Pier Giuseppe Accornero – sacerdote, giornalista, scrittore
Sarà beato il giudice-ragazzino siciliano Rosario Livatino, ucciso dalla mafia in odio alla fede. È venerabile il bergamasco don Antonio Seghezzi, assistente dei giovani di Azione cattolica, morto a Dachau. Papa Francesco il 21 dicembre 2020 riconosce il martirio del primo e le virtù eroiche del secondo. Da nord a sud due santi della porta accanto, esponenti di spicco dell’Azione cattolica. Dichiara il presidente nazionale Matteo Truffelli: «Nell’associazione Livatino è cresciuto e si è formato alla fede e ai principi di responsabilità, coerenza e sacrificio che l’hanno portato a compiere il proprio dovere fino al martirio. È un saldo punto di riferimento, un esempio di cosa significhi mettere la propria fede a servizio del tempo in cui abitiamo. Il suo impegno per la giustizia e la sua dedizione al bene e alla verità rappresentano un modello straordinario. Don Antonio Seghezzi, assistente dell’AC bergamasca, morto a Dachau per aver seguito i propri giovani in montagna, nei giorni bui dell’occupazione nazifascista. La vita di don Antonio racconta un modo di essere Chiesa dentro le pieghe della storia, a servizio dell’umanità, radicati nel Signore».
Rosario Angelo Livatino nasce a Canicattì (Agrigento) il 3 ottobre 1952 da Vincenzo, impiegato dell’esattoria comunale, e da Rosalia Corbo. Maturità classica, iscritto a Legge a Palermo, si laurea con lode nel 1975. Si classifica tra i primi al concorso da magistrato. Assegnato al Tribunale di Caltanissetta, nel 1979 sostituto procuratore ad Agrigento fino al 1989, quando diventa giudice a latere. Una vita dedicata al diritto e allo studio del fenomeno mafioso con la grande capacità di trovare nessi e trame e il coraggio di firmare sentenze importanti che lo portano nel mirino della mafia. Uomo di impegno e di fede, sempre attento alla persona, alla redenzione oltre che al reato, capace di condannare e di capire «dando un’anima alla legge. Impegnato nell’Azione cattolica, lavoratore instancabile, assiduo all’Eucaristia, devoto della Vergine, attento che nelle aule ci sia il crocifisso, ogni mattina va prima a pregare in una chiesa vicina.
Nell’agenda il 18 luglio 1978 annota: «Oggi ho prestato giuramento: sono in magistratura. Che Dio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». In una conferenza a Canicattì nell’aprile 1986 spiega che «fede e diritto sono realtà interdipendenti, in reciproco contatto, sottoposte a un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale e indispensabile». Gesù afferma che «la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore verso Dio e verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana. La legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui l’interpretazione e l’applicazione vanno operate con il suo spirito e non in quei termini formali».
Il suo motto è «STD. Sub tutela Dei. Non importa essere credenti, importa essere credibili. Cristo non ha mai detto che bisogna essere “giusti”, anche se ha esaltato la giustizia e ha elevato la carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano. Compito del magistrato è decidere; decidere è scegliere tra numerose cose o strade o soluzioni. Scegliere è una delle cose più difficili. Proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto diretto con Dio perché rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio». Si occupa di indagini scabrose: mafia «è un fenomeno anticristiano», criminalità comune, «Tangentopoli siciliana»: assieme ai colleghi, interroga per la prima volta un ministro; è uno dei primi a usare la confisca dei beni per stroncare il malaffare.
La mattina del 21 settembre 1990 è ucciso sulla statale Agrigento-Caltanissetta da un commando della Stidda, contrapposta a Cosa Nostra. Non vuole la scorta. Sta raggiungendo Agrigento sulla sua vecchia auto. Speronato e ferito a una spalla, fugge a piedi nei campi, è raggiunto e freddato a colpi di pistola e di lupara. Il testimone oculare Pietro Nava fa individuare gli esecutori. Qualche giorno prima si confessa perché sa di essere nel mirino. «Uomo semplice, giudice rigoroso e schivo, volto pulito, sguardo limpido» lo ricordano i colleghi. «Martire della giustizia e indirettamente della fede» per Giovanni Paolo II che il 9 maggio 1993 incontra i genitori e nella Valle dei Templi di Agrigento lancia il duro anatema contro la mafia: «Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”. Non può l’uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio». Papa Francesco lo definisce «esempio non solo per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto, per la coerenza tra la fede e l’impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni».
Il postulatore mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro – che fu promotore della causa del beato don Pino Puglisi – racconta: «Si era consacrato a Dio, la sua scorta e la sua tutela. Un magistrato assai produttivo, che non si lasciava intimidire: ne odiavano il rigore morale, la perfetta applicazione dei codici, la coerenza cristiana. Condannava i reati, pregava per i morti ammazzati, aiutava le famiglie dei detenuti, non disperava della redenzione dei mafiosi più incalliti. Professava la fede come anima del modo di amministrare la giustizia. Univa fede e giustizia. Conosceva la legge ma si poneva il problema del perdono e della redenzione: la legge parla di condanna, la fede di misericordia e perdono. Mentre la criminalità strumentalizza Dio e la religione, in Sicilia c’è chi sceglie Dio come guida». La definizione «giudice ragazzino» si deve al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale smentì più volte l’attribuzione a Livatino.
«La più bella azione cattolica che io farò sarà donarmi tutto» scrive don Antonio Seghezzi, assistente dei giovani di Azione cattolica, quando mons. Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo, gli affida l’incarico. Come tanti altri preti in Italia, segue i suoi giovani nella Resistenza e ne paga un prezzo altissimo: lavori forzati, campo di concentramento, morte per emottisi. Secondo di 10 figli, nasce a Premolo (Bergamo) il 26 agosto 1906. In seminario nel 1926 si diploma in Scienze sociali all’Istituto cattolico di Studi sociali di Bergamo con la tesi «L’enciclica sulla Regalità di Cristo in contraddittorio». Sacerdote dal 23 febbraio 1929, è viceparroco ad Almenno San Bartolomeo, poi insegnante di lettere in seminario. Cappellano militare in Eritrea nell’ospedale da campo 430, nel 1937 torna e il vescovo Adriano Bernareggi lo nomina assistente della Gioventù maschile di Azione cattolica. Cresce il suo impegno spirituale e la sua generosità pastorale. Svolge l’incarico con passione e slancio: gira la diocesi in lungo e in largo e contatta le sezioni e gli iscritti; passa di parrocchia in parrocchia chiedendo ospitalità notturna nelle canoniche, per essere presente a ogni adunanza: all’alba raggiunge Bergamo. Lo stile privilegia le idee ai programmi d’azione, la direzione spirituale all’organizzazione, la cura del singolo all’intervento sulla massa. A tutti propone una radicalità evangelica che vive per primo. Scrive fino a 100 lettere al giorno per seguire anche da lontano i suoi «figli».
Negli anni della tracotanza nazifascista, predica l’umiltà, la coscienza, l’abbandono in Dio e la preminenza delle leggi divine. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 sceglie «la strada dei monti», un atto in linea con il vangelo. «Che assistente sarei se non li assistessi proprio ora?». Spiega don Mario Benigni, compagno di prigionia in Germania: «Non incitò alla resistenza attiva ma alla resistenza passiva». I nazifascisti minacciano rappresaglie contro il clero e l’Azione cattolica. Su consiglio del vescovo Bernareggi, si consegna. Arrestato il 4 novembre 1943, è malmenato e torturato, processato e condannato a cinque anni di lavoro coatto. Deportato in Germania, è costretto ai lavori forzati. Malato di emottisi, il 23 aprile 1945 è trasferito nel lager di Dachau mentre gli alleati avanzano. Peggiora e il 21 maggio 1945, a campo ormai liberato e alla vigilia del rientro, don Antonio muore di TBC. I suoi resti sono sepolti nel cimitero di Dachau. Nel 1952 il parroco di Dachau li ritrova e le spoglie sono traslate nella sua Premolo che, con Bergamo, Sabbio di Dalmine e Cisano Bergamasco gli intitolano delle vie.