Alberto Brignoli – parroco dell’Unità pastorale dell’Altopiano Selvino-Aviatico, diocesi di Bergamo
Nel «Messaggio alle Comunità cristiane in tempo di pandemia» che i nostri vescovi, attraverso il Consiglio permanente della CEI, ci hanno fatto giungere alla vigilia di questo Tempo di Avvento – così particolare in quanto segnato dalla seconda fase emergenziale della pandemia da Covid-19 – si assapora in maniera del tutto speciale il gusto dell’attesa che connota questo tempo liturgico. In questo contesto, come scrivono i vescovi, questa fase complessa della storia deve, da noi cristiani, «essere letta come una rottura rispetto al passato, per avere un disegno nuovo, più umano, sul futuro».
Sennonché, da questa «Sagunto» che è la Media Valle Seriana dalla quale scrivo, espugnata e rasa al suolo da un’invisibile Annibale lungo il tempo di un’interminabile Quaresima «dum Romae consulitur» (e questa fu, purtroppo, la nostra sensazione di allora), riusciamo a intravedere piccoli germogli di rinascita e di speranza che, tuttavia, non possono farci dimenticare un aspetto fondamentale: ossia, che non possiamo contemplare la suggestione di un kairòs di rinascita a prescindere dal disincanto del krònos che viviamo. In parole povere: possiamo coltivare dentro di noi la possibilità di rileggere l’attualità come un tempo di opportunità e di rinascita, nella misura in cui non smettiamo di affrontare la fatica della quotidianità, del susseguirsi del tempo che scandisce le nostre giornate e che, soprattutto in periodi di totale o parziale lockdown, risuona nei nostri animi come la tortura di una goccia d’acqua sulla fronte. Il ritmo cronologico della quotidianità che stiamo affrontando, giorno dopo giorno, non solo a livello personale (in una dimensione antropologica, psicologica e spirituale) ma anche a livello comunitario e pastorale, penso possa essere sintetizzato in una sola parola, la più scontata e banale che in questo tempo si possa dire, forse, ma anche la più vera: siamo nel tempo dell’Attesa. Un’attesa che non è inoperosa, ma che al tempo stesso sa bene di trovarsi immersa in un contesto di impossibilità ad agire come si vorrebbe, a progettare come si vorrebbe, addirittura a pensare come si vorrebbe. Un mix di incertezze e di tentativi che ci portano a vivere questo tempo – per riprendere l’icona paolina di 1Cor 7,29-31 – nell’ottica del «come se», ed effettivamente queste due piccole parole scandiscono tanti nostri discorsi di questi giorni: pensiamo al Natale «come se» dovessimo essere ancora in lockdown, facciamo ripartire questa attività «come se» dovessimo interromperla di nuovo entro breve tempo, progettiamo il cammino di Avvento «come se» dovessimo viverlo solo all’interno delle nostre famiglie e non in comunità, e via dicendo.
Eppure, questo «già e non ancora», questo «come se» che intravede il compimento come ritorno alla realtà e paradossalmente vive la realtà con le fattezze di un brutto incubo, si gioca nell’alternanza di due elementi che potrebbero apparire come negativi ma che, in realtà, ci dicono la ricchezza di un momento che, pur nella fuggente crudeltà del krònos-tempo, è conditio sine qua non per vivere la pandemia come un kairòs-momento di grazia. Due elementi che comprendono una complessità di situazioni, anche molto concrete, ma che possiamo sintetizzare in questi due termini: «precarietà» e «opportunismo». Proviamo a rileggerli alla luce degli elementi distintivi di questo tempo che i nostri vescovi, nel messaggio, definiscono con quattro caratteristiche: tempo di tribolazione, tempo di preghiera, tempo di speranza, tempo di possibile rinascita sociale.
