Rosanna Virgili – biblista e docente di esegesi biblica presso l’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona
La guerra mostra uno dei tanti aspetti paradossali dell’essere umano, l’unico tra le specie viventi a intraprendere questa attività del tutto irrazionale. La guerra è, infatti, essenzialmente devastatrice: chi vi partecipa mette a rischio il suo bene più grande, la vita, provoca povertà, distrugge nazioni, porta malattie, ferite e traumi che durano per molti anni anche dopo la sua fine. Eppure, essa è attestata fin dagli albori della vita umana, e non esiste periodo in cui non si registri la sua totale assenza. È sintomatico che la stessa storia, sia sacra, sia profana, venga fatta iniziare con un fratricidio. Indagando sulla psicologia della guerra il padre gesuita Giovanni Cucci ricorda a ragione come ogni storia – sacra o profana – si faccia iniziare con un fratricidio. Romolo uccide Remo per fondare Roma, Caino uccide Abele per dar corso – anche simbolicamente – a un’umanità che sarà perennemente fratricida. Si nasce fratelli e si diventa nemici. Caino era figlio del primo uomo Adamo e della prima donna, Eva; egli aveva un solo fratello e tutta la terra a disposizione. Eppure, sentiva l’avidità di avere tutto per sé; lui che era contadino sapeva dell’enorme ricchezza che avrebbe potuto ricavare da essa seminandola e raccogliendone i frutti. Ed ecco la sapienza che il filosofo inglese Thomas Hobbes mostra nel suo Leviatano: la ragione delle guerre è l’avidità per la sopravvivenza, per cui l’uomo diventa homini lupus. Vedendo che Dio non gradiva la sua offerta, Caino temette per la sua sopravvivenza e scatenò quell’aggressività che doveva finire con la mano alzata su suo fratello Abele. Il fratello diventa quel nemico il cui concetto era indispensabile, nel pensiero di Carl Schmitt, per dare fondamento al «politico». Non solo la famiglia ma anche la pòlis sorge, inevitabilmente, dalla pòlemos, dalla guerra! Ma a differenza della civiltà greca e romana che hanno lasciato in eredità poemi di esaltazione della guerra – basti pensare a Omero, Livio, Giulio Cesare – la Bibbia lascia, invece, dopo l’esaltazione della conquista nel libro di Giosuè e in alcune parti dei libri dei Re, ampio spazio all’orrore della guerra vista da parte dei vinti. Possiamo dire che nella Bibbia c’è una descrizione del fenomeno della guerra in tutte le sue pieghe e le sue ricadute e senza trascurare i momenti di esaltazione, si sofferma, però, molto più a lungo sulla devastazione che essa procura. Il profeta Geremia invita il re di Giudea ad arrendersi ai babilonesi pur di evitare la fame, la spada e la peste che l’inutile strage porterà su Gerusalemme. Dopo la catastrofe in cui Israele è stata travolta dalla guerra, nel Nuovo Testamento si vuole aprire a una rinascita, iniziare una storia nuova con una rinnovata umanità. Alla sua «fondazione» non ci saranno più due fratelli che diverranno l’uno assassino dell’altro ma due sorelle che diverranno l’una alleata dell’altra: Elisabetta e Maria. Sono loro le «fondatrici» di quella nuova terra promessa che sarà la «città cristiana», la Chiesa, che sorge su «cieli nuovi e terra nuova». Figlia di una umanità riconciliata dall’amore, unita da una cicatrice di pace.
Elisabetta è colma di gioia perché il Signore: «si è degnato di togliere la sua vergogna fra gli uomini» (Lc 1,25). Maria trabocca di gioia perché l’Onnipotente ha fatto in lei «grandi cose» (Lc 1,49). Lo sguardo di queste due donne si pone dal punto di vista di Dio e canta la sua grandezza, la sua bontà, la sua misericordia. Il Magnificat esprime l’autenticità della fede, innanzitutto per l’annuncio che proclama ai poveri, al popolo di Abramo, povero anch’esso, straniero, migrante, lebbroso, schiavo, esule, scartato, oppresso. Quel popolo che si dilata, nelle note del Canto, fino ad abbracciare e contenere il grido di ogni popolo che soffre, nelle parole di Maria acquista dignità e diritto di abitare la terra, condividerne i frutti in una economia di amicizia e di fraternità, nella giustizia e nella pace. Mentre canta, stupita, la gioia di essere una «serva» che Dio ha salvato rendendola regina, Maria diventa voce di tutti i servi della terra che cantano con lei i prodigi di un Dio misericordioso che: «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,52-53).
Abbiamo visto come nella storia del popolo di Abramo molti sono i racconti di guerra contro i nemici e a favore della salvezza del popolo santo di Dio, di Israele. Talvolta anche le donne prendono la spada per salvare la propria città, difendendola con la violenza contro la violenza dell’aggressore, come, ad esempio, fece Giuditta. Pur avendo uno stile simile a quello dei canti che inneggiano al successo delle eroine bibliche, il Magnificat si distingue proprio su questo punto: il ripudio e l’assenza dello strumento bellico per ottenere la salvezza, per difendere la vita dei poveri. Un’arma c’è ma è del tutto inerme: è quel bambino che cresce nel seno di Maria! La forza della vita che vince per amore è l’unica «arma» efficace per la salvezza dei poveri e dei ricchi, degli amici e dei nemici, dei giusti e dei peccatori. Santo è il canto di gioia di Maria che confessa il Santo che non è il Dio della guerra ma della pace, per mezzo del Santo che sarà suo Figlio, colui che abbatte ogni muro per porre la sua carne come anello di pace. Modello per il Figlio, chiamata «serva» prima ancora di lui, nei racconti evangelici, Maria diventa modello per tutti i cristiani, come ricorda Francesco: «San Paolo invitava i cristiani di Roma a non rendere “a nessuno male per male” (Rm 12,17), a non voler farsi giustizia da sé stessi (cf. v.19) e a non lasciarsi vincere dal male, ma a vincere il male con il bene (cf. v.21). Questo atteggiamento non è segno di debolezza ma della vera forza, perché́ Dio stesso “è lento all’ira, ma grande nella potenza” (Na 1,3). La parola di Dio ci ammonisce: “Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità” (Ef 4,31)» (Gaudete et exultate 113).
In molti modi gli Apostoli esortavano i cristiani alla mitezza: «È necessario lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere che mettano radici: “Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira” (Ef 4,26). Quando ci sono circostanze che ci opprimono, possiamo sempre ricorrere all’ancora della supplica, che ci conduce a stare nuovamente nelle mani di Dio e vicino alla fonte della pace» (Gaudete et exultate 114).
(Tratto da Orientamenti pastorali n. 5/2022, EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati)