Pier Giuseppe Accornero – sacerdote, giornalista, scrittore
«Ci confrontavamo su Mozart e l’aldilà. Fu attento al discorso spirituale. Risplenderà come stella tra i giusti». Dalla vita, dalla morte e dai funerali laici di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica 2006-2015, emergono le molte lezioni di un grande italiano, «servitore della Patria». È morto il 22 settembre 2023 a 98 anni. Dall’addio che gli hanno dato, il 26 settembre, la famiglia e gli amici, la politica e l’Europa, gli ambasciatori di oltre cento Paesi e le istituzioni e dall’intervento del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la cultura, emerge un personaggio «che non ha mai smesso di interrogarsi».
Nasce a Napoli il 29 giugno 1925. Attivo negli ambienti universitari – si laurea in Giurisprudenza nel 1947 – aderisce al Partito comunista italiano e poi al Partito democratico della sinistra. Nell’attività parlamentare dal 1953 si occupa di Mezzogiorno, economia nazionale, politica internazionale. Presidente della Camera, ministro dell’Interno, parlamentare europeo, senatore a vita. Il 10 maggio 2006 è eletto presidente della Repubblica (543 voti) e rieletto il 20 aprile del 2013 (738 voti): «Non mi sono sottratto a questa prova ma quanto accaduto ha rappresentato il punto di arrivo di una serie di omissioni e guasti, chiusure e irresponsabilità». Primo presidente rieletto, il 14 gennaio 2015 si dimette.
«Ministro degli Esteri ombra» del Pci, tiene i rapporti con l’Unione Sovietica e i «partiti fratelli» del Patto di Varsavia. Cerca di portare il Pci all’incontro con il socialismo democratico europeo, con l’atlantismo, con il capitalismo riformato. Il 1956 è l’«annus horribilis» del comunismo mondiale: il segretario Nikita Kruscev al XX congresso del Pcus (14-26 febbraio) alza il velo sulle nefandezze e sulle «purghe» di Jozif Stalin che ammazza milioni di russi, Togliatti plaudente. In giugno scioperano gli operai polacchi al grido «Pane e libertà». In ottobre-novembre la tragedia ungherese: la rivolta popolare è spenta dai carri armati con la stella rossa che bevono il sangue dei patrioti ungheresi. Giuseppe Di Vittorio, capo comunista della Cgil, è obbligato a ritrattare l’adesione alla rivolta. «l’Unità» – con Togliatti e il gruppo dirigente – sostiene l’invasione. Napolitano si allinea: «L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo». Nel 2006 l’onesta autocritica: «I fatti d’Ungheria furono una tragedia, anche per il Pci, un errore grave e clamoroso del gruppo dirigente. La mia riflessione autocritica vale anche come pieno e doloroso riconoscimento della validità dei giudizi e delle scelte di Nenni e del Psi. Ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate. Ho cercato di correggere errori, di esplorare vie nuove. La mia storia è passata attraverso evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e personali, profonde, dichiarate revisioni».
Papa Francesco lo definisce «servitore della Patria e uomo di Stato che ha manifestato grandi doti di intelletto e sincera passione per la vita politica e vivo interesse per le sorti delle nazioni. Negli incontri personali ho apprezzato l’umanità e la lungimiranza nell’assumere con rettitudine scelte importanti, specie in momenti delicati, con il costante intento di promuovere l’unità e la concordia in spirito di solidarietà, animato dalla ricerca del bene comune». Per la prima volta di un Papa, Bergoglio va al Senato alla camera ardente, si ferma a lungo in preghiera ma, rispettando le convinzioni altrui, non benedice il feretro, come fece dopo la prima conferenza stampa con migliaia di giornalisti: «Non benedico perché tra voi ci sono non credenti» e non, come ha scritto qualche fervente cattolico più papalino del Papa: «ha abdicato a questo semplice gesto, un segno dei tempi e la conferma della predicazione di Papa Benedetto XVI».
Per il cardinale presidente dei vescovi italiani, Napolitano «ha dimostrato grande sapienza non solo nella gestione delle crisi, ma anche nell’impegno ordinario a far dialogare le varie componenti della politica italiana e a dare alle discussioni un respiro europeo e mondiale. Lo sforzo per il dialogo costante e per un allargamento degli orizzonti resta un esempio significativo: non si può pensare all’Italia isolata dall’Europa e dal mondo».
Quando il cardinal Ravasi era prefetto della Biblioteca a Ambrosiana di Milano il ministro dell’Interno Napolitano visitò l’istituzione «e gli mostrai l’autografo “Dei delitti e delle pene” (1764) di Cesare Beccaria: l’interesse e l’emozione di Napolitano nello sfogliare quelle pagine erano evidenti». Il cardinale rammenta «il legame autentico e profondo con Benedetto XVI». Per il presidente «il Cristianesimo rimane una delle colonne portanti dello spirito occidentale, l’altra è l’antica cultura mediterranea». Aggiunge Ravasi: «Era un vero umanista, dotato di straordinaria vastità e profondità di letture, persino filosofiche. Sulla scrivania del suo studio di senatore a vita c’era la “Divina Commedia”. Scoprii anche la sua grande competenza musicale: sapeva intrecciare alla conoscenza tecnica la finezza interpretativa. Diceva che l’”Ave verum” di Mozart, “è di una bellezza ultraterrena”. Offriva ogni anno a Benedetto XVI per il compleanno un concerto, preceduto da incontri personali e conclusi da un commento alle musiche. In uno splendido pomeriggio estivo a Castelgandolfo» assistettero «a una mirabile esecuzione sinfonica» di musicisti palestinesi e israeliani».
«Nella miscellanea per i miei 70 anni, il presidente nel saggio “La politica e la forza degli ideali” scrisse: “Il visibile impoverimento ideale e culturale della politica ha rappresentato il terreno di coltura del suo inquinamento morale: rigidità, onnicomprensività e autosufficienza di un’ideologia militante come la dottrina e la prassi comunista». Il 5 ottobre 2012, all’ombra del Poverello di Assisi, Napolitano e Ravasi imbastiscono un dialogo tra credenti e non su «Dio, questo sconosciuto». Il presidente confessò di «rispondere a un intimo bisogno di raccoglimento, sfuggendo alla pressione incessante di doveri e assilli da cui si rischia di non riuscire a sollevare lo sguardo e la mente». E ricostruì – è sempre Ravasi a raccontare – «il momento giovanile della sua crisi religiosa, ma anche il costante interrogarsi sulla trascendenza. Nel dialogo tra credenti e non credenti, prezioso in vista del bene comune di questa travagliata Italia, rappresentò, al vertice delle istituzioni, gli uni e gli altri come cittadini italiani, e tentò di unirli perché corrispondeva “al mio mandato”. È dalla schiettezza del dialogo che possono venire stimoli e sostegni nuovi per una ripresa di slancio ideale e di senso morale, della quale ha acuto bisogno la comunità nazionale come in pochi altri momenti da quando ha ritrovato, con la democrazia, la libertà».