Una premessa
Non diamo per scontato che la società – e di conseguenza le nostre comunità cristiane – sia capace di fare di questa complessa fase storica un’occasione di rinascita. «Il mondo dopo il Coronavirus non sarà più lo stesso»: inserite questa frase nel motore di ricerca del vostro browser e vi uscirà un’infinità di citazioni pronunciate dai più disparati relatori nelle più variegate situazioni e nei contesti più diversi. E di certo, nessuno riuscirà a giungere a una conclusione con caratteristiche omogenee: l’unica omogeneità è data dall’affermazione iniziale, ovvero tutti sappiamo per certo che il mondo non sarà più lo stesso. Ma da qui riuscire a dire che il mondo e l’umanità ne usciranno migliori, rinnovati, cresciuti, maturati è – nel senso letterale del termine – un’utopia, qualcosa che non ha luogo, che non ha ubicazione, perché nessuno, neppure nella più ottimistica delle previsioni, ha la pretesa di poter dire con certezza che l’esperienza mondiale della pandemia ci restituirà «un disegno nuovo, più umano, sul futuro». Tutti ne usciremo cambiati, ma non tutti in meglio: anzi, abbiamo già molte avvisaglie di un mondo che si è intriso di egoismo, di disuguaglianza, di prevaricazione, di incomunicabilità. E la sfida che a noi credenti in Cristo si apre di fronte, ossia ricostruire umanità e solidarietà dalle macerie della pandemia, è una sfida che non ha precedenti nella storia dell’umanità, forse neppure in seguito alla catastrofe delle due guerre mondiali. Ciò non toglie che questa partita debba essere giocata fino in fondo e nel migliore dei modi, «perché – per riprendere le parole di papa Francesco la domenica di Pentecoste, citate anche nel Messaggio – peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi».
Un tempo di tribolazione
Va da sé che il periodo che stiamo vivendo è avvertito dai più come un momento di grande prova e di tribolazione: l’agghiacciante dato delle oltre 50.000 vittime del virus, purtroppo inesorabilmente destinato a salire, ci fa pensare quante siano nel nostro paese le famiglie provate in maniera diretta (e alcune anche in maniera plurima) da questo dramma, peraltro vissuto, nella stragrande maggioranza dei casi, in estrema solitudine, senza neppure la magra consolazione di un adeguato saluto cristiano ai propri cari.
Precarietà e opportunismo nell’affrontare questo tempo di tribolazione possono significare, pastoralmente parlando, da una parte coscientizzare i nostri fedeli che effettivamente in questo periodo tribolato ci siamo ancora dentro e ci staremo ancora per parecchio tempo, e dall’altra parte la capacità di saper «cogliere l’attimo», ovvero sfruttare ogni possibile momento perché questa tribolazione diventa occasione di vicinanza, di consolazione e di crescita nella fede.
Molte delle nostre comunità vanno davvero aiutate ad avvertire il senso di precarietà della situazione che stiamo vivendo. Certo, concretamente questo significa anche «frenare» un po’ il desiderio di ripartenza a cui molti anelano (alcuni anche in modo sconsiderato, «come se» tutto fosse passato): vivere la precarietà della tribolazione significa accettare che non si possono rifare le stesse cose di prima, che non si può pretendere, neppure nella migliore delle ipotesi, che quella messa, quella processione, quella festa, quella ricorrenza che erano in calendario ab immemorabili nelle nostre comunità, quest’anno debbano essere fatte comunque e a ogni costo, pena il crollo della fede nella comunità! Non è così! La fede dei veri credenti non viene meno con il venire meno della ritualità: e sapere che questo tempo di tribolazione rende precaria la manifestazione rituale della fede, deve poter coincidere con la presa di coscienza di una fede che vada all’essenziale, ovvero al rapporto con un Dio che parla al nostro cuore anche in un tempo come questo. L’opportunismo pastorale in un tempo tribolato come questo si manifesta, ad esempio, nella riscoperta genuina (anche a mezzo predicazione e catechesi, o a mezzo conferenze virtuali pubblicate sui canali social della comunità ecclesiale) del significato storico e culturale di certi riti, che quest’anno ci mancano perché non li possiamo fare, ma che gli altri anni facevamo senza sentirne «la mancanza», «il bisogno», ossia solo per una pura scadenza di calendario o per un fatto meramente tradizionale. E soprattutto, questo ci stimola tutti quanti (noi uomini del clero in primis) a ripensare forme di preghiera e di culto non solite e non consuete, ma non per questo prive di pregnanza spirituale.
Cito solo un esempio: l’incredibile, umile e semplice (fin quasi all’ingenuità) necessità di simulacri, statue e immagini davanti ai quali poter accendere un cero o recitare una preghiera in una delle tante chiese, chiesine, cappelline e oratori di cui i nostri paesi sono pieni. Lasciamole aperte, queste chiese; aumentiamo i portacandele e accompagniamoli con testi di preghiere o della vita del santo; recuperiamo immagini di santi «taumaturghi» spesso legati a secolari intercessioni che storicamente hanno coinciso con tempi di pandemia. Non vuole dire fare cento passi indietro nella vita di fede, bensì recuperare – a partire dal sentire religioso della gente – la capacità di affidare a Dio questo momento di tribolazione.
