Fortunato Ammendolia, Informatico e animatore della comunicazione e della cultura del COP, studioso di pastorale digitale

La vicenda è nota. Bari, domenica 19 luglio 2020. Nella mattinata un neonato di nome Luigi è arrivato nel reparto di neonatologia. Intorno alle 8.15, un segnale acustico sullo smartphone di don Antonio Ruccia, parroco in San Giovanni Battista, ha segnalato la sua presenza nella “culla per la vita” installata in un locale adiacente alla chiesa. Un’iniziativa, quella della “culla per la vita”, avviata dalla parrocchia qualche anno fa, proprio in collaborazione con il reparto di neonatologia del Policlinico di Bari. Un evento che rimanda all’antica “ruota degli esposti”, un cilindro in legno dove il neonato veniva posto; un campanello avvisava che il cilindro stava ruotando all’interno del centro di accoglienza; lì, il piccolo, veniva preso dalle mani della “rotara” che gli prestava i primi soccorsi.

La vicenda del piccolo Luigi – luogo, persone, enti, strumenti – ci permette di fare qualche considerazione di carattere pastorale.

Partiamo anzitutto dal luogo, ovvero dalla scelta di installare una “culla per la vita” presso una struttura parrocchiale. Ciò è segno di Chiesa che rende visibile il messaggio della sacralità della vita, sin dal suo concepimento: «Nessun bambino è un errore». È comunità che sa stare nella storia e che non può non esibire agli uomini di oggi vie alternative – di fatto “il male minore” – alla decisione di sopprimere una vita o dell’abbandonare un neonato senza la certezza che possa beneficiare di assistenza opportuna e immediata. In tal senso s’inquadra la legge della segretezza del parto; e in tal senso s’inquadra l’utilizzo di una “culla per la vita”, che pure garantisce l’anonimato del genitore. Due vie che affidano il neonato anzitutto alle cure di un reparto di neonatologia, e attivano i passi del tribunale dei minori verso l’affidamento. Una comunità che installa una “culla per la vita” è una comunità che si educa ed educa al non giudicare, a non escludere, a uno sguardo misericordioso insomma, il solo che può significare “attenzione” e destare “pensieri fino alla richiesta esplicita di accompagnamento” in chi ha deciso di distaccarsi dal proprio figlio, riponendolo in quella culla. Uno sguardo misericordioso che passa anzitutto nell’amplificazione mediatica che si fa di quell’evento di ritrovamento – buona comunicazione –. Ci tornano così in mente le parole di don Antonio Ruccia: «Non vorrei parlare di abbandono; è stato un atto di amore quello dei genitori che hanno lasciato il proprio figlio in un posto dove erano sicuri che sarebbe stato accolto e curato». Frasi in risposta a ciò che i genitori di Luigi hanno scritto, tra amore e sofferenza: «Ti ameremo per sempre».

Un’ulteriore osservazione pastorale vuole invece evidenziare una connessione che l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana sta perorando con la sperimentazione del progetto “Infermiere di comunità in parrocchia” in alcune diocesi italiane. La “culla per la vita”, mette insieme quell’azione di carità che è tipica del cristiano, con la giusta competenza medica (ed in questo caso anche con un iter legale): due metà che insieme guardano al bene del bambino. La “culla per la vita”, quindi, può essere d’ausilio al coordinatore di pastorale della salute, preposto per accogliere il grido di aiuto, e all’infermiere di parrocchia, chiamato ad attivare i collegamenti opportuni sul fronte sanitario. Per ragioni di privacy, la solidarietà permanente di una comunità parrocchiale dinanzi al ritrovamento di un bambino nella “culla per la vita” non potrà ovviamente che esprimersi nella preghiera. «L’episodio barese offre così uno spunto interessante per riflettere su come nel progetto “Infermiere di comunità in parrocchia” ci sia da tenere presente l’ordinario e il non prevedibile, in una storia che necessita di risposte in termini di Vangelo incarnato» (M. Lora).

Un’ultima osservazione pastorale riguarda lo “strumento” in sé. Quando si parla di pastorale digitale l’accento cade sul web e sui social media. Abitare il continente digitale è pure saper avvalersi dell’Internet delle cose: in modo intuitivo, una sorta di estensione della rete fatta di dispositivi intelligenti dotati di sensori che comunicano con altri dispositivi. Come nel caso della “culla per la vita”, i segnali che vi viaggiano possono codificare il grido di aiuto di un essere umano. Un esempio di come la tecnologia digitale possa essere usata in modo etico e a servizio della vita. Anche nel rispetto dell’anonimato. La struttura “culla per la vita”, infatti, grazie ai sensori e alle procedure informatiche, riesce a misurare parametri vitali del bambino, ad attivare l’allarme solo dopo che il genitore ha abbandonato l’ambiente, trasmettendo anche informazioni utili per il primo soccorso.

È il caso di dire: «Luigi, benvenuto nell’era 5.0, quella che, dal buon governo dell’innovazione tecnologica e della rivoluzione digitale, intende costruire attorno all’uomo un mondo equo, prospero, sicuro e sostenibile in cui potersi esprimere al meglio. Attivando connessioni».

Per quanti si apprestano a realizzare questa società resta attuale il monito rivolto nel 1981 da Giovanni Paolo II agli scienziati e rappresentanti delle Nazioni Unite: «La scienza e la tecnologia sono un prodotto meraviglioso della creatività umana che è un dono di Dio, dal momento che ci hanno fornito possibilità meravigliose, di cui beneficiamo con animo grato. Ma noi sappiamo che questo potenziale non è neutro: esso può essere usato sia per il progresso dell’uomo, sia per la sua degradazione […]. Oggi mi sento ispirato a dirvi questo: certamente è giunto il momento per la nostra società, e specialmente per il mondo della scienza, di rendersi conto che il futuro dell’umanità dipende, come mai prima d’ora, dalle nostre comuni scelte morali».