Armando Matteo
Introduzione. Da noi non si aspettano più nulla
Il punto di partenza più consono per le riflessioni qui proposte è offerto da un’illuminante quanto efficace parola di Pierangelo Sequeri. Egli afferma: «La buona notizia è questa: ogni generazione viene al mondo con i fondamentali che deve avere; sono idealisti come noi, goffi come noi, teneri come noi, stupidi come noi che volevamo cambiare il mondo ogni momento. La cattiva notizia è questa: trovano noi. E noi siamo un po’ cambiati».[1]
Nella sostanza il teologo milanese ci invita a prendere atto della seguente situazione. Ogni nuova generazione che viene al mondo possiede tutto quello che deve possedere per fare il proprio mestiere, compresa quella posta al centro della nostra riflessione: la generazione nata dopo il 1981. Il vero nodo problematico resta sempre lo spazio di manovra che a ogni nuova generazione lasciano o consentono quelle che la precedono e questo dipende direttamente dal loro modo di essere e di interpretare la propria parte nel mondo. Ebbene, Sequeri afferma che le generazioni già presenti al mondo – è qui il riferimento è essenzialmente alla generazione dei Boomers (1946-1964) e alla “generazione X” (1964-1980) – sono un po’ cambiate. Da parte mia calcherei un po’ la mano dicendo che per la precisione queste due ultime citate generazioni si sono parecchio “rimbecillite”.
Unicamente una tale impostazione del discorso, che prevede dunque di chiamare in causa anche il mondo degli adulti, potrà assicurare l’effettiva comprensione della sfida che oggi il mondo giovanile pone alla comunità cristiana. E la sfida in termini generali è presto detta: la maggior parte del mondo giovanile non si attende più nulla dalla Chiesa (o almeno, da questa Chiesa che siamo noi)!
Per quanto urticante tale ultima affermazione possa suonare alle nostre orecchie, almeno in termine generali, essa è pure presente nel Documento preparatorio della prossima XV Assemblea ordinaria generale del Sinodo dei vescovi, prevista per il mese di ottobre 2018 e dedicata al tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». Vi si può leggere: «l’appartenenza confessionale e la pratica religiosa diventano sempre più tratti di una minoranza e i giovani non si pongono “contro”, ma stanno imparando a vivere “senza” il Dio presentato dal vangelo e “senza” la Chiesa».[2]
I giovani, dunque, stanno imparando a vivere senza Dio e senza Chiesa. Si tratta pertanto di una vera e propria «crisi di fede», alla quale è pure direttamente collegata l’altra questione, di cui si occuperà il Sinodo: quella del discernimento vocazionale. Non a caso sempre il Documento preparatorio afferma nitidamente: «La fede, in quanto partecipazione al modo di vedere di Gesù (cf. Lumen fidei, 18), è la fonte del discernimento vocazionale».
Le annotazioni che seguono ora puntano a mostrare che non è possibile capire ciò che capita nel mondo giovanile e quali sfide esso porta a livello ecclesiale e pastorale, se non si tiene contemporaneamente conto di quanto sta succedendo nel mondo degli adulti, in particolare nelle due generazioni prima citate.[3]Lo stesso papa Francesco ci indirizza a questa prospettiva: sia quando in Evangelii gaudium, n. 70, afferma senza mezzi termini la necessità di prendere atto di un’autentica rottura nella trasmissione generazionale della fede nel popolo cattolico; come a dire che se i giovani stanno imparando a fare a meno del Dio di Gesù e della Chiesa, è dovuto al fatto che nessuno ha provveduto in modo corretto a mostrare come si vive da adulti con il Dio presentato dal vangelo e con la Chiesa! Sia quando, più recentemente, e cioè nel Discorso alla Curia per gli auguri natalizi del 2017, ha affermato: «Chiamare la curia, i vescovi e tutta la Chiesa a portare una speciale attenzione alle persone dei giovani, non vuol dire guardare soltanto a loro, ma anche mettere a fuoco un tema nodale per un complesso di relazioni e di urgenze: i rapporti intergenerazionali, la famiglia, gli ambiti della pastorale, la vita sociale».[4]Sulla base di queste prime veloci considerazioni, si struttura l’itinerarium mentis del presente contributo: il punto di partenza sarà quello di contornare ciò che nel suo titolo è annunciato come «la fuga dei giovani», attraverso l’ascolto delle ricerche sociologiche dedicate al tema «giovani e fede»; il secondo passaggio si concentrerà in una lettura sintetica dei principali dati di queste ricerche; il terzo si soffermerà sulla «fede» degli adulti e su quel già anticipato loro rimbecillimento, e su come questo pesi sulla fede e sulla vita dei giovani; la parte conclusiva sarà dedicata a individuare alcuni percorsi/provocazioni attraverso i quali la comunità cristiana può «demolire muri e costruire ponti» verso il mondo giovanile attuale.
La grande fuga
Le indagini sul rapporto tra giovani e fede cristiana attualmente a disposizione sono davvero tante e molto qualificate.[5] Che cosa è possibile trarre di sintetico da queste numerose ricerche?
1) Il primo dato sintetico è il cosiddetto «salto generazionale»: il fatto cioè che coloro che sono nati dopo il 1981 rappresentano la fascia di popolazione più «lontana» dall’universo ecclesiale, in termini di dichiarazione di cattolicità, di affermazione del credere, di assiduità alla preghiera personale e alla frequenza ai riti religiosi. La cosa che colpisce è proprio lo stacco che cresce negli ultimi cinque-sei anni in modo progressivo: si passa da una differenza con le generazioni precedenti di 15-20 punti sino ad arrivare anche a 50 punti. Quindi siamo davanti a qualcosa di più di un semplice effetto di avanzamento della secolarizzazione. La differenza Nord-Sud riguarda solo la dichiarazione di cattolicità, con una maggiore punta al Sud. Mi permetto di citare solo l’indagine recentissima di Garelli: «Il trend di maggior rilievo è il forte aumento dei “non credenti” nel mondo giovanile, un fenomeno che si manifesta in forme diverse, componendosi di atei convinti, di indifferenti alla fede religiosa, ma anche di giovani che pur mantenendo un qualche legame con il cattolicesimo di fatto non credono in una realtà trascendente. La maggior parte di essi non ha ereditato l’ateismo o l’indifferenza religiosa dal proprio nucleo familiare, essendo perlopiù figli di genitori di cultura cattolica e avendo alle spalle periodi più o meno intensi di presenza negli ambienti ecclesiali (per il catechismo, per attività formative, per motivi di socialità). Prevale dunque una negazione di Dio dovuta più alla rottura di una tradizione che a “ragioni di nascita”, più all’uscita da un iter di formazione religiosa che alla sua assenza. Si tratta di soggetti che non hanno alcuna remora oggi a definirsi “senza Dio” e “senza religione”, a rendere pubblico questo orientamento sia nelle cerchie amicali sia nelle famiglie di origine, distaccandosi dunque da un sentire religioso ancora diffuso nell’insieme della popolazione».[6]
2) Il secondo elemento è che nelle nuove generazioni non c’è più una sostanziale differenza di genere. I mutamenti più evidenti sono esattamente sulla linea femminile. E questo è un grande inedito per il nostro cattolicesimo. Non c’è solo un effetto del ciclo di vita, ma la manifestazione di un cambiamento più profondo.
3) Provando ad andare più in profondità, troviamo che nei nostri ragazzi e nei nostri giovani la religione rimane quasi sempre e quasi solo come una sorta di «rumore di fondo», pur avendo per lunghi anni frequentano la parrocchia e l’insegnamento di religione a scuola. Insomma, dopo 1000 minuti di prediche, 5000 minuti di catechismo e 500 ore di religione a scuola, nella maggior parte di loro la religione non incide quasi per nulla sul processo di creazione/definizione della propria identità adulta.
4) In molti resta una sete di spiritualità. Non raramente, tuttavia, essa presenta un carattere anarchico e molto centrato sul soggetto: si muove cioè più nella direzione di una sorta di benessere e sostegno psicologico che non in quella dell’apertura all’alterità. In ogni caso una tale ricerca della spiritualità alternativa non è così forte o così diffusa. Saremmo cioè di fronte a degli «spirituali non praticanti». Annota al riguardo Stefania Palmisano: «sebbene il milieu olistico registri una crescita di attrazione rispetto al passato, questo andamento non prefigura una rivoluzione spirituale né tantomeno un’epidemia esoterica. I frequentatori di scuole di yoga e di meditazione, di gruppi zen, di cerchi di danze sacre, di viaggi sciamanici, di corsi sui cavalli, vite precedenti, feng shui e musica delle piante – fossero tutti motivati da ragioni spirituali – rappresentano una quota ridotta della popolazione giovanile (al più il 15%). Si potrebbe ipotizzare, come fanno alcuni intervistati, che la spiritualità alternativa sia soprattutto «un affare per adulti». Socializzati al cattolicesimo quando era un destino perlopiù ineluttabile, essi scoprirebbero oggi, svincolati dai legami sociali che li trattenevano nei circuiti tradizionali, il fascino della spiritualità contemporanea, con il suo «fai da te», l’enfasi sul benessere mind body spirit, la ricerca di autenticità in sintonia con il sé interiore. Ma i pochi dati disponibili sulla popolazione adulta non paiono confermare questa ipotesi. Eppure, il processo di «spiritualizzazione» di molte sfere sociali (dai luoghi di lavoro al fitness, dalla ristorazione al remise en forme) e dell’industria culturale testimoniano l’influenza di questo fenomeno sulla vita del paese. Ma il paradosso è solo apparente: la ricerca rivela che il nomadismo spirituale dei giovani italiani risulta più ideale che fattuale, più oggetto di intenzione che di pratica di vita».[7]
5) Emerge con particolare forza la centralità della testimonianza e dell’interesse religioso da parte degli adulti significativi e da parte dei pari, nel caso di gruppi giovanili religiosi, nel cammino verso l’interiorizzazione di un’identità religiosa integrata.
