Giancarlo Tettamanti – giornalista pubblicista, socio fondatore AGESC 

La Commissione Europea è entrata a piedi uniti nella querelle inerente al riconoscimento dei figli delle coppie dello stesso sesso. Il tutto, dice, “in linea con la strategia per l’eguaglianza delle persone LGBT 2020-2025, compreso anche l’obbligo per gli Stati membri di riconoscere i figli di genitori dello stesso sesso, ai fini dell’esercizio dei diritti conferiti dall’UE”.

Ora si sa che una coppia dello stesso sesso non può avere figli, poiché il concepimento avviene a seguito di un rapporto uomo/donna. Ne consegue che i presunti figli di una coppia dello stesso sesso è frutto di un intervento esterno, cioè attraverso l’utero in affitto, e quindi attraverso una maternità surrogata, cioè “una pratica di mercato che viola la dignità della donna e dei diritti umani”, così come sentenziato dalla Corte costituzionale. Forse un aggiornamento culturale e antropologico farebbe bene.

In questo nostro tempo estremamente confuso, ciò che l’U.E. impone diviene una proposta culturale ed esistenziale, ciò che non è: infatti di fronte a situazioni difficili e a egoismi incomprensibili dettati da una pretesa libertà inconscia e spesso irresponsabile, il purissimo amore di una madre trova mezzi e modi per opporsi. Infatti, vi è qualche cosa di misteriosa nella relazione – e nell’impatto – tra madre e figlio.

Ce ne fornisce una lezione Edith Stein, di famiglia ebrea, profondamente religiosa, cultrice di studi filosofici, arrestata nel 1942 e avviata al campo di sterminio di Auschwitz dove ebbe a trovare la morte. Ella seppe darci conoscenza del fatto estremamente misterioso presente nella relazione – e nell’impatto – tra madre e figlio. “La ragione – ebbe a dire – non giungerà mai ad affermare appieno come possa avvenire che l’organismo materno formi un nuovo organismo. Allo stesso tempo incomprensibile, ma non meno vero, il dato di fatto che, dopo la separazione tra madre e figlio che interviene alla nascita, continui a sussistere un legame invisibile, in forza del quale la madre può percepire di cosa il figlio abbisogna, cosa gli nuoccia, cosa abbia luogo nel suo intimo, e possiede una mirabile capacità inventiva ed una oblatività che non si ferma neppure dinnanzi alla morte”. È il miracolo della vita, un miracolo che, quando si decide di disfarcene, di non riconoscerlo, richiama continuamente alla responsabilità rifiutata e comporta il permanere di un dolore a causa del “bambino rifiutato”.

“Il legame tra madre e figlio – ebbe a specificare – è il primo frutto importante e fondamentale di quel “potere” meraviglioso chiamato flusso materno. La presenza o la mancanza della “mamma” viene avvertita dal figlio in tutti i momenti della vita. Nei ricordi felici o nefasti della sua presenza, ricorre continuamente la sua figura”. E nel ricordare ciò, Edith Stein ebbe ad evidenziare che il primo dovere che deriva per la madre è che deve “essere” per il proprio figlio, e che, se solamente le circostanze della vita lo consentono, non deve farsi rimpiazzare da nessun altro, poiché nessuno può farne appieno le veci”.

“L’autentico amor materno – chiarì – sa bene che quella creatura non è lì per lei: non si tratta di un giocattolo fatto apposta per colmare il suo vuoto, o per placare la sua sete di tenerezza, o per soddisfare la sua vanità e la sua ambizione. Si tratta di una creatura del Signore, che deve sviluppare la sua natura nel modo più possibile puro e pieno, e che dovrà occupare poi il suo posto nel grande organismo dell’umanità”. Tanto vero che spesso i figli adottati, pur trovandosi in ambienti buoni e ricchi di comprensione, al giungere della età matura, vanno alla ricerca delle loro radici, e delle ragioni per le quali sono stati abbandonati. E spesso, in punto di morte, vanno con la mente alla ricerca del volto della mamma: ciò è conoscenza data dall’esperienza di coloro che operano in case di riposo e in luoghi terminali.

Una lezione, questa, diretta a quanti vorrebbero rivoltare la natura umana, volgendola verso egoismi e inconsce imposizioni, in nome di una libertà che va a negare i diritti dei bambini: quello di avere un papà e una mamma. Questa presunzione va a rompere la relazione “materna” con la sua creatura.  Da qui, evidente la determinazione nel dire che qualsivoglia operazione in ordine alla maternità surrogata, non ha ragione di esistere, poiché non ha alcun diritto di pretendere di essere legalizzata.

È evidente che la pratica commerciale di affitto all’utero – ebbe ad esprimere Marina Casini del Movimento per la Vita – è la manifestazione di una forma di onnipotenza autodeterminativa che si spinge fino al punto di negare la realtà dei fatti. È un diritto reclamato da adulti che forzano il limite biologico: non esistono figli di due papà o di due mamme”. E la femminista Marina Terragni: “E’ evidente che i diritti dei bambini sono violati con la maternità surrogata, lì viola chi chiede la trascrizione integrale degli atti di nascita. Il superiore diritto del bambino è stare con chi l’ha partorito, nel cui corpo è venuto al mondo. Il secondo diritto del bambino è dato dalla verità sulle proprie origini. Non gli si possono raccontare frottole: oltraggioso mentire ai bambini sulla loro identità”.

Tale diritto reclamato è espressione di una cultura antiumana, con una logica sottesa: il figlio come diritto, vite umane di scarto, genitorialità stravolta, corpo femminile come strumento di produzione. L’ideologia che avanza e che pretende di distruggere, con atto strumentale, il significato della complementarità sessuale maschile-femminile, quella della generazione di figli.

Il tempo che stiamo vivendo tutti non nasconde affatto la necessità, in coscienza, di una consapevolezza maggiore e di una assunzione concreta di autentica responsabilità genitoriale: tuttavia sembra che tutto ciò sia soltanto marginale e opzione trascurabile. Le osservazioni e l’insegnamento di Edith Stein sembrano espressioni non adatte al momento. Sono invece il cardine di una vita personale e familiare fondata su una corretta realtà antropologica umana.