Giovanni Tangorra, docente di ecclesiologia presso la Pontificia Università Lateranense

 

Dopo la morte di un essere umano, si sprigiona sempre un senso di stupore

tanto è difficile capacitarsi di questo sopravvenire del nulla e rassegnarsi a credervi

(Gustave Flaubert)

 

La lunga fila di camion militari che, carichi di bare, il 18 marzo abbandonavano Bergamo; l’apatia istituzionale di fronte al numero dei suicidi (incredibilmente aumentati in questo tempo di Coronavirus); lo spettacolo mediatico di massacri trasmessi in diretta, tra un intervallo pubblicitario e l’altro; l’illusione di una dolce morte, la morte legale, comunicata con un’immagine meno drammatica di quella stampata su un pacchetto di sigarette; un cadavere dimenticato in casa, senza che qualcuno abbia avuto il tempo per una telefonata e chiedere «come stai»; il fideismo scientifico, che alimenta il delirio di onnipotenza di una vita infinita. Tutti questi sono sintomi di un mutamento culturale di fronte al dramma umano per eccellenza: la morte. Essa non suscita più il salutare «stupore» di Flaubert, ma una distanza che ha alterato anche il modo di vivere il lutto.  Prima lo si vedeva (l’abito nero, il bottone nero, la fascia nera sulla giacca o sulle lettere), ora è diventato invisibile, come invisibile rischia di diventare il discorso sulla speranza, che agonizza come un fiore poco annaffiato.

La privatizzazione della morte

Non si può negare che una certa predicazione ha fatto della morte un tema apologetico, volto a disprezzare la vita e inculcare il terrore. «Mira quel cadavere, che ancora sta sul letto, il capo caduto sul petto …», esordisce il celebre manualetto di sant’Alfonso de Liguori, che ha comunque nutrito intere generazioni, aiutandole a riflettere sull’inevitabile. È però indiscutibile che oggi si stia operando una sorta di congiura del silenzio, interrotta a tratti da alcuni nuovi riti, esorcizzanti e scenografici, come il bell’applauso alla fine delle esequie. Nel suo saggio sui vari modi storici di reagire alla morte, Philippe Ariès scrive: «La morte è divenuta tabù, una cosa innominabile […]. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto il cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente […]. Oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e chiedono perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori».[1]

L’uomo contemporaneo tenta di mettere una distanza sempre maggiore fra sé e l’esperienza della morte, e per questo fa di tutto per non incontrarla. Uno dei meccanismi di rimozione è ciò che Yvan Illich ha chiamato la medicalizzazione della morte, cioè la delega alle strutture ospedaliere.[2] Chi muore oggi lo deve fare in silenzio, in modo quasi meccanico, lontano dai suoi familiari e dai rumori della città, tolto anche a se stesso, perché relegato in una stanza asettica d’ospedale, dove diventa un numero e non impone la sua presenza ingombrante. I risultati sono l’emarginazione del morente, e il soffocamento di desideri ancestrali come il morire a casa, nel proprio letto, per congedarsi dal proprio mondo. Chi muore non è più posto nella condizione di affrontare il suo definitivo passaggio e di beneficiare della partecipazione degli altri a un evento che in qualche modo interessa la collettività. Prima di interrogarci sulla morte o su cosa c’è dopo la morte dovremmo perciò verificare se oggi siamo posti nella condizione di morire con dignità.

