Antonio Mastantuono – pastoralista, direttore di Orientamenti pastorali, vicepresidente del COP

Il tema su cui in questi giorni siamo chiamati a riflettere insieme – tema già oggetto di discussione da parte dell’episcopato italiano –[1] ha risvolti che interpellano non solo la politica e l’economia, ma anche l’azione pastorale della comunità ecclesiale. In questa introduzione solo una sorta di scaletta dei temi che in questi giorni saranno oggetto della nostra riflessione.

1.Le zone interne e il divario civile

Uno dei temi che più caratterizza la questione sociale in Italia è quello del divario civile. Questa espressione viene utilizzata per segnalare il fatto che il contenuto effettivo dei diritti sociali di cittadinanza cambia a seconda dei luoghi, e tutto questo alimenta le disuguaglianze territoriali. Il progetto di autonomia differenziata,[2] sostenuto da alcune forze politiche e dalle regioni più ricche, rende ancora più opachi il presente e il futuro del paese. Tali problematiche hanno importanti riverberi anche sul piano pastorale. Il dibattito sul divario civile permette di andare alla radice dei processi che alimentano le disuguaglianze – particolarmente evidenti lungo l’asse nord-sud – che si vanno sempre più diffondendo su tutto il territorio. Altri studiosi, infatti, senza negare la necessità di tenere alta l’attenzione sulle disuguaglianze nord-sud e sui loro effetti, mostrano come l’Italia intera sia disseminata di «territori del margine»,[3] per cui propongono di allargare la portata della riflessione sui divari di cittadinanza, facendone una chiave di lettura della questione sociale di tutto il paese. Questa prospettiva di analisi propone di mettere al centro i bisogni delle persone che vivono nei luoghi, distinti in base alle opportunità concrete di esercitarvi i diritti di cittadinanza. La mappa del divario civile è un altro modo di leggere la disuguaglianza su base territoriale, un modo che integra e arricchisce la lettura verticale, ovvero quella condotta lungo l’asse nord-sud, in quanto rivela che i divari di cittadinanza sono dappertutto. In questa nuova mappa, elaborata nell’ambito della SNAI (Strategia nazionale per le aree interne), la dimensione fondamentale considerata non è quella urbana (definita in base al numero di abitanti) ma quella del divario civile, per cui vengono considerati poli i comuni, singoli o aggregati, che permettono un agevole accesso ai servizi considerati essenziali (scolastici, sanitari, di trasporto), mentre i comuni restanti, quelli periferici, sono divisi in quattro fasce, a seconda della loro distanza dai poli. La mappa delle aree interne che viene costruita utilizzando tale classificazione dà risultati sorprendenti: essa comprende il 60% del territorio e il 52% dei comuni, interessa più di 13 milioni di abitanti, coinvolge soprattutto le Alpi, la fascia appenninica e le zone collinari. Se si va più in profondità nell’analisi dei dati, ci si rende conto non solo della diffusione ma anche della eterogeneità delle aree interne, la cui presenza viene, ad esempio, segnalata tanto nelle campagne della Pianura padana, che si vanno spopolando, quanto nelle aree costiere del centro-sud, popolate solo d’estate e prive di servizi per la popolazione residente.

2.Le disuguaglianze su base territoriale e le proposte delle chiese del Mezzogiorno. Che fare oggi?

