Antonio Mastantuono – direttore del COP
In questo tempo di crisi della politica e del suo principale riferimento – lo Stato nazione –, nuove fiammate belliche si sommano a vecchi scontri irrisolti. Il risultato è un susseguirsi di crisi a intensità variabile che si consumano in gran parte nel Sud del mondo e, per questo, a differenza per esempio dell’Ucraina, a distanza incommensurabile dalla ribalta mediatica. Il “Conflict data program” della prestigiosa Università svedese di Uppsala ne ha censito 169 nel 2020, l’ultimo anno per cui i dati sono disponibili, per un totale di oltre 81.447 vittime. Un nuovo record, dopo cinque anni di relativo calo. E da allora lo scenario è ulteriormente peggiorato. «Terza guerra mondiale a pezzi», non si stanca di definirla, fin dal 2014, papa Francesco. In questo contesto diventa sempre importante non solo la necessità di ridefinire il ruolo dell’ONU ma soprattutto l’impegno, a tutti i livelli, per eliminare le cause economiche, sociali e politiche che sono all’origine dei conflitti.
Destinata a realizzarsi in modo inscindibile dalla giustizia, la pace è – nell’Antico Testamento – il bene messianico per eccellenza. Essa ha il suo perno in Gerusalemme, la città santa dove Dio manifesta il suo volto e fa scendere la sua benedizione (cfr. Sal 121, 6-9; Is 54, 10.13-14), chiamata ad essere sacramento di pace per tutte le genti.
Tutto questo trova compimento nel Nuovo Testamento. La pace si realizza in pienezza in Gesù di Nazaret: nella sua nascita agli uomini amati da Dio viene fatto il dono della pace (cfr. Lc 2, 14); in lui si attuano compiutamente le antiche profezie sulla figura del pacificatore escatologico (cfr. 1Pt 2, 21-25); sulla sua bocca l’augurio della pace diventa l’annuncio e il dono di una salvezza (cfr. Lc 8, 48; Mc 5, 34; Lc 7, 50); egli stesso è la pace vera perché con la sua morte e risurrezione ha superaro ogni lacerazione degli uomini con Dio e tra loro (cfr. Ef 2, 14-18; Col 1, 20; Gv 16, 33). La Chiesa, corpo di Cristo e dispensatrice dello Spirito, rappresenta sulla terra il luogo, il segno e la fonte della pace tra i popoli e dell’unità di tutto il genere umano (cfr. Gal 3, 28; Col 3, 11; Ap 21, 1-4).
La Chiesa si è chiesta fin dai primi secoli se fosse possibile giustificare la guerra. Quanto potesse essere coerente con l’insegnamento di Gesù Cristo e del Vangelo, ricorrere alle armi e all’uccisione dell’altro. Si parte da sant’Agostino a san Tommaso, teorizzando una idea di guerra giusta per limitare i conflitti e stabilendo come criteri che non fosse una guerra personale ma strumento per rispondere all’ingiustizia ristabilendo il bene comune, rifacendosi alla locuzione latina dello scrittore romano Vegezio “Si vis pacem, para bellum”: “Se vuoi la pace, preparati la guerra”. Nel corso dei secoli, la Chiesa ritornerà sulla discussione riconoscendo una evoluzione significativa e sottolineando che sui temi etici non sempre è riuscita ad avere una visione ampia. Arriviamo ai primi del ‘900 dove testimoni di novità come La Pira, Giordani, Mazzolari, Milani, Balducci pongono la riflessione di come una idea di guerra giusta non sia la soluzione. L’azione di trovare altri sistemi per evitare il conflitto armato, portato avanti dai papi negli ultimi decenni, affonda le sue radici nel Concilio Vaticano II e nel magistero petrino dove, prima Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in Terris e poi Paolo VI nel significativo intervento all’ONU del 1965, riaccendono la discussione nella Chiesa, con non poca fatica. Fatica affrontata da Giovanni Paolo II, che nel 1990, durante la crisi del Golfo, usa il termine “Guerra, avventura senza ritorno” e nel 1992 in occasione della crisi dei Balcani in Bosnia parla di “diritto di ingerenza umanitaria” per difendere le popolazioni innocenti ma abbandonando il concetto di guerra giusta. Su questa linea anche Benedetto XVI, stimolando l’idea di riflessione non solo cristiana ma anche laica, della responsabilità di proteggere i civili e le persone innocenti evidenziando come le guerre degli ultimi decenni hanno visto il coinvolgimento sempre maggiore delle popolazioni. Si arriva ai giorni nostri con l’invocazione di papa Francesco delle modalità per fermare l’aggressore ingiusto, sottolineando il verbo “fermare” e non rispondendo a violenza con violenza. Si chiude quindi un po’ il dibattito sulla questione della “guerra giusta” nell’enciclica Fratelli tutti, dove al capitolo VII dedicato alla pace, il papa usa il termine “artigianato di pace” invocando la responsabilità di ciascuno alla costruzione della pace.
Don Primo Mazzolari e don Tonino Bello: due uomini, credenti e preti che hanno avuto e hanno ancora rilevanza nella formazione di tante coscienze. Un forte legame – al di là delle divergenze su alcune posizioni – è il loro insegnamento sulla pace: per loro la guerra è sempre immane crudeltà. Per don Primo, «il cristiano è un uomo di pace, non un uomo in pace» perché patisce una contraddizione permanente col Vangelo. Per il secondo, parole e gesti segnano l’impegno per la pace. Consapevole che la pace è una meta ideale non raggiungibile pienamente, la vede come anticipata dai faticosi cammini umani, dalla ricerca dei volti, dai segni di solidarietà. Il suo magistero è attraversato dall’incessante richiamo ad una spiritualità della pace, dalla denuncia le ingiustizie, dall’impegno a smascherare la logica di guerra dietro le scelte militariste, al grido contro la guerra come mezzo per risolvere i conflitti.
Educare alla pace non significa solo fornire strategie da poter utilizzare contro la violenza, di qualunque tipo essa sia, ma significa anche agire per una “prevenzione della guerra”. In quest’ottica l’educazione alla pace si pone come processo di acquisizione di valori e comportamenti di pace verso sé stessi, gli altri e l’ambiente in cui si vive. Sono la risultante di un’interazione tra il desiderio e la libertà, che anch’essi devono essere educati.
L’economia della pace porta prosperità e benessere, quella della guerra fa crescere il debito pubblico e arricchisce i costruttori di armamenti, non certo alla popolazione: un miliardo investito nella Difesa crea 3mila nuovi posti di lavoro, nell’educazione 14mila, 10mila nell’ambiente.