In un documento intitolato La nostra cura per i morti e per i superstiti, l’episcopato tedesco parla del lutto, notando il venir meno di quelle forme espressive con cui il mondo della morte e della vita, in una cultura non lontana, potevano stabilire un fecondo rapporto. In particolare viene denunciato il fenomeno della privatizzazione. La morte non riguarda gli altri, ma solo colui che ne è colpito, viene considerata un incidente, una fatalità, persino una liberazione, non più come un momento della vita, certamente il più alto dove qualcosa si compie e che, soprattutto per i cristiani, è legato alla speranza della vita eterna. Tra i segni esterni si indicano la perdita dei riti pubblici: la veglia funebre, l’accompagnamento della bara, l’anonimato del decesso, e i fiori che non vengono più «portati» ma direttamente «spediti».[3] Nel passaggio della morte il mondo circostante si fermava almeno per un attimo, ora essa corre su macchine veloci. Anche i cimiteri, simbolo della memoria di un popolo, sono diventati luoghi sterili, persino superflui, se si pensa alla prassi sempre più diffusa di disperdere le ceneri o di conservarsele in casa. Essi non hanno nulla da raccontare, e non c’è più niente che la morte e i morti possano dire a coloro che li hanno seguiti nella linea della vita. Lo stesso Edgar Lee Master si troverebbe oggi in difficoltà a scrivere la caustica Antologia di Spoon River per mancanza di documentazione. Nel suo tono canzonatorio, essa rivela una città dei morti che si narra, facendosi beffe della città dei vivi. Lo smembramento del tessuto sociale priva di un supporto indispensabile per l’accompagnamento del morente e per l’elaborazione del lutto. Tra i nuovi tabù ci sono pure il pianto, l’afflizione, la manifestazione delle emozioni. Chi è in lutto deve nascondersi, rimuovere ogni immagine sgradevole e fare in modo che la morte diventi un episodio neutro. Il dolore si diversifica in base alla gravità o meno della perdita, ma per lo più lo si vive da soli, con la fatica di riannodare un filo spezzato, e cercando risposte che pochi forniscono. «Ognuno sta solo sul cuore della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera».

Pensare la morte

L’elaborazione del lutto dipende principalmente dal pensiero che si ha della morte. «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva» (GS 18). I nuovi espedienti servono a rimandare l’appuntamento, come fa il protagonista di Tolstoj, Ivan Ill’ic, per il quale la morte esiste senz’altro, c’è, ma riguarda il genere umano, gli altri e non lui. Egli passa la sua esistenza ad allontanarne il pensiero, finché la morte non lo coinvolge in prima persona. Allora avverte una rete di menzogne, «e questa menzogna lo tormentava; lo tormentava il vedere che nessuno voleva confessare ciò che tutti sapevano, che lui stesso sapeva, e invece si mentiva, si voleva che anche lui prendesse parte a quella menzogna. Menzogna, menzogna, suprema menzogna, che abbassava il tremendo, solenne atto della sua morte».[4] Più che una meditazione sulla morte, il breve romanzo dello scrittore russo è una denuncia della falsificazione dei viventi nei suoi confronti. Non sono comunque mancate le teorie, e ogni antica saggezza ne ha formulata qualcuna, esprimendo pure la convinzione di un destino immortale dell’anima. La religione è quella che, ovviamente, ha potuto fornire le risposte maggiori, venendo incontro al bisogno umano di vivere e superare la morte. L’idea di una speranza o meno in una vita ultraterrena giunge così a identificarsi con la propria posizione nei confronti della proposta religiosa. Se Epicuro rifiutava di trovare nella morte un qualsiasi messaggio, e invitava gli uomini a tenersi lontano dalle sue paure, l’esistenzialismo ateo l’ha vista come contraddizione della vita, notte, buio, trionfo del nulla. Non c’è nulla da aspettarsi dalla morte, salvo scoprire l’assurdità della vita. Nel romanzo Le nozze Albert Camus mitiga questa durezza sartriana, disegnando un paesaggio tra speranza e illusione, dove la vita fa molte promesse e ne mantiene poche, e tuttavia è proprio in queste irrisorie felicità che occorre trovare il segreto della vita. La morte è una promessa che dà la gioia di vivere il presente, la grandezza dell’uomo è giungere ad amarla senza prestarsi al miraggio delle illusioni religiose. Ben diversamente vanno le cose per un credente originale come Søren Kierkegaard, anticipatore di molti temi caldi dello stesso esistenzialismo. La morte è un processo interno alla vicenda esistenziale, e dunque difficilmente descrivibile, tuttavia essa non è «mortale» ma carica di speranza, è il dies natalis per capire dove va la vita. «In senso cristiano – scrive il filosofo danese – la morte non è affatto la fine di tutto; essa è soltanto un piccolo avvenimento compreso nel tutto che è la vita eterna; e, nel senso cristiano, c’è infinitamente più speranza nella morte che non, parlando in modo meramente umano, dove non solo c’è la vita, ma una vita in piena salute e forza».[5] La vera morte di cui il cristiano deve avere timore è la disperazione, «perché certamente la morte è la fine della malattia, ma la morte non è la fine. Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte e la morte sarebbe la fine. E questa è precisamente la disperazione».[6] Idea chiave del pensiero di Kierkegaard, la disperazione è da lui identificata col peccato di chi decide di se stesso al di fuori di Dio e che, dichiarando falsa questa relazione, non riesce nemmeno a trovare se stesso. Anche nel pensiero non credente si è però affermata una concezione meno tragica, che intreccia profondamente morte e significato della vita. È il percorso aperto da Martin Heidegger, certamente il più influente ispiratore delle rappresentazioni odierne. La sua interpretazione è molto diversa da quella di Kierkegaard, perché riduce tutto alla temporalità, ma anche da quella sartriana, perché non fa ricorso all’assurdo. L’uomo, in quanto essere nel mondo e nel tempo, è addirittura chiamato a vivere con/attraverso la morte. Egli è l’essere-per la-morte. Di conseguenza questa non va vissuta banalmente, eludendola alla maniera di Yvan Ill’ic, ma con autenticità, cioè attraverso un atto libero che porta ad assumersi la propria morte. In tal modo essa acquista il valore di un progetto esistenziale, perché dà a ogni istante della vita il carattere di una decisione, e non è da intendersi come una condanna, bensì come attesa di qualcosa che contiene il segreto della vita. Il vantaggio di questa posizione sta nell’aver umanizzato la morte, ma l’assenza di respiro eterno, sostituito da un’indecifrabile «possibilità come possibilità dell’impossibilità dell’esistenza in assoluto»,[7] la rendono piuttosto vaga.