Le disuguaglianze territoriali hanno sollecitato l’attenzione della chiesa italiana già a partire dall’immediato secondo dopoguerra. Uno studio di Matteo Prodi[4] presenta il contenuto di tre lettere dei vescovi italiani sul Mezzogiorno, pubblicate rispettivamente nel 1948, nel 1989 e nel 2010, ricostruendo per ognuna le vicende sociali e politiche che fanno da sfondo. Per il fatto di essere stati realizzati in momenti diversi, lungo un arco temporale di circa sessant’anni, i testi considerati presentano inevitabili differenze di stile e di contenuti, ma anche elementi comuni e, in alcuni casi, analisi e proposte ancora attuali. In tutti e tre i documenti, ad esempio, traspare la convinzione che il vangelo spinga a misurarsi con la vita concreta delle persone, con le tensioni e le contraddizioni della storia, per cui le situazioni di ingiustizia debbano essere rilevate e denunciate. Si afferma perciò la necessità di un impegno personale e comunitario orientato a riconoscere e a contenere o rimuovere le disuguaglianze che segnano il paese. Un altro elemento ricorrente è la denuncia del mancato sviluppo del sud e dei mali che colpiscono le regioni meridionali, come la disoccupazione e la criminalità organizzata. Particolarmente rilevanti, e in parte ancora attuali, le analisi contenute nella lettera del 1989. Pubblicata alla fine del periodo di massimo sviluppo dell’economia e delle politiche di welfare, essa pone in evidenza i caratteri dello sviluppo del paese, definendolo incompleto e distorto. Incompleto perché ha lasciato indietro le regioni meridionali. Distorto perché «non solo non si è consentito al Mezzogiorno di svilupparsi come altre regioni, creando disuguaglianze interne ed esterne, ma addirittura lo si è incanalato verso strade che ne hanno peggiorato la situazione»[5] attraverso l’importazione di modelli di organizzazione industriale che non hanno tenuto conto delle realtà locali e la penetrazione – facilitata dai media – di modelli culturali che hanno avuto effetti disgreganti sul piano sociale ed economico. Successivamente, la lettera del 2010 parlerà di sviluppo bloccato, a proposito del fatto che i cambiamenti avvenuti nel corso dei due decenni precedenti avevano reso ancora più stagnante la situazione del Mezzogiorno. Nei tre documenti si propone una idea di sviluppo che non considera solo gli indicatori economici, ma che mette al centro le persone, le risorse e le vocazioni dei territori. Sono particolarmente densi i passaggi in cui si esplicitano le condizioni affinché la chiesa possa essere un soggetto in grado di contribuire a promuovere questo tipo di sviluppo. Si tratta di condizioni che esigono la scelta della strada stretta ma liberante, del radicamento personale e comunitario nella profezia dell’ascolto del vangelo, in una condizione di povertà e di non potere. In continuità con queste indicazioni magisteriali, occorre raccogliere la sfida del divario civile e delle aree interne anche dal punto di vista pastorale, interrogandosi su quale tipo di presenza la chiesa è oggi chiamata a garantire in tali contesti periferici.

3. La restanza

La relazione, affidata al prof. Giorgio De Rita, ci aiuterà a comprendere la necessità, sul piano politico e sociale, di invertire lo sguardo e guardare il nostro paese dalle sue aree interne, e da lì provare a pensare come riabitarlo, come sostengono i promotori del Manifesto per riabitare l’Italia,[6] mettendo al centro le persone che vivono nei luoghi, dando loro voce, promuovendone la capacità di attivazione. A un movimento analogo di conversione dello sguardo è chiamata anche la chiesa, che nelle aree interne potrebbe trovare le condizioni favorevoli per una rigenerazione delle comunità, riscoprendo la centralità di ciò che conta e che non passa: la parola di Dio e l’eucarestia, la tessitura intenzionale di legami fraterni, l’assunzione comunitaria dei bisogni dei più fragili. Prima che nell’attivismo frenetico, o nella gestione di progetti di intervento complessi – che hanno bisogno di molte risorse finanziarie e di competenze specifiche sul piano gestionale, ma che non sempre riescono a promuovere un reale coinvolgimento dal basso – le comunità cristiane delle aree interne potrebbero coltivare la prospettiva della «restanza»,[7] da intendersi come assunzione consapevole della responsabilità dei luoghi in cui si abita: «là dove si è rimasti bisogna cercare di costruire e di immaginare una nuova vita. non possiamo limitarci solo a contare i morti, non possiamo farci inghiottire dalle ombre e dai fantasmi del passato […]. Il nostro compito è anche accogliere la vita che arriva, ricevere quelli che tornano, provare a sostenere quanti non vorrebbero partire […], sperando che anche questo possa servire a costruire nuova comunità».[8] La cura della natura e delle relazioni, la resistenza ai fenomeni di devastazione dei luoghi e di desertificazione sociale, rappresentano atti politici e, al tempo stesso, pastorali. Per dirla ancora con Teti, «riabitare i paesi interni, riabitare la montagna, guardare al centro dalla prospettiva inedita e umanissima della periferia, mi sembra possa essere una delle vie di salvezza per l’intero sistema-paese. […] Il mio non è un elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo, ma è solo il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni».[9]