Un tempo di preghiera
Strettamente e necessariamente connesso al precedente, troviamo questo aspetto che rappresenta il momento di fede fondamentale da recuperare in tempo di pandemia: la preghiera. La precarietà, in questo senso, è evidente, e lo accennavamo prima: tante settimane senza la possibilità di celebrare con i fedeli «in presenza» ci hanno portato a pensare che le nostre chiese si sarebbero definitivamente svuotate, che questo sarebbe stato il «colpo di grazia» alla già risicata percentuale di cristiani praticanti e frequentanti. Non è stato così: e non lo è stato perché tanta gente ha riscoperto un altro modo di vivere la fede che non fosse solo quello della partecipazione domenicale all’eucaristia, ovvero la preghiera personale e – sia pure con molti distinguo – quella familiare e domestica. Vuoi sgranando la corona del rosario più frequentemente di prima, vuoi facendo salire lo share di messe e di momenti di preghiera trasmessi in televisione, la precarietà del celebrare si è trasformata nell’opportunismo del pregare. Non buttiamo via la bellezza di questo recupero, ora che abbiamo potuto tornare a celebrare con i fedeli e ci è ancora stato concesso di farlo nonostante la seconda ondata della pandemia. Incrementiamo ancora, e molto, la preghiera personale (anche attraverso momenti di ritiro spirituale personale) e domestica; offriamo spazi di condivisione della celebrazione aumentando, ad esempio, le opportunità di trasmissione delle nostre celebrazioni sui vari mezzi di comunicazione sociale che la tecnologia ci mette a disposizione; investiamo (come già accennavo sopra) in spazi di preghiera che non comportano partecipazioni di massa ma che costituiscono un segno, una presenza, una fiammella costantemente accesa nel buio di questa notte ancor lunga dall’essere superata. In questo senso, sono lodevoli le iniziative di adorazione eucaristica permanente che molte comunità – parrocchiali e non – continuano a mettere in atto, soprattutto in chiese sufficientemente capienti che (anche se possono sembrare meno raccolte e più dispersive) ottemperano alla necessità del mantenimento delle distanze di sicurezza.
Un tempo di speranza
La virtù della speranza è quella che dobbiamo maggiormente coltivare in questo periodo, agevolati anche dal tempo liturgico di Avvento, nel quale attesa e speranza vanno a braccetto (gli ispanofoni sanno bene che «esperar» si traduce ugualmente con «sperare» e «aspettare»). Insieme, la speranza è pure la virtù che più di tutte esprime la precarietà: si tratta, però, di una precarietà che non ci lascia in bilico, ma che – come un centometrista in tensione ai blocchi di partenza – ci proietta verso qualcosa cui tendiamo con perseveranza, come ricorda Paolo nella lettera ai Romani: «Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25).
Certo, la speranza in questo periodo si unisce a quella non facile e non sempre piacevole sensazione dell’ «essere sempre da capo», del trovarci continuamente ai blocchi di partenza, perché è sufficiente che i dati medico-scientifici della pandemia tornino a essere negativi che anche le eventuali riaperture o programmazioni pastorali subiscano annullamenti e ripensamenti. Di fronte a questo, ovviamente, ci sentiamo impotenti, ma non è vero che non possiamo fare nulla per continuare ad alimentare la speranza. Va da sé che la prima opportunità che ci viene messa davanti è quella di attuare e mantenere quell’atteggiamento di cittadinanza responsabile fatto di rispetto e osservanza di tutto l’insieme di norme comportamentali atte a evitare la diffusione del contagio.
I nostri vescovi, su questo aspetto, citano i mezzi di comunicazione sociale come quegli strumenti che, loro malgrado, ogni giorno ci sbattono in faccia la cruda realtà della pandemia, in maniera a volte così cruda che può nascere da parte nostra nei loro confronti una sorta di disaffezione generalizzata, per la quale non ci viene più voglia di ascoltare, guardare, leggere alcunché riguardante la pandemia. Nutrire speranza significa invece dare spazio, proprio attraverso i mezzi di comunicazione sociale (almeno quelli di cui abbiamo, come Chiesa, la gestione), a tutte quelle notizie che, nel contesto e in riferimento alla pandemia, risaltano gli elementi positivi che si stanno verificando: da un punto di vista scientifico-clinico (scoperte, vaccini, studi, dati incoraggianti), da un punto di vista etico-comportamentale (esempi di comunità e di singoli virtuosi), da un punto di vista solidale (risalto e pubblicità a iniziative in favore delle persone maggiormente colpite dalla crisi pandemica). Si potrebbe quantomeno iniziare eliminando, anzi letteralmente «distruggendo», tutta quella anti-informazione messa in atto da alcuni (non molti, grazie a Dio, ma purtroppo molto ascoltati e influenti) mezzi di comunicazione sociale di ispirazione cristiana (mi verrebbe da dire «pseudocristiana», ma non lo dico) che continuano a parlare della pandemia in senso negazionista e complottista, con un linguaggio che definire oscurantista è puro eufemismo. Se quelli trasmessi da queste sedicenti emittenti cristiane hanno la presunzione di essere messaggi di speranza cristiana, allora qualcuno li inviti a rileggersi questi passaggi del discorso del santo papa Giovanni Paolo II alla Pontificia commissione per le comunicazioni sociali del 7 marzo 1985: «Ove i mezzi di comunicazione sociale non riflettono la verità, tolgono la speranza. E gli esseri umani subiscono l’oppressione, la schiavitù e la disperazione. I mezzi di comunicazione sociale devono offrire speranza alla famiglia umana […] e possono davvero consolare gli afflitti e ravvivare la speranza».
Un tempo di possibile rinascita sociale
Credo che questo sia l’aspetto intorno al quale si possono scrivere le pagine più belle di questo tempo in cui fatichiamo a vedere elementi di bellezza. La solidarietà e il senso di appartenenza sociale che si è espresso in tanti piccoli gesti quotidiani di vicinanza, di aiuto e di consolazione, la stragrande maggioranza dei quali avvenuti nel silenzio e all’ombra dei riflettori, è quanto di più significativo possa essere immagazzinato nel serbatoio di quella carità che infiamma il tessuto della nostra gente e delle nostre comunità. E questo è avvenuto a ogni livello: economico, sociale, affettivo, caritativo. La precarietà qui è evidenziata dal fatto che ciò che si fa non è che una goccia, rispetto alle necessità che giorno dopo giorno emergono ed emergeranno ancora per lungo tempo: eppure, è una precarietà senza la quale chi ha bisogno di aiuto rimarrebbe veramente privo di quel minimo che gli serve per continuare a coltivare il desiderio di andare avanti.
È poco quello che si sta facendo nelle piccole comunità parrocchiali? Sì, è poco. È poco quello che le singole diocesi stanno cercando di mettere in atto? Sì, è poco. È poco quello che la Chiesa italiana (e universale) sta cercando di mettere in gioco? Sì, è poco. Ma è ben poca cosa – anzi, è infinitamente meno – anche continuare a esprimersi con la logica del «benaltrismo», la quale scredita il poco che si fa dicendo che «ci vuole ben altro» per risolvere i problemi legati alla pandemia. Lasciamo che chi vuole giustificare la propria accidia e la propria inettitudine lo faccia attraverso affermazioni «benaltriste»: noi continuiamo a fare quel «poco» con costanza e quotidianità e senza troppi clamori. «Quel poco che abbiamo, quel poco che siamo, se condiviso, diventa ricchezza, perché la potenza di Dio, che è quella dell’amore, scende nella nostra povertà per trasformarla»: quantomai attuali risuonano oggi le parole pronunciate da papa Francesco nel suo primo Corpus Domini da vescovo di Roma, sette anni fa. E questo, dice la grandezza e la bellezza delle nostre tante piccole «Sagunto», dove, mentre a Roma si discute – per parafrasare la citazione di Tito Livio riportata all’inizio –, ci si rimbocca le maniche e si mettono in atto piccoli gesti di speranza. «Come se» non bastassero mai, certo: ma anche «come se» fossero unici e indispensabili.
Forse, così, a piccoli passi, ci incammineremo con speranza verso la fine di quel tunnel del quale continueremo ancora, per molto tempo, a intravedere solamente l’uscita.
(in Orientamenti Pastorali n.12/2020, EDB. Tutti i diritti riservati)