6) Ovviamente sono confermate alcune cose ampiamente conosciute:
- un deciso analfabetismo biblico;
- una forma di semicredenza verso molti contenuti del dogma cristiano e anche verso la stessa persona di Gesù Cristo;
- l’allergia verso una morale che si basi esclusivamente sul precetto e sull’interdizione;
- lo scandalo verso forme di ricchezza e di potere che ostentano o che ricercano alcuni rappresentanti della Chiesa;
- vi è quindi un giudizio negativo molto forte sulla Chiesa, della quale salvano solo papa Francesco e alcuni operatori pastorali, sebbene quasi mai si abbia un ricordo negativo delle esperienze religiose della fanciullezza e dell’adolescenza, nei termini di una religiosità repressiva, punitiva o colpevolizzante.
7) Un altro dato è il fatto che i giovani non riescano a cogliere la differenza qualitativa del vangelo rispetto ad altri testi del passato.
8) Non pochi giovani, infine, sottolineano che la novità di cui sono portatori in termini di aumento della disaffezione alla religione ha radici lontane: sicuramente nei genitori ma non è da escludere anche negli stessi nonni. Dicono di essere non la prima, bensì la seconda o forse la terza generazione incredula.
Quale domanda ci pone questo mondo giovanile?
I dati sopra riportati confermano che siamo sostanzialmente di fronte a una radicalizzazione delle difficoltà del rapporto tra la religione cattolica e il mondo giovanile. Confermano appunto che cresce «quell’ateismo giovanile» di cui parla il Documento preparatorio del Sinodo sui giovani. Ebbene, in quelle pagine si evidenzia – come già ricordato – che la maggioranza dei giovani sta imparando a vivere senza il Dio presentato dal vangelo e senza la Chiesa; i dati confermano pure il fatto che i giovani non stanno fermi: si muovono, cercano qualcosa, hanno domande. Sono in ricerca di senso.
Ma che cosa sta in verità capitando dietro tutto questo? Qual è la sfida? Quale è la domanda di fondo che produce un tale grande fuga dei giovani dalla comunità cristiana?
A mio avviso, è veramente possibile cogliere fino in fondo le ragioni dell’inedito credere/non credere dei giovani italiani e anche delle loro domande di senso, unicamente prendendo in considerazione le generazioni che hanno preceduto quella giovanile attuale. Per essere piuttosto diretti, la crisi di fede cattolica che qui si annuncia non è da addebitare alla generazione nata dopo il 1981, ma alla generazione degli adulti. Si tratta in verità di riconoscere che i dinamismi fondamentali della cinghia di trasmissione della fede, tra le generazioni, si sono inceppati. Ed è questa una verità che soprattutto la comunità dei credenti fa fatica a cogliere, a causa dell’eccessiva enfasi data al catechismo parrocchiale. In verità, il luogo ove ogni bambino può efficacemente imparare la presenza benevola di Dio, e cioè il fatto che Dio abbia qualcosa a che fare con la felicità, con la custodia e la promozione dell’umano, non sono prima di tutto la Chiesa o la lezione del catechismo, quanto piuttosto gli occhi e l’interesse religioso della madre e del padre, e a seguire gli occhi e l’interesse di tutti gli adulti significativi con cui viene a contatto, crescendo. Se è dagli adulti che le nuove generazioni ricevono l’orientamento fondamentale dell’esistenza verso Dio (di generazione in generazione, appunto, come ricorda benissimo papa Francesco in Lumen fidei 38), potremmo anche dire il primo annuncio, dobbiamo riconoscere che da quarant’anni a questa parte gli adulti non onorano più questo compito. Tantissimi giovani attuali sono in verità figli di genitori, di adulti, che non hanno dato più spazio alla cura della propria fede cristiana: hanno continuato a chiedere i sacramenti della fede, ma senza fede nei sacramenti, hanno portato i figli in Chiesa, ma non hanno portato la Chiesa ai loro figli, hanno favorito l’ora di religione ma hanno ridotto la religione a una semplice questione di un’ora. Hanno chiesto ai loro piccoli di pregare e di andare a messa, ma di loro neppure l’ombra, in Chiesa. E soprattutto i piccoli non hanno colto i loro genitori e gli adulti significativi con cui sono entrati in contatto nel gesto della preghiera o nella lettura del vangelo. A conferma di ciò, cito il dato trasversale a tutte le indagini per le quali dalle interviste effettuate con i giovani non emerge alcuna traccia di una preghiera fatta in famiglia. Inoltre, basterebbe prestare attenzione ai tanti adulti presenti nella tv: non pregano mai, non hanno alcuna devozione, non esercitano alcuna pratica di pietà.