4. Interrogativi e prospettive pastorali[10]

L’invito alla restanza interpella anche la comunità ecclesiale: come essere e fare chiesa in questi territori al margine? Quali iniziative pastorali mettere in atto? Mons. Crociata, nel suo intervento al convegno sulle aree interne (Benevento, 30 agosto 2022). suggerisce di porre la riflessione su tre livelli:

  • un primo che, in termini di visione d’insieme, cerca di comporre tradizione e innovazione, e tocca la questione dell’evangelizzazione;
  • un secondo, che tocca l’organizzazione interna della dinamica ecclesiale e delle collaborazioni, e interessa soprattutto l’ambito ministeriale;
  • un terzo, che apre alle istanze delle condizioni sociali e materiali di vita proprie di quei territori più fragili.

4.1. Fra tradizione e innovazione

La questione più delicata e complessa riguarda l’intreccio fra tradizione e innovazione. Con tradizione ci riferiamo alle espressioni e alle manifestazioni della pietà popolare, ma anche a tutto quel sistema di pratiche religiose sacramentali e devozionali che formano il tessuto ordinario della vita di una comunità ecclesiale. Attività che, se da un lato costituiscono il tessuto religioso della comunità, dall’altro diventano esperienze che assorbono gran parte delle energie pastorali. L’accompagnamento a scomparire, o anche solo il mantenimento dell’esistente, non può mai essere il proprio dell’azione pastorale della chiesa; essa deve generare piuttosto nuovi fermenti e nuovi inizi di vita credente e di speranza.  La sfida sta nell’innervare attività e pratiche religiose e di pietà di stimoli che abbiano per contenuto il vangelo e coltivino la coscienza di fede in rapporto alla condizione di vita, alla storia personale e comune, alle responsabilità di fronte alla collettività. Una strada possibile consiste nel ricuperare due dimensioni essenziali non solo nell’ambito ecclesiale: la narrazione, cioè racconti di vita cristiana, e il dialogo. Si evangelizza di più e meglio così che attraverso tante prediche e discorsi. Nel costruire una pastorale improntata a uno stile relazionale, di incontro e di accoglienza, non si può trascurare un aspetto che pure caratterizza questo genere specifico di ambienti. Bisogna fare i conti non solo con i pregi ma anche con i limiti delle aree interne; vivere nei piccoli paesi e nei tanto decantati borghi non è un idillio.[11] Come in tutti i piccoli ambienti, è facile scontrarsi con la grettezza di mentalità, con la chiusura e la diffidenza delle persone, con l’attaccamento alle consuetudini e la resistenza al cambiamento. Su questi aspetti la fede è chiamata a mostrare di essere capace di introdurre un soffio di novità e di trasformare (convertire) le persone e la loro vita.

