Antonio Mastantuono – pastoralista, direttore di Orientamenti Pastorali
Dai margini al centro
Non sfugge a nessuno il senso di emarginazione e di episodicità che i temi sociali hanno avuto – e hanno – nella ordinarietà della prassi pastorale delle nostre comunità. Finora la pastorale del lavoro si è espressa soprattutto come cura pastorale degli operai o del mondo produttivo. Una pastorale che si è espressa o con interventi occasionali (sulla spinta di scioperi con cui solidarizzare, prese di posizione in occasione di particolari avvenimenti del territorio…) o con la creazione di reti imprenditoriali/sindacali, o – in altri anni – con il sostegno al partito cattolico e la fornitura di quadri dirigenti al partito stesso, o con la fascinazione dell’ideologia marxista che avrebbe riformato la Chiesa come «chiesa del popolo» dedita principalmente all’emancipazione sociale (e quindi all’assunzione di temi sociali «caldi», come temi immediatamente/induttivamente pastorali: ecologia, pace, diritti civili, questione femminile…), o, infine, con l’attivazione di scuole e di percorsi formativi di dottrina sociale della Chiesa. Azioni tra loro molto diverse, che hanno per comune denominatore quello di interessarsi di fatti/eventi/dimensioni considerati non prettamente intra-ecclesiali. La pastorale del lavoro e, più in generale la pastorale sociale, si è venuta di fatto configurando come quel settore della vita pastorale che si doveva interessare di problemi o di emergenze che non riguardano la comunità cristiana, ma il suo «altrove».
Pur coinvolgendo i cristiani (o in quanto operai, o in quanto destinatari di certi servizi sul territorio) la pastorale sociale si è strutturata come un settore «ponte» tra Chiesa e mondo, nella quale la Chiesa – intesa non immediatamente come popolo dei battezzati, ma piuttosto come istituzione (corpo intermedio) presente sul territorio – poteva offrire un certo tipo di servizi (scuole, raccolta firme, corteo/manifestazione), esauriti i quali l’istituzione non aveva altro da dire/fare. Una pastorale intesa in questo modo è andata in crisi per una serie di fenomeni, tra cui ricordiamo: le modificazioni del mercato del lavoro e della produzione, per ciò che riguarda l’operaismo ancora possibile nei primi anni Ottanta; la transizione infinita della politica italiana e i fenomeni ambigui che l’hanno contraddistinta; l’accresciuta mobilità imprenditoriale, che ha reso difficoltosa la creazione di una rete di imprenditori che insista su uno stesso territorio, e dunque in grado di condividere le stesse frequentazioni o partecipare alle medesime occasioni formative.
La formazione dei presbiteri più giovani pare risentire di una vistosa lacuna (non soltanto teorica, ma più ancora pratica) che riguarda proprio la dottrina sociale e più generalmente l’impegno pastorale in campi sociali, non più avvertiti come rilevanti in ordine alla missione propria dei pastori o alla vita del gregge. È stata questa pastorale «occasionale» e «esclusivamente ad extra» a non saper più che senso avesse la sua azione, non tanto l’interesse della Chiesa per la società, poiché tale interesse – come si sa – è costitutivo dell’identità e della missione della Chiesa stessa, che esiste «per evangelizzare» le società umane. Le ragioni di questa occasionalità, risiedono non tanto nell’interesse o disinteresse del presbitero e della comunità ecclesiale, quanto invece nella stessa «mappatura pastorale» comunemente configurata nel trinomio evangelizzazione/liturgia/carità.
Questo trinomio ha spinto/spinge verso una azione pastorale fortemente squilibrata: dedica molto tempo alla parte ad intra (strutturando organicamente le celebrazioni, i sacramenti, i vari momenti della vita interna di una comunità) e fatica molto a organizzare il resto, configurando la pastorale ad extra più come una pastorale di iniziative più o meno occasionali, che come una pastorale strutturata organicamente. Il IV Convegno della Chiesa italiana[1] aveva offerto la possibilità di ripensare l’impianto della prassi pastorale della comunità cristiana, ponendo al centro la persona e le sue dimensioni, ma all’enunciazione non ancora fa seguito il necessario cambiamento. L’uscita da questa impasse pastorale sarebbe possibile adottando un nuovo modello di azione ecclesiale progettato a partire dall’antropologia drammatica di Hans Urs von Balthasar,[2] il quale ha individuato tre polarità antropologiche costitutive (anima/corpo, uomo/donna, individuo/società) che a loro volta identificano tre grandi campi del vissuto umano: quello della cura dell’anima (ciò che in tedesco è espresso dal termine seelsorge, classico e specifico nella letteratura e nel pensiero teologico-pastorale) e del corpo (le attuali pastorali della salute e del tempo libero), quello della vita affettiva (di coppia e di famiglia, alla quale appartengono tutte le generazioni), quello della vita sociale che qui ci interessa, con i temi correlati del lavoro, dell’economia e dei fenomeni/modelli che strutturano appunto la vita sociale. La scelta di questo paradigma romperebbe il dilemma insito nello schema ad intra/ad extra e scioglierebbe il nodo, pastoralmente così inibente, se la comunità cristiana debba occuparsi dei vicini o dei lontani, dei pochi o dei molti, di chi «viene in parrocchia» o di chi «non viene in parrocchia», della evangelizzazione o della promozione umana. Si tratta, infatti, di dimensioni che appartengono contemporaneamente al vissuto dell’uomo in quanto uomo (a prescindere dalla sua appartenenza o no a una religione istituzionale) e al vissuto cristiano specifico, perché sono dimensioni strutturali della persona alle quali l’ottica del vangelo e la grazia dello Spirito Santo danno una forma specifica e originale, plastica e dinamica; dimensioni, quindi, che contemporaneamente sono missionarie e di edificazione della comunità cristiana.
In tale visione la pastorale sociale – e al suo interno la pastorale del lavoro − non può che ritenersi necessaria, e la sua identità attuale deve essere compresa allargandone l’orizzonte: dalle «cose da fare per le classi lavoratrici» al compito di risignificare in Cristo la dimensione sociale della vita umana, così come essa è venuta articolandosi in questo tempo della post-modernità. All’interno di questa prospettiva, assume necessariamente un’importanza decisiva il compito che spetta ai laici coinvolti nell’azione pastorale della Chiesa. Questa la diagnosi di papa Francesco: «Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose «dei preti», e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede».[3] La configurazione di un modo di essere definitivamente cristiani rappresenta oggi un obiettivo cruciale per le ambizioni di una cosciente testimonianza evangelica. Per dare a essa carne e sangue, tuttavia, non servirà a nulla intensificare ulteriormente i molti itinerari di aggregazione alla vita parrocchiale o i percorsi di introduzione in ecclesialese alle diverse spiritualità di ambito (la famiglia, il lavoro, la politica). Si tratta piuttosto di ridare una forma univoca e riconoscibile allo statuto della perfezione cristiana realmente plasmata con la materia della vita umana comune. Restituire profilo e riconoscibilità a un modo di essere credenti in cui si incarni visibilmente la vocazione evangelica dell’esistenza ordinaria. La questione del laico si sovrappone a questa necessità. La questione dei laici nella Chiesa riguarda la configurazione di una generazione di cristiani capaci di dare «alla sequela forma della vita, non della parrocchia».[4]
Non si tratta di favorire la partecipazione dei laici, quanto la loro corresponsabilità. Tale corresponsabilità è radicata nella consacrazione battesimale e richiesta dalla missione evangelizzatrice implicita in quella stessa consacrazione (è il tema del sacerdozio di Cristo, a cui partecipano tutti i battezzati). La corresponsabilità non è, prima di tutto, un aiuto ai pastori, ma un’espressione della vita cristiana, che trova luogo e forma principalmente non nella cooperazione ai compiti pastorali intra-ecclesiali, ma nella vita concreta del territorio, della gente, del luogo di lavoro. È molto importante partire da questo riferimento fondamentale, perché esso chiarisce che i laici sono abilitati e riconosciuti nella loro responsabilità ecclesiale innanzitutto e propriamente come laici, cioè non in forza di eventuali incarichi intra-ecclesiali, ma in forza piuttosto della loro concreta vita cristiana, secondo la vocazione e lo stato di ognuno. È la cosiddetta «indole secolare» (diversamente da come riteneva Lutero) che definisce la qualità specificamente teologica del laico. È all’interno di questo orizzonte che si giustifica quella responsabilità condivisa per il vangelo che può implicare anche il coinvolgimento attivo nella vita della comunità (dal diritto di parola alla presenza negli organismi ecclesiali). L’ambito dell’impegno laicale non è peculiarmente la cura pastorale della comunità cristiana, ma si esprime nella responsabilità testimoniale e nel servizio della comunità ecclesiale e sociale. Se vale questa tesi di una diversa mappatura della azione ecclesiale in questo nostro tempo e in questo, la centratura di tutta la pastorale a partire dalle grandi polarità costitutive renderebbe presente e attiva la guida del pastore in dimensioni centrali per la vita delle persone (centrali sia per l’interiorità che per la socialità). La reinterpretazione della funzione direttiva (o di guida) del sacerdote pastore andrebbe nella direzione di un recupero del suo ruolo – oggi offuscato se non misconosciuto – di figura autorevole in ordine alla chiarificazione e alla trasmissione del senso della vita.
La comunità cristiana: locanda di racconto del lavoro
L’aver cercato, sommariamente, di indicare la necessità di un cambiamento della «mappatura» pastorale non ci esime dall’indicare alcuni tratti di una comunità cristiana che fa i conti con il mondo del lavoro. Innanzitutto, immaginare la comunità cristiana come «comunità di racconto», assumendo il libro degli Atti come paradigma esemplare, è il segreto che consente alle comunità cristiane di pensarsi missionarie. Perché un simile esercizio porta in modo naturale ad assumere come punto di vista dal quale leggere la storia quello dell’azione di Dio, del suo disegno su di noi. Diventa centrale il riscoprire il lavoro come luogo in cui l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita.[5] Perché ciò avvenga è necessario che il lavoro sia «libero, creativo, partecipativo e solidale».
Di queste caratteristiche – in un incontro del maggio 2013 – papa Francesco ne ha dato una esplicitazione che qui riportiamo:[6]
- Libero. La vera libertà del lavoro significa che l’uomo, proseguendo l’opera del Creatore, fa sì che il mondo ritrovi il suo fine: essere opera di Dio che, nel lavoro compiuto, incarna e prolunga l’immagine della sua presenza nella creazione e nella storia dell’uomo. Troppo spesso, invece, il lavoro è succube di oppressioni a diversi livelli: dell’uomo sull’altro uomo; di nuove organizzazioni schiavistiche che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno che contraddice la creazione nella sua bellezza e nella sua armonia. Dobbiamo far sì che il lavoro non sia strumento di alienazione, ma di speranza e di vita nuova.
- Creativo. Ogni uomo porta in sé una originale e unica capacità di trarre da sé e dalle persone che lavorano con lui il bene che Dio gli ha posto nel cuore. Ogni uomo e donna è «poeta», capace di fare creatività. Poeta vuol dire questo. Ma questo può avvenire quando si permette all’uomo di esprimere in libertà e creatività alcune forme di impresa, di lavoro collaborativo svolto in comunità che consentano a lui e ad altre persone un pieno sviluppo economico e sociale. Non possiamo tarpare le ali a quanti, in particolare giovani, hanno tanto da dare con la loro intelligenza e capacità; essi vanno liberati dai pesi che li opprimono e impediscono loro di entrare a pieno diritto e quanto prima nel mondo del lavoro.
- Per poter incidere nella realtà, l’uomo è chiamato a esprimere il lavoro secondo la logica che più gli è propria, quella relazionale. La logica relazionale, cioè vedere sempre nel fine del lavoro il volto dell’altro e la collaborazione responsabile con altre persone. Lì dove, a causa di una visione economicistica, come quella che ho detto prima, si pensa all’uomo in chiave egoistica e agli altri come mezzi e non come fini, il lavoro perde il suo senso primario di continuazione dell’opera di Dio, e per questo è opera di un idolo; l’opera di Dio, invece, è destinata a tutta l’umanità, perché tutti possano beneficiarne.
- Non può mancare l’apertura verso coloro che non hanno trovato, o hanno perso il lavoro, offrendo innanzitutto la propria vicinanza, la propria solidarietà. Ma poi bisogna anche dare strumenti ed opportunità adeguate di nuovi percorsi di impiego e di professionalità.
La comunità cristiana: locanda della speranza per il mondo del lavoro
Nel racconto comunitario non saranno estranee né la domanda: «quale speranza per il mondo del lavoro, oggi?», né l’invito a trovare risorse di speranza nella propria esperienza credente. È facile porre la domanda «quale speranza….?», mentre non è facile dare una risposta, almeno una risposta che sia chiara e sicura. O se si preferisce, sembra di dover dire più esplicitamente che sono poche le speranze di fronte ai giovani che a fatica riescono a trovare lavoro, ai disoccupati e a quanti soffrono i disagi dovuti alla diffusa crisi occupazionale. Comunque, la domanda sulla speranza va posta e la risposta va cercata, dal momento che sono in questione il senso della nostra esistenza e la nostra stessa fede. Che senso ha, dunque, sperare a proposito dei vari aspetti concreti della nostra vita, e quindi anche del lavoro? Per un uomo e una donna che lavorano la speranza passa attraverso dei gesti molti concreti, si lega a obiettivi precisi che scadono ogni mese, coinvolge delle responsabilità che vanno onorate e mantenute, riguarda il danaro da guadagnare per mantenere la moglie o il marito, i figli, la famiglia, come pure per acquistare una casa e vivere degnamente in essa. È solo in questo orizzonte molto concreto che si deve seriamente affrontare l’interrogativo circa la speranza possibile nel mondo del lavoro.
Le risposte
Anzitutto, il lavoro come un fondamentale valore per la persona, per la sua realizzazione di persona. E questo valore è intimamente intrecciato con la speranza. Il Signore, infatti, ci ha dato la vita perché possiamo viverla con gioia. Ora la speranza cristiana, che ha come sua aspirazione suprema l’aldilà, la vita eterna, ossia la comunione piena e definitiva di amore e di vita con Dio − con il Dio che è oceano infinito di gioia, e dunque beatitudine somma −, non ci chiede affatto di cancellare le attese di questo mondo per pensare solamente all’aldilà. Ci chiede piuttosto di accoglierle e di viverle nell’orizzonte e nella proiezione dell’aldilà. La vita ci è stata data per crescere, è dono all’umanità per svilupparsi, è dono all’uomo e alla donna per una relazione di amore. Tutto il creato e tutto il lavoro intendono sostenere questa vita e questo suo cammino, rendendo così possibile un progresso umano dignitoso e sereno.
Ancora: il lavoro fa parte della vita e dei valori di ciascuno per una esistenza umana tesa alla sua pienezza. Dio, infatti, ha scolpito nel nostro cuore la sua legge e ha consegnato alla nostra responsabilità la sua creazione e il suo disegno su di essa, sul mondo tutto e su ciascuno di noi in particolare. Dio, creandoci a sua immagine e somiglianza, ci ha chiamati a dominare il mondo (cf. Gn 1,27-28) come proseguendo la sua stessa opera creatrice e impegnandoci a osare, a tentare, a intraprendere (imprenditorialità) per un domani degno della persona umana, per sé e per gli altri. Eccolo allora il nostro lavoro farsi momento alto di servizio a Dio e ai fratelli, di condivisione di una missione e di un destino; farsi momento costituente: di me, uomo-lavoratore, in quanto persona in rapporto con l’altro – e con l’Altro, con il trascendente, Dio – e, proprio in forza di quel rapporto, dell’etica stessa che quel rapporto deve regolare. Chi segue questo cammino di speranza può scoprire, proprio attraverso il lavoro, che esistono valori grandi per tutti: valori belli e necessari, valori che meritano di essere accolti e vissuti perchè con essi il mondo possa diventare sempre più umano. Anzi, valori propriamente evangelici: quelli di un lavoro che è partecipazione all’opera redentrice di Cristo, che diviene via di purificazione e di santificazione, che si fa strumento di un amore nuovo.