C’è poi pure da tenere conto del significativo ampliamento della platea di adulti di riferimento per i nostri ragazzi e i nostri giovani, sin dalla tenera età. Questo è un fatto importante e decisivo per la decifrazione dell’umano da parte dei piccoli (si pensi a quanti docenti, pediatri, dentisti, istruttori incontrano). Si tratta, allora, di prendere atto che gli adulti attuali, la maggior parte di loro, hanno imposto una divergenza netta tra le istruzioni per vivere e quelle per credere; una divergenza che, pur non negando direttamente Dio, ha avallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e all’oratorio e pure la scuola di religione fosse un semplice passo obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della società. In una parola, la teoria del catechismo non trova riscontro nella pratica della famiglia e in generale degli adulti significativi, e la fede diventa una cosa da bambini e finché si è bambini. Si è dunque molto ridotto il catecumenato familiare e sociale, cioè quella silenziosa ma efficace opera di testimonianza del mondo adulto, che l’azione pastorale normalmente ancora dà per presupposta quale prima iniziazione alla fede.[8]
Il vero punto della nostra riflessione è allora il seguente. Terminata la vita in parrocchia, in oratorio, i giovani non sanno più rispondere a una semplice domanda: che cosa ha a che fare la fede con la vita adulta? E questo perché i loro adulti di riferimento non riescono più a mostrare questo legame tra adultità e fede. Sarò ancora più incisivo: gli adulti, in verità, non sanno più mostrare il senso stesso dell’adultità. E a mio avviso la domanda di senso dei nostri giovani è proprio questa: che cosa significa essere e dunque diventare adulto? Si può in verità affermare che è la scomparsa dall’orizzonte della coscienza adulta della bontà della relazione credente a creare un vuoto di testimonianza ovvero la testimonianza di un vuoto che interrompe la trasmissione della fede: in che modo una coscienza adulta si relaziona con il mondo alla luce della notizia della fede? Chi risponde oggi a questa domanda? Ovvero chi incarna oggi la risposta a questa domanda? Ma con questo non abbiamo mica detto tutto: ciò che in verità manca all’orizzonte della coscienza di coloro che hanno più di 35 anni è propriamente la verità dell’essere adulto.
Grandi atei crescono? Piccolo affondo socio-culturale
Se ha ragione papa Francesco ad affermare che è dagli adulti che la fede deve essere trasmessa alle nuove generazioni, si deve riconosce che la nostra società è ormai semplicemente «senza adulti». L’attuale fatica delle giovani generazioni a diventare adulti credenti (e anche semplicemente adulti) è legata al fatto che la stragrande maggioranza di coloro che hanno compiuto e oltrepassato i 35 anni d’età e che quindi sono sociologicamente adulti non ha più alcuna intenzione di investirsi nel nobile seppure difficile «mestiere dell’adulto». Questo fa sì che ci sia una discrepanza tra il suo essere adulta anagraficamente parlando e il suo impegno da adulto sotto il profilo delle relazioni educative e quindi della trasmissione della fede. La situazione è talmente ai minimi storici che il giurista Gustavo Zagrebelsky ha potuto dare alle stampe un piccolo volume intitolato Senza adulti, in cui sostanzialmente si domanda: «Dove sono gli uomini e le donne adulte, coloro che hanno lasciato alle spalle i turbamenti, le contraddizioni, le fragilità, gli stili di vita, gli abbigliamenti, le mode, le cure del corpo, i modi di fare, persino il linguaggio della giovinezza e, d’altra parte, non sono assillati dal pensiero di una fine che si avvicina senza che le si possa sfuggire? Dov’è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore? Ne ha preso il posto una sfacciata, fasulla, fittiziamente illimitata giovinezza, prolungata con trattamenti, sostanze, cure, diete, infiltrazioni e chirurgie; madri che vogliono essere e apparire come le figlie e come loro si atteggiano, spesso ridicolmente. Lo stesso per i padri, che rinunciano a se stessi per mimetizzarsi nella cultura giovanile dei figli».[9]
Ecco il punto: dove sono gli adulti? Cosa è successo cioè a quella abbondante fetta di popolazione che risulterebbe titolare di questo status che indica appunto persone mature, ben piantate, salde in se stesse, capaci pertanto di un affrontamento dell’esistenza che ha lasciato alle spalle le titubanze e i turbamenti delle precedenti stagioni della vita e che proprio in ragione di ciò può accompagnare le nuove generazioni nel cammino della crescita, che è sempre contemporaneamente cammino di decisione e di rinuncia? E che dovrebbero appunto testimoniare la bellezza dell’avventura cristiana? Per quanto sia difficile crederlo, adulti così ce ne sono sempre di meno. Di adulti cioè capaci di «dimenticarsi di sé per prendersi cura degli altri», secondo un’efficace definizione di questa età della vita. Del resto: proprio questa è la verità dell’essere adulto. L’adulto è chiamato a diventare «smemorato di se stesso», per realizzare una sua presenza responsabile e generativa nei confronti delle nuove generazioni. Ebbene, gli adulti non sono più all’altezza di tale verità. La ragione di questo triste dato di fatto si trova in una vera e propria rivoluzione copernicana circa il sentimento di vita che ha visto protagonista la generazione postbellica, quella nata tra il 1946 e il 1964, e che poi si è ormai diffusa anche nella generazione successiva, rintracciabile nei nati tra il 1964 e il 1980.