4.2 La questione ministeriale

Un campanile, una comunità, un prete … è ormai l’immagine di una cartolina, in bianco e nero, ormai sbiadita. Il calo numerico dei presbiteri pone con forza non solo una riconsiderazione del ministero ordinato, ma anche la riscoperta della soggettività di ogni comunità ecclesiale. Piccole comunità sparse in un territorio spesso molto vasto o impervio hanno bisogno di maturare ed esprimere una propria soggettività, e di non stare in attesa che giunga un prete trafelato a celebrare in fretta e furia qualche sacramento per poi scappare per un’altra destinazione.[12] Una soggettività maggiore significa spazio ordinario per la preghiera e l’ascolto, e capacità di attendere e preparare un momento assembleare liturgico con la presidenza del presbitero vissuto con la dovuta appropriatezza, serenità e viva partecipazione. Questo aspetto rimanda a due problemi: la formazione del prete e «la creazione di una nuova culturale ministeriale nella Chiesa».[13] Per il teologo francese Christoph Theobald si tratta – da un lato – di abbandonare l’idea del «prete-pivot», capace solo di «circondarsi» di fedeli, per la formazione di un «prete-traghettatore» che aiuti le comunità a diventare soggetti missionari nei propri territori e – dall’altro – impegnarsi alla promozione di «“ministeri” situati nel “vacuum” lasciato dai preti  diventati “itineranti”».[14] La valorizzazione dei ministeri dell’accolitato, del lettorato, e del catechista avviata da papa Francesco con i due motu proprio Spiritus Domini (10 gennaio 2021) e Antiquum ministerium (10 maggio 2021) e la nota I ministeri istituiti del lettore, dell’accolito e del catechista per le chiese che sono in Italia, pubblicata dalla CEI il 5 giugno 2022 ad experimentum per tre anni, rappresentano una importante opportunità per le nostre comunità da un duplice punto di vista: potrebbe essere l’occasione per rinnovare la forma ecclesiae, dando vita, allo stesso tempo, a proficui percorsi di formazione cristiana. La nota della CEI propone la figura di un «referente di comunità» per quelle parrocchie in cui manca la stabile presenza del parroco e gli affida (in mancanza di diaconi) la guida delle celebrazioni domenicali della parola, quando non sia possibile celebrare l’eucarestia. Il volto missionario della parrocchia chiedeva un «ripensamento dell’esercizio del ministero presbiterale e di quello del parroco»[15] nella direzione di una promozione di «vocazioni, ministeri e carismi»[16] e dell’apertura a «nuove figure ministeriali»;[17] ma non puntualizzava queste nuove figure quali referenti di parrocchie né citava espressamente la guida della preghiera liturgica. In questi decenni, alcune conferenze episcopali regionali hanno emanato indicazioni (normative e rituali) per le celebrazioni domenicali in assenza di presbitero, ma senza un collegamento diretto con una figura ministeriale di referente parrocchiale.[18] Inserire la proposta del «referente parrocchiale» in un documento che accoglie il rilancio dei ministeri istituiti voluti dal pontefice in direzione missionaria e sinodale, offre l’occasione alle chiese locali di pensare ai referenti delle piccole comunità come «evangelizzatori», piuttosto che «supplenti» di un parroco non più presente stabilmente.

4.3. Servizio ai territori

 Una terza pista di lavoro va individuata nel compito di testimonianza pubblica e di animazione sociale che la comunità cristiana ha sempre il compito di rendere, innanzitutto per essere se stessa e rispondere alla sua chiamata e alla sua missione, ma poi perché ha a cuore la comunità umana in mezzo alla quale rende la sua testimonianza e svolge la sua missione. La situazione di disagio che segna le aree interne non può non diventare occasione di presa di coscienza della responsabilità che la comunità ecclesiale ha nei confronti del territorio in cui vive. In questo senso, l’animazione che i laici possono condividere con i ministri ordinati deve abbracciare le questioni poste dal territorio e le esigenze della gente che vi è insediata con tutti i disagi e le difficoltà che ciò comporta. Non è troppo ardito affermare che la presenza cattolica si risveglierà a una più viva e numerosa partecipazione quando avrà maturato anche la coscienza della propria responsabilità non solo ecclesiale, ma anche sociale e civile. La chiesa non è estranea o indifferente di fronte ai problemi del lavoro, della salute, della solitudine, della carenza di mezzi essenziali alla sussistenza, e altro ancora. Contrastare una mentalità di attesa passiva di qualcuno o di qualcosa che arrivi da fuori, far sorgere volontà di iniziativa e di collaborazione: questo è il compito che una comunità ecclesiale si deve comunque dare, soprattutto di fronte a temi che sono in modo peculiare connessi a quei territori. Pensiamo ai flussi migratori non solo in uscita, ma anche degli immigrati che spesso penetrano perfino in angoli remoti del paese,[19] o anche alla cura dei beni comuni come l’acqua e l’aria, o ancora più in generale della terra e la sua coltivazione, e non per ultimo dell’ambiente sempre più minacciato anche nei territori più remoti. La comunità ecclesiale – anche se esigua numericamente – può essere il lievito per sostenere la restanza lì «dove la vita non vuole morire».

