La missione, vissuta secondo lo stile della «prossimità», è servizio essenziale della chiesa, testimonianza del regno di Dio. Essa si evidenzia, in primo luogo, nell’amore di Gesù Cristo che si sacrifica per la salvezza degli uomini e che è presente ogni giorno per illuminarli, rafforzarli e liberarli. Le esperienze durante il cammino sinodale hanno evidenziato il profondo bisogno di speranza delle persone, desiderose di gioia, felicità, consolazione e salvezza, ma anche un senso di amarezza per coloro che si sentono ai margini dell’esperienza di comunione della chiesa. Si rende così necessario un rinnovamento dell’annuncio cristiano e del suo stile, evitando tentazioni culturalmente colonialiste e promuovendo invece forme di inculturazione basate sulla prossimità e sull’incontro autentico con le persone e le culture.
La categoria biblico-evangelica dello stile di Dio della prossimità (che va esattamente nella direzione che ci sta chiedendo questo periodo, ovvero il processo sinodale della chiesa italiana e universale) si può far derivare anche dal mistero della incarnazione di Dio, cosa che la rende ancor più centrale. Nessun’altra religione, infatti, può vantare una singolarità e una originalità come questa, della quale i cristiani non possono che andare orgogliosi: credere in un Dio a servizio di tutta l’umanità. Singolarità, però, di cui la chiesa non ha sempre saputo approfittare e declinare nella maniera giusta. Ci si è sostituiti a Dio nel mistero dell’incarnazione, a quello del regno di Dio o allo stesso Gesù Cristo. Bisogna invece partire da come questa categoria viene vissuta da Gesù, secondo il suo stile di prossimità: non si tratta tanto e solo di farsi prossimo alla «situazione»; egli è stato anche «approssimato» perché si è fatto «approssimabile». (Mario Menin)
Il Dio biblico è radicalmente altro dal mondo e dall’uomo. Ma questa sua irriducibile alterità non è sinonimo di irraggiungibile lontananza e indifferenza ma coincide con la sua più paradossale e straordinaria prossimità e vicinanza. L’esodo ci racconta di un Dio che liberamente si fa prossimità a chi gli è estraneo e interviene attivamente a suo favore, ma è soprattutto la messa in scena di un Dio la cui volontà di liberazione e la cui potenza di esecuzione sono mosse dalla compassione: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele…» (Es 3,7-8). (Angela Maria Lupo)
Quando, nel Vangelo di Luca, Gesù racconta la storia del «buon samaritano», non solo adombra il suo agire ma, prima ancora, quello di Dio, agire che è e vuole essere rivelazione escatologica, definitiva e ultima. Nell’operare del samaritano Gesù prefigura il suo operare, in cui si rivela e si radicalizza l’agire del Dio esodico che si fa prossimità non solo allo straniero ma al nemico, non solo a chi gli è indifferente ma anche a chi lo rinnega, rispondendo – il miracolo della croce! – alla violenza con la non violenza. (Giuseppe De Virgilio)
«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1). La prossimità di Dio che vediamo in Gesù ha orientato la prossimità della chiesa nel corso dei secoli con modalità ed esemplarità diverse. La prossimità all’uomo, richiesta alla comunità cristiana, non significa né assistenza sociale (anche se innumerevoli sono le opere), né ricerca del consenso (non è il mestiere della chiesa). Significa che la chiesa ha da offrire una cosa all’uomo di sempre. L’incontro con Gesù. Nella sua prossimità alle dinamiche vitali e culturali della nuova cittadinanza, in presa diretta con i flussi delle inclusioni e delle esclusioni che ne indicano il grado di prossimità (ossia di giustizia), la comunità cristiana, custode della vulnerabilità dei singoli, può diventare istanza critica. Accadeva a Gesù, è scritto chiaro nei vangeli. E da allora accade al proseguimento misterioso del suo corpo, a quel che noi chiamiamo chiesa. (Mario Polia)
«La liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo» (papa Francesco, Desiderio desideravi, n. 19). Le nostre liturgie, e in particolare le nostre eucarestie domenicali, sono chiamate a diventare sempre più spazi di santità ospitale. E l’ospitalità è accoglienza, ristoro, riposo, sosta, riconoscimento. Una liturgia che sia credibile agli occhi di cristiani sempre più secolarizzati, cioè sempre più disincantati che cercano di essere credenti e non creduli, non semplici praticanti di una religione, ma discepoli del vangelo. (Paolo Tomatis)
«Uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del vangelo»: così scrive papa Francesco in Evangelii gaudium. L’essere cristiani non si esaurisce nel solo fatto di credere: la fede autentica comporta sempre un impegno di costruire giustizia a partire da questo mondo. In tal senso l’attenzione e la prossimità ai poveri è, al tempo stesso, l’essenza del vangelo e la via per alimentare la speranza. Non possiamo costruire speranza se non a partire da chi ne è stato derubato, dai poveri che ci chiedono diritti, lavoro, dignità. (Maurizio Patriciello e Antonio Coluccia)