Per quella generazione (e la successiva) sostanzialmente al centro del compimento di un’esistenza umana non c’è la volontà di diventare adulto, e quindi responsabile della società e del suo futuro, ma quella di «restare giovane» a ogni costo. Scrive acutamente Francesco Stoppa: «La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla, al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane».[10]Il contenuto di questo ideale di giovinezza nulla ha a che fare con ciò che normalmente si intende con «spirito della giovinezza» o «giovinezza dello spirito», ovvero con il «sentirsi giovani dentro». La giovinezza come ideale è qui intesa piuttosto come grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l’affermazione della propria sessualità, del proprio successo, del proprio fascino, disponibilità ininterrotta a «fare esperienze», a completarsi e a rinnovarsi. Va da sé che qui non esiste più alcuno spazio per il lato etico-morale, educativo, specificante l’età adulta. Al contrario l’orizzonte di riferimento degli adulti attuali, evidenza Marcel Gauchet, è quello di «essere il meno adulti possibile, nel senso peggiorativo acquisito dal termine, sfruttarne i vantaggi aggirandone gli inconvenienti, mantenere una distanza rispetto agli impegni e ai ruoli imposti, conservare il più possibile delle riserve per altre possibili direzioni. La giovinezza assume valore di modello per l’intera esistenza».[11] Quella degli adulti è perciò una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo e sta procedendo a un inquinamento senza precedenti del nostro immaginario umano di base. Si pensi alla lingua che parliamo. La cosa che stupisce molto al nostro tempo è l’ampiezza con cui si utilizza l’aggettivo «giovane». Di persona deceduta con i 70 anni, è facile sentir affermare che «è morta giovane»; a un quarantenne-cinquantenne che aspira a qualche ruolo dirigenziale, nella società o nella Chiesa, è addirittura più comune che gli venga detto di pazientare: «sei ancora molto giovane»; viceversa se si parla di qualche fatto di cronaca che investe ragazzi di scuola media inferiore, i giornali non ci pensano due volte a rubricarlo sotto «disagio giovanile» o «bullismo giovanile»; pure nella comunità ecclesiale con l’espressione «incontro dei giovani» spesso capita di intendere una riunione di preadolescenti e di adolescenti, senza dimenticare infine le più recenti categorie di «giovanissimi», «giovani adulti» e «adultissimi». Tirato troppo verso l’alto o troppo verso il basso, il termine giovane sembra non essere più in grado di indicare quel gruppo specifico di cittadini che hanno un’età compresa tra i 15 e i 34 anni. Più precisamente giovane è ormai diventato un aggettivo ecumenico: non conosce frontiere né alcuna sorta di limite. E questo perché, per coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964 e tra il 1964 e il 1980, la giovinezza non può finire; non deve finire. Proprio da quest’amore per la giovinezza poi discende una lotta senza quartiere contro la vecchiaia e tutte le sue manifestazioni. Pensate alle tinte per i capelli, agli interventi estetici, alle creme e alle pillole blu, agli stili di vita «adulterati» degli adulti, alle manie dietetiche, ai lavori forzati in palestra, con lo jogging e il calcetto ecc… La pubblicità, inoltre, che ha studiato bene questo tratto degli adulti (che sono coloro che hanno concretamente poi i soldi), non usa altro linguaggio che quello della giovinezza e contribuisce all’inquinamento del nostro spirito. Per questo il mercato non offre (agli adulti in particolare) solo prodotti, ma alleati per lotta contro il tempo che passa, alleati per la giovinezza: lo yogurt che ti fa andare al bagno con regolarità, l’acqua che elimina l’acqua, le creme portentose che contrastano il cedimento cutaneo, nutrono i tessuti, proteggono dagli agenti patogeni, rimpolpano, ristrutturano, ecc…
E come non restare basiti rispetto all’idea principale della pubblicità per la quale il nemico numero uno sia la vecchiaia? Nulla si vende che prima non abbia, almeno come promessa, affermato di essere contro l’invecchiamento, anti-age. E la cosa funziona. Nonostante la crisi economica, il settore della cosmesi in Italia non conosce parole come stagnazione o recessione: il suo fatturato complessivo è in continua crescita.