Sorella morte

La teologia non ha certo taciuto sulla morte, ma la sua riflessione ha ricevuto nuovi impulsi dal rinnovamento dell’escatologia prodotto nel secolo scorso. All’aspetto biologico, per cui la morte è cessazione della vita corporale; a quello morale, finalizzato a risvegliare il discorso sulla caducità della vita e sulla gravità del giudizio divino; e alle convinzioni teologiche che la recepivano come castigo del peccato originale, o che la risolvevano nel dualismo corpo-anima, sono seguiti nuovi concetti. Il trattato dei novissimi ha mutato volto, passando da una impostazione statica, che si dirigeva in maniera unilaterale verso gli eventi ultraterreni, di cui forniva una specie di mappa informativa, a una più dinamica che cerca di vedere in che modo gli eventi ultimi diano un senso anche alla storia dei viventi. Mi limito a segnalare due percorsi, quello antropologico e quello cristologico. Il primo si racchiude nella categoria del compimento, chiaramente antitetica a quella del disfacimento. È il caso di Karl Rahner, che ha assunto l’essere-per-morte intravisto da Heidegger con una ermeneutica teologica.[8] Per il teologo tedesco non è sufficiente considerare la «morte», avvenimento universale che provoca la cessazione dell’attività organica, ma il «morire», che è tipico dell’uomo perché è l’unico essere vivente che sa di morire. Proprio per questo egli deve affrontare la morte a viso aperto, andandole incontro con la decisione definitiva che ha maturato nella vita terrena, e che il pensiero credente traduce in una opzione per Dio o contro Dio. L’idea è illuminata dalla convinzione rahneriana che la personalità si attua attraverso la libertà, per cui il tempo non è solo quantità fisica che lentamente si lascia alle spalle, ma qualcosa di qualitativo che determina il compimento delle proprie scelte storiche. Per non procedere all’infinito questo processo deve avere un termine che renda definitivo ciò che si è costruito nel tempo, ed è la morte a realizzarlo, trasformando il divenire in eternità. Ho evidentemente ridotto all’essenziale una considerazione più complessa (e non sempre accessibile) che ha l’effetto immediato di conferire un autentico valore a questa vita. La mia vita attuale è unica e irripetibile perché non c’è una seconda vita che possa relativizzare quella che sto vivendo ora, come non c’è una seconda possibilità che possa sminuire l’importanza del progetto costruito in questa esistenza. Per queste ragioni Rahner contesta la dottrina della reincarnazione. L’idea di un ciclo delle vite, infatti, non prende sul serio né la vita presente, né la libertà, perché riduce ogni volta lo spazio dell’esistenza a un tentativo, una prova. Prendere sul serio quest’unica libertà e quest’unica vita significa invece che neanche la morte ha il potere di azzerare ciò che esse hanno compiuto insieme. L’uomo rimane per sempre ciò che ha voluto essere nel tempo. Non si tratta allora di morire rassegnandosi, ciò che avverrebbe se si vedesse la morte solo dal lato del disfacimento, ma di convincersi che essa costituisce il momento supremo del proprio compimento.

Queste idee sono certamente interessanti e danno anche al cristiano uno spunto antropologico in grado di assorbire creativamente l’impatto del morire. Consentono di stabilire una continuità tra il tempo e l’eternità, e di superare l’approccio distruttore che vede la morte come la fine piuttosto che il fine di tutto. Resta tuttavia la percezione di un quadro ottimistico che non rende conto di una esperienza profondamente ambigua. La morte è benedizione, ma anche maledizione. La vita insegna inoltre che le cose non vanno sempre in questa direzione e, piuttosto che «vecchi e sazi di giorni», molti muoiono senza neanche il tempo o la consapevolezza di elaborare un atto libero tanto decisivo. Si deve perciò riconoscere che l’approccio antropologico dà un contributo nel genere dei preambula fidei, ma che la migliore espressione dell’annuncio cristiano si trova nel paradigma cristologico. È la via scelta da H. Urs von Balthasar, che innesta le sue riflessioni in una elaborata analisi del mistero pasquale.[9]

Gesù muore a seguito di una scelta libera, ma da condannato, nella maledizione della croce. In questo modo egli ha penetrato gli intimi recessi della morte, dove l’uomo si sente persino abbandonato da Dio. Da allora il morire è diventato un con-morire con Cristo. Morendo per-noi, Gesù non ha però solo condiviso una esperienza, ma l’ha trasformata dal di dentro, guarendo la morte con la sua risurrezione. Essa è così privata della negatività radicale ed elevata al rango di passaggio alla vita. Ciò non crea un distacco dalla vita terrena, perché il con-morire con Cristo ha inizio col battesimo, fondamento dell’identificazione della propria morte con la morte di Cristo. La fede può così affermare che la morte è il sacramento pasquale dell’incontro con Cristo.

Nell’angelus del 2006 per la commemorazione dei defunti, Benedetto XVI ha sviluppato questa prospettiva, dicendo: «Gesù ha rivoluzionato il senso della morte […]. Il Figlio di Dio ha voluto condividere sino in fondo la nostra condizione umana, per riaprirla alla speranza […]. La morte non mostra più il ghigno beffardo di una nemica ma, come scrive san Francesco nel Cantico delle creature, il volto amico di una “sorella”, per la quale si può anche benedire il Signore: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale”. Quella che invece bisogna temere, è quella dell’anima, che l’Apocalisse chiama la “seconda morte”».

