Giacomo Ruggeri – membro della redazione di Orientamenti Pastorali

La mia generazione di preti (ho 51 anni e 26 di Messa) è stata educata a pensare che tutto ciò che era coniugato al futuro, non aveva prevalenza: ci si penserò… in futuro! (appunto). La fortuna e il dono, per chi ne ha beneficiato, è di incontrare e lavorare in parrocchia sia con laici saggi e scaltri, sia con preti più anziani con l’occhio lungimirante, dove i loro capelli bianchi non erano memoria nostalgica del passato, ma affamati di profezia incarnata con il popolo.

Ecco, forse, un 1° punto è proprio qui: per la pastorale che verrà ci sarà bisogno di preti appassionati a riconoscere e a valorizzare l’agire di Dio nel vissuto delle persone (nessuna esclusa). Avverto che lo stesso termine «pastorale» è sempre più ininfluente. Pastorale presume che vi siano due elementi: pastore + gregge. La gente, però, non si vuole sentire pecore al seguito di qualcuno e l’invasività performativa dei profili social ne è la conferma (fra altre conferme) di voler essere pastore di se stessa. E il prete, da parte sua, si è reso conto che il suo servizio di pastore (senza gregge) è da ri-fondare.

I due decenni passati della pastorale in Italia sono stati forieri di tanti progetti. La parola chiave è stata progettualità, rendendo molte persone allergiche (non senza ragione) a tutto ciò che aveva come prefisso: progetto, evento, convention, ecc. L’insistenza sul presente, la prestanza operativa sull’oggi, l’immediatezza di dare una risposta ai problemi delle persone c’ha fatto diventare più miopi sul domani. Anche dal punto di vista editoriale il ventennio passato è stato fecondissimo di testi sulla pastorale ecclesiale in Italia, per poi assistere a un assottigliarsi progressivo. Il punto non è che non c’è più nulla da dire, o scrivere, sulla pastorale; ma che la stessa pastorale (da tempo) è giunta a saturazione. Gli manca l’aria, il respiro, l’ossigeno. L’ossigeno della gente, delle persone, come trasfusione nelle canoniche, nei consigli pastorali diocesani, presbiterali, consigli episcopali. Sulla croce rossa non ho mai sparato, ma l’autocritica serve e fa bene a ritrovare saggio discernere e intelligente buon senso ecclesiale. Il Covid, come pugno nello stomaco, ha fatto la sua parte. Ed è proprio dalla mobilità operativa della gente (non solo i parrocchiani abituali, ma di tante persone a latere della Chiesa) che proprio nel tempo pandemico ha stupito parroci e cappellani. Molti preti che dicono: “Tanta carità sta arrivando in canonica in un modo che non avevo mai visto, soprattutto da persone mai incrociate nei corridoi né dell’oratorio, né della chiesa”.

Ed ecco, forse, un 2° punto: dietro e dentro i fiumi di generi alimentari e soldi che arrivano in parrocchia in emergenza Covid, vi sono – in realtà – fiumi di umanità che inondano e straripano nei confini della parrocchia stessa, oramai a scarsità di ossigeno ecclesiale. Un ossigeno che ha il sapore della gente, delle persone così come le incontriamo e non come le vorremmo. Il Covid, pastoralmente parlando, sta portando le nostre parrocchie, una a una, dentro le terapie intensive non degli ospedali, ma del tempo attuale della Chiesa e del discernimento dello spirito oggi. La pandemia ci sta dando un saturimetro inedito per misurare la mancanza, di quello che chiamo, l’ossigeno del popolo nelle vene delle nostre parrocchie. Il punto nodale non è nell’emorragia di donne e uomini dalle parrocchie (perché il Covid ci sta facendo vedere che ci sono, ma non ci si parla più, ed entrambi ne abbiamo bisogno), ma del termine stesso laico che va ripensato assieme. Raramente, se non erro, ho sentito usare da Bergoglio la parola laico, ma semmai giovani, bambini, adulti, anziani. L’Apostolicam actuositatem, certamente, da un’ottica precisa, ma, come tutte le lenti, hanno bisogno di essere graduate con l’avanzare del tempo. Pena, altrimenti: rimanere ciechi. Negli anni prima del Covid lo smarrimento pastorale era indice della miopia di me prete. Con il popolo, invece, si impara a vedere lontano.

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