Cosa non dire ancora della percezione diffusa delle età della vita? Quando finisce la giovinezza e quando inizia infatti da noi la vecchiaia? Lapidario è al riguardo Ilvo Diamanti: «Basti pensare che […] il 19% degli italiani pensa che la giovinezza possa durare anche oltre i 60 anni. Il 45% che finisca tra 50 e 60»; mentre «[…] Colpisce che il 35 per cento degli italiani con più di quindici anni (indagine Demos) si definisca «adolescenti» (5 per cento) oppure «giovani» (30 per cento). Anche se coloro che hanno meno di trent’anni non superano il 20 per cento. Peraltro, solo il 15 per cento si riconosce «anziano». Anche se il 23 per cento della popolazione ha più di sessantacinque anni. D’altronde, da noi, quasi nessuno «ammette» la vecchiaia. Che, secondo il giudizio degli italiani […], comincerebbe solo dopo gli ottant’anni. In altri termini, vista l’aspettativa di vita, in Italia si «diventa» vecchi solo dopo la morte».[12] E una tale vecchiaia che diventa nemico «numero uno» cambia il sentimento di vita.
Nessuno insomma ammette la possibilità di essere vecchio: quest’ultima è parola che non trovi neppure su wikipedia! Oggi vecchio è sinonimo di rimbambito, rincitrullito, babbeo. C’è forse oggi un complimento più bello per un adulto del «ma come sembri giovane!» e viceversa c’è forse oggi un’offesa della quale è possibile pensarne una maggiore del «ma come ti sei invecchiato!»? Se uno vuole rompere definitivamente le relazioni con qualcuno, basta, la prima volta che lo vede, fargli presente di quanto sia invecchiato, per constatare quella persona letteralmente sparire dal proprio orizzonte di vita. Ma se la vecchiaia a causa del mito della giovinezza finisce nel cono dell’irrealtà, nel cono della maledizione, nel cono di ciò che le persone per bene e politicamente corrette evitano di nominare, essa trascina con sé anche l’età adulta, che di fatti oggi nessuno onora più. Maledire la vecchiaia significa disconoscere la verità della finitezza dell’essere umano e la logica che ne preside allo sviluppo e cioè che «la rinuncia è la condizione della crescita» (Max Scheler).
La stessa malattia non è più interpretata come un messaggio – come sintomo – che ci giunge dal nostro corpo nella sua globalità (del tipo: non esagerare, mangia di meno, riposati ecc.), ma come un temporaneo e specifico blocco o disturbo da eliminare prima possibile, per riprendere la nostra pazza corsa, senza spesso sapere neppure dove andiamo. E cosa dire della morte? Oggi nessuno muore: basta guardare ai manifesti funebri. La gente scompare, viene a mancare, si spegne, compie un transito, si ricongiunge, ma nessuno muore! E la medicina ormai tratta la morte alla stregua di una malattia. Non a caso si parla della nostra come di società postmortale. Ma che umano è uno che non sa dare del «tu» alla morte? La grande sapienza filosofica di ogni tempo e cultura ci ha insegnato che uno diventa adulto solo quando è capace di questo «tu»: il tu alla morte. La giovinezza è pertanto la grande macchina di felicità degli adulti odierni, l’unica fonte di umanizzazione. È il bene. Per questo i maestri di oggi sono i figli, i giovani, ed è saltato in aria ogni possibile dialogo educativo. Ed è questa la vera crisi della famiglia oggi: l’assenza di distinzioni nette che permette una reale relazione tra adulti e giovani. L’educazione oggi è sinonimo di preoccupazione e di controllo, con l’unico scopo di non far crescere i figli, di modo che gli adulti possano continuare a «fare» i giovani. Sotto lo specifico della nostra analisi, il punto è che tutto questo non è solo questione di estetica, né solo di etica, né solo di pedagogia. La questione dell’adulto è questione teologica. Dio compare ogni volta che l’uomo cerca la propria felicità, il proprio ben-essere al mondo. Il segreto non detto della generazione adulta è il seguente: noi crediamo solo alla giovinezza quale luogo della destinazione felice dell’umano. Proprio una tale virata degli adulti verso il culto della giovinezza rende pertanto la loro testimonianza del vangelo della vita buona, la comunicazione verbale di Dio ai loro figli, quando c’è, una testimonianza scialba, esangue, inefficace. Qui si interrompe la sinergia tra Chiesa e adulti, tra Chiesa e mondo della famiglia, tra Chiesa e sentimento diffuso dell’umano, ed è per questo che la proposta della fede cattolica va a impattare, nell’universo giovanile, su un sequestro della questione della felicità e del compimento dell’umano da parte dell’idolo della giovinezza, che come abbiamo visto censura l’esperienza del limite, il lavoro della crescita e l’insuperabilità della fragilità e della malattia, e che conduce sino all’esorcizzazione linguistica della vecchiaia e della morte. Si tratta cioè di tutti quegli snodi vitali, su cui si costruisce il possibile incontro tra le generazioni e la trasmissione di un sapere dell’umano, toccato e fecondato dalla parola del vangelo. Ci piaccia o meno, noi adulti crediamo solo al Dio della giovinezza e questo solo riusciamo a testimoniare ai nostri ragazzi, che sempre più si interrogano su che cosa significhi diventare adulti, ed eventualmente adulti credenti; che sempre più sono alle prese con la realtà di essere giovani, ovvero alle prese con quel reale elementare che li contraddistingue: una condizione di totipotenzialità chiamata ad attraversare un processo di decisione dolorosa e inevitabile.