Annunciare la speranza

Le indagini sociologiche mostrano che i cristiani hanno idee confuse riguardo ai temi escatologici. Oltre a un generale scetticismo, sono facilmente condivise la dottrina sulla reincarnazione e le diverse opinioni legate al mondo dell’occulto. Le cause di tale ignoranza sono da ricercarsi nella diffusione del sincretismo religioso, nel disprezzo della pietà popolare, ma soprattutto nel fatto che la predicazione sembra aver abbandonato questi argomenti per la mancanza di orecchie disponibili ad ascoltarli. C’è però da chiedersi se non abbiamo dato troppo per scontate queste convinzioni: che l’uomo della modernità non abbia più voglia di sentir parlare di risurrezione, o che il materialismo sia diventato così invadente da aver totalmente assorbito lo stupore di fronte alla morte. Molte indicazioni dicono il contrario, anche perché il respiro eterno è innato all’esperienza umana, e «tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore» (GS 18). L’annuncio delle realtà ultime interroga quindi l’evangelizzazione, per vedere quanta e quale cura si dedica a questi argomenti. «Una Chiesa che non ha nulla da insegnare sull’eternità futura ‒ ha scritto Emil Brunner ‒ non ha proprio niente da insegnare, cioè è fallita».[10] La frase è forte ma non arrischiata. L’escatologia non è solo un capitolo del credo cristiano, «credo la risurrezione dei morti», ma un elemento identitario, che Paolo collega strettamente alla fede nella risurrezione di Cristo: «Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1Cor 15,12-14). L’idea che l’ultima parola della storia non sia della morte, e che questa possa essere vinta dalla risurrezione di Cristo, è caratteristica dell’annuncio cristiano: «L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi» (1Cor, 15,26-27).

Il documento della Commissione teologica internazionale, Problemi attuali di escatologia (1990), conferma il deficit comunicativo sui temi «ultimi», aggiungendo alle cause della secolarizzazione della speranza nella società odierna e dell’indifferentismo religioso, l’assolutizzazione intramondana dell’escatologia. In tal modo «la prassi cristiana viene orientata a realizzarla in modo così esclusivo che ne deriva una lettura riduttiva del vangelo, nella quale quello che concerne le realtà assolutamente ultime in gran parte passa sotto silenzio […]. La speranza teologale perde la sua piena forza quando viene sostituita da un dinamismo politico». Questo spostamento o decurtamento della speranza non rende ragione all’istanza di riconciliare in Cristo «le cose che sono sulla terra e quelle che sono nei cieli» (Col 1,20).

Suscitò un certo scalpore, al tempo della sua pubblicazione, un libro in cui il noto vaticanista Luigi Accattoli denunciava la perdita del messaggio escatologico nella fede della coscienza ecclesiale, dovuto, a dire dell’autore, alla tentazione della Chiesa di essersi adattata a questo mondo, trasformandosi in un organizzazione socio-umanitaria.[11] Sarebbe un errore cedere al dualismo, «certo, siamo avvertiti che niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo» (GS 39). Il concilio preferisce l’idea di una salvezza integrale che porta a farsi carico della speranza umana per intero, dentro e oltre il mondo. L’importante è non tacere su nessuno dei due aspetti, ritrovando il loro equilibrio. La missione è contemporaneamente speranza e carità, del resto saremo giudicati sull’amore, e dunque anche la carità ha una dimensione escatologica. Tuttavia, il rischio di mondanizzare la Chiesa, di arrendersi al solo progresso immanente, è reale. Dobbiamo migliorare il mondo portando l’uomo all’incontro col Signore che viene!