 

[1] Cf. F. Accrocca (a cura di), Dove la vita non vuole morire. Per una pastorale delle aree interne, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022.

[2] Cf. G. VIESTI, Verso la secessione dei ricchi? Laterza, Bari-Roma 2019.

[3] Cf. A. De Rossi (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli, Roma 2018.

[4]M. Prodi, «Tre lettere dei vescovi sul Mezzogiorno italiano», in Rassegna di teologia (2020)2, pp. 259-283.

[5]Ivi, p. 270.

[6]Cf. D.Cersosimo – C. Donzelli, Manifesto per riabitare l’Italia, Donzelli, Roma 2018.

[7]Cf. V. Teti, La restanza, Einaudi, Torino, 2022.

[8]Ivi, p. 138

[9]Ivi, p. 6.

[10] Per questa parte sono debitore in maniera particolare alla relazione tenuta da mons. Mariano Crociata al convegno sulle aree interne (Benevento, 30 agosto2022) cf. https://bit.ly/47LPlPI.

[11] Cf. Contro i borghi. Il belpaese che dimentica i paesi, a cura di F. Barbera – D. Cersosimo –A. De Rossi, Donzelli, Roma 2022.

[12] Sul tema dell’itineranza dei presbiteri ha riflettuto l’esperienza francese [cf. Cf. É. Abbal, Paroisse et territorialità dans le contexte français, Cerf, Paris 2016; V. Herbinet, Les espaces du catholicism français contemporain (1980-2016). Territoires et identities communautaires en tension, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2021]. Nei testi citati emerge la problematicità di una concezione dell’itineranza dei presbiteri vista come una sorta di nomadismo presbiterale esclusivamente legato al culto. Essa, invece, deve prendere un altro senso e, soprattutto, richiede un diverso approccio e, diciamo pure, un’altra formazione. Itineranza dovrebbe voler dire, nel senso evangelico o anche paolino, non essere definiti dalla titolarità di una sede, di una chiesa, ma essere al servizio di una comunità dispersa in un territorio e bisognosa di accompagnamento nel suo pellegrinaggio esistenziale credente. Cogliamo subito il sapore antico, originario, di una tale prospettiva. Non è l’organizzazione territoriale il criterio decisivo, per quanto il rapporto con il territorio non possa essere mai trascurato, ma la presenza nella vita dei credenti che si raccolgono in piccoli gruppi o che, talvolta, possono e devono essere convocati in un’unica grande assemblea.

[13] Cf. C. Theobald, Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB, Bologna 2019, pp. 246-253.

[14]Ivi, p. 250.

[15] CEI, Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia (30 maggio 2004), n.12.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Cf. Conferenza episcopale piemontese, Liturgia della festiva della parola di Dio in assenza di celebrazione eucaristica.  Documento di riflessione e sussidio liturgico, LDC, Torino 2014.

[19] «Ugualmente complessa da affrontare è la possibilità di vedere nei flussi migratori, sempre più frequenti, un sostegno per i molti paesi oggi soggetti a un decremento progressivo della popolazione, dato che una simile evenienza pone il problema di pensare una pastorale attenta alle relazioni ecumeniche e interreligiose che, allo stato attuale, è in gran parte ancora sulla carta» (Accrocca, Dove la vita non vuole morire, op. cit., pp. 9-18, qui p. 16).