Demolire muri, costruire ponti
Come si dovrà allora attrezzare la comunità cristiana di fronte a tutto ciò? O meglio quale comunità cristiana oggi ci serve?
Serve una comunità cristiana che sappia obbedire al magistero del reale
La prima provocazione-sollecitazione è quella di rompere con quel tratto che viene sempre rinfacciato ai credenti di non saper fare i conti con quello che è dato loro di vivere, arrivando al paradosso di continuare a ripetere esperienze infelici, pur consapevoli del loro carattere altamente fallimentare. Bisogna invertire la rotta. Si tratta di imparare ad accettare che nelle famiglie non si preghi più, che nelle famiglie non si legga più il vangelo, che nelle famiglie non si parli più degli aspetti agonici dell’esistenza umana, sui quali poi si può sviluppare un discorso fecondato dalla prospettiva cristiana. Si tratta di accettare che la maggior parte degli adulti neppure lontanamente assomigli all’ideale proposto dal Documento preparatorio per il Sinodo sui giovani: «Il ruolo di adulti degni di fede, con cui entrare in positiva alleanza, è fondamentale in ogni percorso di maturazione umana e di discernimento vocazionale. Servono credenti autorevoli, con una chiara identità umana, una solida appartenenza ecclesiale, una visibile qualità spirituale, una vigorosa passione educativa e una profonda capacità di discernimento». Si tratta ancora di accettare che l’opzione della fede è oggi minoritaria ed è «da sfigati»; che oggi vivere la fede è più costoso.
Serve una comunità cristiana che sappia immaginare un nuovo modello di credente
Proprio in relazione a quest’ultimo punto, non è più possibile nel nostro lavoro con i giovani riferirsi a modelli di «credente» tanto utili nel passato anche recente: credente come colui che fa ciò che il parroco dice; credente come buon genitore e buon cittadino; credente come colui che accetta, anche contro le istanze della propria intelligenza, ciò che la Chiesa afferma come dottrina teologica e morale; credente come colui che firma l’8 per mille e vota secondo le indicazioni dei vescovi. È pertanto necessario riscrivere un modello del credente per oggi. La domanda vera per oggi è dunque la seguente: qual è il «prodotto finale» del cammino dell’iniziazione cristiana? Che cosa ci attendiamo dalla nostra azione con i giovani? E qui abbiamo due fonti di ispirazione molto chiare: La prima ci viene dalla Deus caritas est di Benedetto XVI, la quale ci ricorda che la fede è sempre e innanzitutto un incontro con la persona di Gesù che dà un orientamento fondamentale alla vita. La seconda è il numero 18 di Lumen fidei di papa Francesco, dove si fissa una volta per tutte che il credente è propriamente colui che non solo guarda a Gesù, ma che guarda il mondo con gli occhi di Gesù. Ebbene: quanta Scrittura c’è nei nostri itinerari di iniziazione cristiana, quanta mistagogia c’è in essi, quanta «scuola di preghiera» c’è in essi, quanta familiarità con lo sguardo di Gesù essi favoriscono?
Serve una comunità cristiana che assuma più decisamente la dimensione educativa
In una Chiesa sempre più «ospedale da campo», la vera «urgenza sangue» oggi è che i giovani trovino adulti «adulti» e che gli adulti ritornino a innamorarsi «del mestiere dell’adulto». Qui si tratta di usare «la filosofia dello schiaffo», per citare papa Francesco. Si tratta cioè di dire parole che danno fastidio, parole che risveglino gli adulti da quel rimbecillimento in cui sono caduti. Se non faremo sul serio con gli adulti, i giovani continueranno a non aspettarsi più nulla da noi. Loro non sono il problema. Loro sono la risorsa. Il problema siamo noi adulti. Si tratta di smettere di pensare ai giovani come «il» problema, ma appunto come la ricchezza, la risorsa. E di agire di conseguenza. Ma se nelle nostre comunità non si fa niente per i genitori e gli adulti (non dico: per i nonni), che messaggio speriamo di inviare ai giovani? Inoltre, se non aiuteremo gli adulti a onorare la vocazione elementare dell’umano (dimenticarsi di sé in vista della cura d’altri), la cultura delle vocazioni rischia l’estinzione. La vocazione all’adultità è la forma zero di ogni altra vocazione.