Risintonizzare l’evangelizzazione significa pure verificare il linguaggio, la sfida più cruciale del passaggio dalla vecchia alla nuova escatologia e per chiunque accetti di confrontarsi coi temi ultimi. Il disagio è inevitabile in un tempo in cui sono venute meno le convinzioni condivise. In parole semplici: «come» parlare all’uomo di oggi di giudizio, di purgatorio o di risurrezione dei morti? Ciò impone un superamento dei vecchi modi ma senza venir meno ai principi della fede. Il disorientamento è inevitabile, e forse è per questo che alla fine si preferisce tacere. «Confesso ‒ scrive Karl Rahner ‒ che mi sembra essere per il teologo di oggi compito tormentoso e mai del tutto assolvibile scoprire un modo migliore di presentare la vita eterna, il quale escluda in partenza le ingenuità. Ma come?».[12] A volte si dà la sensazione di saperne troppo e a volte troppo poco. Occorre conoscere bene il dogma e imparare a dirlo. La questione del linguaggio si fa delicata anche per l’azione pastorale di accompagnamento dei morenti e di quelli che restano. Occorrono intuito, sensibilità, discrezione e, soprattutto talento dialogico. Nella sua celebre ricerca, Elisabeth Kübler Ross riporta la testimonianza di molti malati in fin di vita, segnalando i vari meccanismi di difesa, ma evidenziando il loro bisogno del dialogo e di una compagnia sincera.[13]

La speranza prende forma negli interrogativi ineludibili: esiste qualcosa al di là della morte? Perché questo mio cuore è inquieto? C’è qualcosa o il nulla ad attenderci? La Chiesa ha il dovere di rispondere a queste domande, altrimenti viene meno a un aspetto specifico della sua missione.[14] La nostra speranza ha un volto e un nome: Cristo, fondamento della «beata speranza» (Tt 2,13), che ci rende popolo messianico, cioè popolo della speranza che comprende anche i fratelli defunti. Tutto ciò dovrebbe avere conseguenze sul modo di vivere il lutto, unendo theologia crucis e theologiae gloriae. Può essere una speranza piccola, debole, fragile, che porta a lottare «contro ogni speranza» (Rom 4,18), ma è «nella speranza che siamo stati salvati» (Rom 8,24).

(Tratto da Orientamenti Pastorali, EDB. Tutti i diritti riservati)

[1] P. Ariès, Storia della morte in occidente: dal medioevo ai giorni nostri, Rizzoli, Milano 1985, 213-314.

[2] Cf. Y. Illich, Nemesi medica, l’espropriazione della salute, Mondadori, Milano 1978.

[3] In Il Regno-documenti 5 (1995) 135-154.

[4] L. Tolstoj, La morte di Yvan Ill’ic, Rea, L’Aquila 2012, 34.

[5] S. Kierkegaard, La malattia mortale, SE, Milano 2008, 13.

[6] Ivi, 21.

[7] M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2008, 370.

[8] Il suo testo fondamentale è Sulla teologia della morte, Morcelliana, Brescia 1965. Rahner ha trattato della morte anche in molti altri scritti, per una ricostruzione del suo pensiero su questo argomento si veda S. Zucal, La teologia della morte in Karl Rahner, EDB, Bologna 1982. Ho inserito una riflessione più estesa della posizione in Rahner in G. Tangorra, «Morte e compimento», in C. Zuccaro (a cura di), Sperare nel nostro tempo, Istituto teologico, Anagni 1996, 89-108.

[9] H. Urs Von Balthasar, «Mysterium Paschale», in J. Feiner – M. Löhrer (a cura di), Mysterium salutis 6: L’evento Cristo, Queriniana, Brescia 21973, 171-412.

[10] E. Brunner, L’eternità come futuro e tempo presente, EDB, Bologna 1973.

[11] L. Accattoli, La speranza di non morire, Paoline, Milano 1992.

[12] Citato da A. Marranzini, «L’ultima esperienza di un teologo: Karl Rahner in attesa dell’incontro definitivo con “Colui che viene”», in G. Lorizio (a cura di), Morte e sopravvivenza, AVE, Roma 1995, 356.

[13] E. Kübler Ross, La morte e il morire, Cittadella, Assisi 1982.

[14] Sul bisogno di riprendere questo specifico si veda G. Canobbio – M. Fini (a cura di), L’escatologia contemporanea. Problemi e prospettive, EMP, Padova 1995.