Vittorio Trani – cappellano del carcere «Regina coeli»
Mi piace aprire questa breve riflessione sul ruolo dei religiosi nella pastorale e sull’apporto che essi possono dare alle sfide che la comunità cristiana è chiamata ad affrontare nel nostro tempo, facendo riferimento ad un episodio che mi è capitato qualche anno fa. Curavo, allora, la rivista del Centro missionario italiano del mio ordine.
Prima dell’assemblea annuale dei religiosi impegnati a pro delle missioni e degli animatori laici, ricevetti una telefonata di un giovane vescovo africano, da poco eletto alla guida di una diocesi, che non aveva sul territorio la presenza di consacrati. «Mi sento − come poi ci disse − pastore di una Chiesa locale monca». Mancava quella componente carismatica dei consacrati che è dimensione essenziale per dare completezza al volto della Chiesa. Egli partecipò ai lavori dell’assemblea, perorò con passione la causa dell’apertura di una comunità di consacrati nella sua Chiesa.
Noi, in quella circostanza, non potemmo dargli aiuto concreto, ma ho saputo anni dopo, che la sua ricerca aveva portato i suoi frutti: una comunità di suore di clausura si era insediata in un villaggio, con grande gioia del vescovo.
Partendo da questa piccola esperienza, vorrei mettere in fila alcuni spunti che permettano di fare insieme una riflessione sulla vita consacrata. Solo riflettere e prendere coscienza, senza fare citazioni di documenti, se non nella misura in cui essi hanno depositato dentro qualche passaggio forte sul tema. Questo stesso approccio vorrei proporlo a chi legge.
Come per il giovane vescovo africano, così dovrebbe essere per tutti: la vita consacrata nella Chiesa è un «dono» venuto da Dio, affidato ai chiamati, ma destinato a tutti attraverso la loro testimonianza. I consacrati, dunque, devono saper capire ciò che sta avvenendo e trovare un atteggiamento positivo anche in un passaggio storico così particolare come quello che stiamo vivendo in questi anni. E aggiungo: essere capaci di «dare il massimo», oggi, nella Chiesa, che non può fare a meno della loro ricchezza. E, di pari passo, i vescovi, i membri del clero secolare, gli stessi laici, dovrebbe ricuperare la piena considerazione del valore della vita consacrata.
Situazione della vita consacrata, oggi
La vita consacrata è in grave difficoltà. È come accerchiata da tanti fattori negativi che sembrano intaccare la sua identità e determinare la drastica riduzione numerica delle famiglie religiose tradizionali. Gli studiosi del fenomeno parlano di tante «concause» che hanno contribuito a creare la situazione delicata che è sotto gli occhi di tutti.
La prima, come sottolineano molti, è legata alla mancanza di una sintesi dottrinale e pratica, richiesta per dare alla vita consacrata nuovi orizzonti, che ha creato dei vuoti sono stati un vero tsunami per le religiose che avevano una precisa collocazione all’interno della Chiesa e della società. Basta pensare a quale spazio avevano negli asili, nelle scuole, negli ospedali.
Un altro fattore che va tenuto presente è il cambiamento vertiginoso che c’è stato dal ‘68 in poi, in tutti settori e in qualsiasi livello culturale. Nel bailamme generale, ha preso corpo la profonda crisi di identità della fascia giovanile, sempre più dipendente della cultura «dell’usa e getta», propinata dai mezzi della comunicazione. A tutti questi fattori va aggiunto, poi, un dato di fondo del nostro tempo: il galoppante processo dell’allontanamento dalla fede in atto nella società. Nessuno di questi motivi, certo, abbraccia e spiega tutto il fenomeno. Ognuno di essi, però, evidenzia una parte di verità che accompagna la crisi.
È possibile allora che i consacrati possano continuare a «dire la loro» ancora oggi, nonostante le difficoltà che stanno vivendo? La risposta è sì, a condizione che ci si sappia interrogare sui percorsi fatti; che si sappia cogliere ciò che ha pesato in negativo nella testimonianza del carisma affidato dallo Spirito all’istituto; che si sappia guardare attorno dove tutto è cambiato: Chiesa, società, famiglia, quadro culturale. La forza propositiva dei religiosi sta nella testimonianza di vita. Parlando della crisi attuale della vita consacrata, va detto che essa fa emergere una profonda «scollatura» tra il mondo dei religiosi e la società, compresa la comunità cristiana.
Al pari dei costruttori della Torre di Babele, anche i consacrati sono andati incontro alla tentazione della «diversità di linguaggio» che sembra aver pesato, e tuttora pesa, sul ruolo dei consacrati nella Chiesa e nella società. Non si tratta del linguaggio verbale, ma di quello più profondo, il «linguaggio della testimonianza», che sembra aver scavato un fosso tra i religiosi e il resto della comunità dei credenti.
Gli istituti di vita consacrata devono certamente capire cosa stia avvenendo all’esterno, interrogarsi sulle cose che non vanno, sforzarsi di avvicinare il mondo dei giovani, e farlo con aperture nuove a tutti i livelli. C’è però la tentazione a chiudersi. Ed è facile perdere di vista la ragione fondante della vocazione religiosa, quella di aver ricevuto un dono che è di tutti. L’altro motivo evidenziato è la mancanza di comunicazione, quella della vita.
La paura dei numeri
La riduzione numerica dei religiosi è un motivo di grande preoccupazione per i vertici degli istituti e anche della comunità cristiana che sta assistendo al graduale svuotamento delle diocesi di presenze religiose, con comunità che partono, con chiusure di conventi. Due sono le parole intorno alle quali gli istituti e gli ordini religiosi stanno spendendo energie, serenità, tempo: accorpare e chiudere. E sono passi non indolori per tutti. Per gli istituti e per la Chiesa
Dietro le cifre che parlano di una profonda crisi vocazionale, bisogna leggere case in meno, parrocchie in meno, scuole in meno ecc. E ancora: abbandoni, passaggi al clero secolare. Con qualche risvolto anche di passi sbagliati nella scelta di candidati, assecondando la tentazione di accaparrarsi qualche soggetto problematico.
In un incontro della CISM, mentre un relatore parlava della crisi vocazionale e dei problemi che a essa sono collegati, un ministro provinciale che mi sedava accanto e che io non conoscevo si chinò verso di me e, sottovoce, mi sussurrò. «Siamo ancora troppi». Mi limitai a guardalo; ma, alla fine della conferenza, gli chiesi di esplicitarmi il suo pensiero. Lo fece con un sorriso un po’ scherzoso. «Siamo pochi – disse − per fare i parroci, siamo pochi per tenere in piedi scuole, cliniche, case di riposo e altro. Ma per illuminare la Chiesa locale basterebbe al suo interno avere un religioso santo». E qui, non solo per quel ministro ma per tutti, ci sarebbe il superamento di ogni problema.
Indicazioni di papa Francesco.
Dei tanti interventi del magistero di papa Francesco riguardo alla vita consacrata, vedrei utile, per il nostro tema, valorizzare due testi che sono come tasselli complementari l’uno dell’altro, ma servono a tracciare una specie di identikit del consacrato dei nostri giorni: un credente con un grande spessore di fede, alla quale la chiamata aggiunge lo specifico del carisma dell’istituto.
Il primo testo del papa lo prendo dal quinto capitolo dell’esortazione apostolica Gaudete et exultate, dove il pontefice indica quello che potremmo definire «il corredo» del seguace di Gesù, fatto di atteggiamenti che permettono di rimanere fedele al proprio battesimo e avere una vita feconda sul piano della testimonianza.
Senza questa base, spesso la qualità della vita religiosa perde di significatività.
L’altro pilastro è rappresentato dalla povertà. Un valore che ha un fascino trainante in ogni contesto. I fedeli non vogliono il religioso vestito come un cencioso e che non abbia un tetto sulla testa. No. Vogliono toccare con mano che quell’uomo che dice di appartenere a Dio è veramente libero dalle cose materiali; che abbia un tenore di vita modesto, possibilmente vicino alla gente povera dove egli vive; che non cede alla tentazione del macchinone, dei vestiti firmati, da ricercatezze. Agli occhi dei fedeli, il religioso deve essere — come si sente dire spesso – un «testimone credibile del regno di Dio».
Al terzo posto il papa mette la pazienza. Da religioso, egli guarda in faccia la realtà interna delle comunità: «Senza la pazienza si capiscono – precisa − le guerre interne di una congregazione».
Sfide da affrontare
Per i religiosi di oggi che si impegnano a livello pastorale, sembra importante aggiungere soltanto alcune indicazioni che individuino obiettivi fondamentali per la loro testimonianza.
a) La prima sfida è mantenere la propria identità. Sempre. Qualunque sia la portata delle situazioni in cui ci si trova a vivere.
b) Una seconda sfida riguarda il mondo dei giovani. Vanno avvicinati, capiti, accompagnati. Le loro strade che un tempo andavano verso la Chiesa si sono ostruite quasi tutte. Adesso ne vanno riaperte altre che dalla Chiesa vadano verso di loro. I religiosi hanno le carte giuste per fare qualcosa per interessarli e coinvolgerli.
c) Una terza sfida per i consacrati è rappresentata dalla capacità di essere significativi dentro la Chiesa e la società dei nostri giorni. Abbiamo temi troppi importanti sotto gli occhi che sollecitano grande attenzione.
Perché ciò avvenga, il mondo dei consacrati deve avere sempre consapevolezza del «dono grande» ricevuto, e fare da tramite perché la sua ricchezza arrivi ai fratelli.
(Tratto da Orientamenti Pastorali 12/2019, EDB, Bologna)