Chiamati a riscoprire il volto autentico della speranza
Se tutti abbiamo bisogno di riscoprire la speranza – i suoi doni e le sue esigenze – nel mondo del lavoro d’oggi, coloro che credono e che quindi devono essere «testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo», avvertono questa esigenza in un modo più forte e peculiare. In questo senso è necessario «riscoprire» il vero e autentico volto della speranza, in specie della speranza cristiana. Ecco, allora, alcuni lineamenti di questo volto.
- Sperare è la lucidità di scoprire i segni di Dio anche in realtà che possono sembrare o essere povere e banali. Bisogna saperli individuare, questi segni, e saperli accettare come incoraggiamento. E in una comunità di lavoro questo significa animare di vera e fondata speranza questa stessa comunità con un inevitabile miglioramento del suo dinamismo e della sua efficacia a beneficio di tutti.
- Sperare è credere nel significato di una Provvidenza che non ti esime dal lavoro, ma ti salvaguarda dall’ossessione del guadagno continuo e dalla sensazione di essere indispensabile.
- Sperare è sviluppare, per quanto è possibile, il rispetto dei ritmi del lavoro e della festa, conservando nel cuore la bellezza della festa anche nel lavoro, se necessario, come incontro profondo con Dio e con le persone con cui operi.
- Sperare è vivere e coltivare il coraggio di non vendersi mai a nessuno, ma di offrirsi per amicizia dove c’è bisogno. E la testimonianza di chi così opera è conforto e speranza per chi vive ed opera con lui.
- Sperare è prendere sul serio il proprio impegno, compiere il proprio dovere, con la fedeltà e l’entusiasmo di costruire un capolavoro. E l’entusiasmo, si sa, è contagioso quanto e più della depressione, cosicché il mio impegno non è mai speranza solo per me. Si tratta poi, non solo di «riscoprire» questi lineamenti, ma anche di «viverli», di farli diventare «carne della propria carne» nella vita di ogni giorno, così da rendere sempre più luminoso e attraente il volto della speranza.
Tratto da Orientamenti Pastorali n. 3(2017), EDB. Tutti i diritti riservati
[1] Cf. IV Convegno della Chiesa italiana Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo tenuto (Verona 16-20 ottobre 2006).
[2] Cf. H.U. Von Balthasar, Teodrammatica II – Le persone del dramma. L’uomo in Dio, Jaca Book, Milano 2000, 335-369. Cf. Mysterium salutis 11/2, Queriniana, Brescia 1970, 243-531.
[3] Papa Francesco, Lettera del santo padre Francesco al Cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia commissione per l’America Latina (19 marzo 2016). https://w2.vatican.va/content/francesco/it/letters/2016/documents/papa-francesco_20160319_pont-comm-america-latina.html (accesso del 13 febbraio 2017).
[4] P. Sequeri, «Programmare la perfezione? Il problema teologico pratico», in Cammini di perfezione cristiana, modelli definitivamente superati?, Glossa, Milano 2001, 75.
[5] Francesco Evangelii gaudium, n.192.
[6] Francesco Discorso alle ACLI in occasione del 70° anniversario di fondazione. (23 maggio2013) in https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/may/documents/papa-francesco_20150523_acli.html. Accesso 13 febbraio 2017.