ricòrdati invece del Signore, tuo Dio, perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri. Ma se tu dimenticherai il Signore, tuo Dio, e seguirai altri dèi e li servirai e ti prostrerai davanti a loro, io attesto oggi contro di voi che certo perirete! Perirete come le nazioni che il Signore sta per far perire davanti a voi, se non avrete dato ascolto alla voce del Signore, vostro Dio”».