Serve infine una comunità cristiana che sappia «festeggiare»
Che meraviglia il numero 24 di Evangelii gaudium! «La Chiesa «in uscita» è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano». Di fronte a questa provocazione e con uno sguardo rivolto alla vita media di una parrocchia come non chiedersi: Ma la gente è depressa perché va in chiesa o va in chiesa perché è depressa? E quando parliamo così tanto delle nostre «comunità» non è che in fondo intendiamo parlare di comunità terapeutiche, visto che persone normali da noi sono una rarità? Aprirsi alla prospettiva del «festeggiare», significa recuperare il carattere «festivo» di ogni dimensione religiosa. Veniamo da un cristianesimo che ha puntato molto sul contenimento della paura della morte, e oggi nessuno pensa più alla propria morte. Oggi si desidera vita e vita in abbondanza. E a questo serve la parola del vangelo, la parola della gioia, la parola della gioia che nasce dal «dare gioia». Ebbene: come si può ascoltare una parola di gioia in una comunità che puzza di tristezza? Con i canti che facciamo (quando li facciamo, e non li esegue diabolicamente il solo coro parrocchiale), con la disattenzione costante all’inabilità di tutti di partecipare minimamente alla liturgia, con l’avallare la presenza di persone chiuse in se stesse, che dimenticano pure di spegnere il cellulare? Per questo il suggerimento è di prendere sul serio «la sfida di scoprire e trasmettere la «mistica» di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio […] Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in se stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo» (Evangelii gaudium, 87). La domenica deve diventare uno spazio di comunione vera e ricca di festa, nella quale sia possibile ospitare ciascuno con la sua vita faticosa, far dialogare le generazioni, celebrare l’esistenza in tutte le sue età, permettere la riconciliazione con il lato sfidante della vita, abilitare ciascuno al rito prezioso della benedizione come gesto elementare con il quale farsi innanzi allo scorrere sorprendente dei giorni.
È la festa che abbatte i muri e costruisce i ponti.
Armando Matteo, docente di teologia fondamentale Pontificia Università Urbaniana
(tratto da Orientamenti Pastorali 9-2018, EDB, tutti i diritti riservati)
[1] P. Sequeri, Intorno a Dio. Intervista di Isabella Guanzini, La Scuola, Brescia 2011, 20.
[2] Il documento è disponibile al sito www.synod2018.va. Al momento della stesura iniziale di questo contributo non era ancora disponibile l’Istrumentum laboris del sinodo sui giovani; per una nostra valutazione di questo ultimo testo, rinviamo ora al nostro saggio: Tutti giovani, nessun giovane. Le attese disattese della prima generazione incredula, Piemme, Milano 2018.
[3] Lo sfondo di quanto presentato in questo contributo è offerto dal mio volumetto: La Chiesa che manca. I giovani, le donne e i laici nell’Evangelii gaudium, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2018, da cui pure riprendiamo liberamente alcuni passaggi.
[4] Entrambi i documenti sono disponibili sul sito www.vatican.va.
[5] Cf. R. Grassi (a cura di), Giovani, religione e vita quotidiana. Un’indagine dell’istituto Iard per il Centro di orientamento pastorale, il Mulino, Bologna 2006; P. Segatti – G. Brunelli, «Ricerca de Il Regno sull’Italia religiosa: da cattolica a genericamente cristiana», in Il Regno/attualità 55(2010), 337-351; Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, Marcianum Press, Venezia 2000; F. Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, il Mulino, Bologna 2011; R. Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, il Mulino, Bologna 2011; A. Castegnaro, «Verso Aquileia: la fede del Nord-est. Una prospettiva individuale», in Il Regno/attualità 57(2012), 126-136; M. Marzano, Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia, Feltrinelli, Milano 2012; A. Castegnaro, Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso, Àncora, Milano 2013; Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2013, il Mulino, Bologna 2013 (ed edizione successiva del 2014); F. Anfossi – A.M. Valli, Il vangelo secondo gli italiani. Fede Potere Sesso. Quello che diciamo di credere e quello che invece crediamo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013; I. Crespi – E. Ruspini (a cura di), Genere e religioni in Italia. Voci a confronto, Franco Angeli, Milano 2014; A. Melloni (a cura di), Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, il Mulino, Bologna, 2014; M. Brambilla, Tu credi? Sguardo sull’identità religiosa dei giovani, Vita e Pensiero, Milano 2014; R. Bichi – P.Bignardi (a cura di), Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, Vita e Pensiero, Milano 2015; F. Garelli, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, il Mulino, Bologna 2016; I. Diamanti, «No a politica e religione. Per i giovani è l’epoca delle passioni tiepide», in la Repubblica, 30 ottobre 2017.
[6] Garelli, Piccoli atei crescono, 213.
[7] S. Palmisano in Garelli, Piccoli atei crescono, 209-210.
[8] Per una più ampia trattazione del tema, cf. il nostro Tutti giovani, nessun giovane.
[9] G. Zagrebelskj, Senza adulti, Einaudi, Torino 2016, 46-47.
[10] F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011, 9-10.
[11] M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010, 44; per approfondire il tema, rinviamo al nostro Tutti muoiono troppo giovani, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2016.
[12] I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, Milano 2009, 64.