Giacomo Ruggeri – pastoralista
“Non farmi la morale”. Ovvero: quell’elenco infinito su come comportarsi (o non comportarsi) ed ha il sapore, spesso amaro, del rimprovero. Il termine morale – ed è la dis-grazia di molti termini – catalizza a sé solo il comportamento, tralasciando tanti altri aspetti che lo contraddistinguono. Vi è da dire, inoltre, che ogni parola riflette l’epoca nella quale si trova a vivere. Le tristi vicende di professori e presidi colpiti a pugni, e affini, da genitori che rivendicano come difensori – a dire loro – la “ragione” dei loro figli è la cartina tornasole che la morale anziché maturare ed essere appresa e condivisa in un vivere sociale comune con le sue regole, i suoi doveri e i suoi diritti, è l’espressione del singolo che si erge a legge e a legislatore.
Il termine morale, se a primo acchito rimanda al comportamento della persona, esso è denso di significati, di immagini. È riduttivo incorniciare la morale nelle sole azioni da compiersi e da non compiersi da parte della persona. A tal proposito vi è una frase che ha la sua forza e la sua valenza nel pronunciarla, specie ad un ragazzo, dopo un suo gesto non positivo: «Ma chi ti ha educato?». In oratorio, in parrocchia, a scuola, al campo scuola, al grest – tanto per citare alcuni spazi e contesti aggregativi da parte di una comunità educativa – si assiste alla filiera esplicativa dell’interrogativo appena citato. Ciò che per un adulto “non è normale” – nell’agire, nel parlare, nel comportarsi, nell’uso delle cose, degli ambienti, ecc. da parte di un adolescente – per lui/lei, invece “è normale”. E la “sua normalità” è brandita dall’adolescente che invoca, a sua difesa, l’intervento dei genitori nei confronti dell’adulto che lo ha richiamato. Domanda: dove sta il punto debole in tutto ciò? Non sta solo in un motivo, ma è trasversale a un insieme di elementi.
La nota espressione «ai tempi nostri» dice una cosa molto interessante: che il buon senso, ad esempio, è sempre valevole per ogni epoca storica. Ciò che può fare la differenza è in quale humus umano-relazionale la persona ha respirato il significato e il valore del buon senso, e soprattutto, come lo ha esercitato giorno dopo giorno. E questo humus è fatto di famiglia, amici, ambiente parentale, istruzione, condizione sociale (ricchezza, indigenza). Nel tempo attuale, perché ieri non esistevano, vi è la filiera dei social che abitano smartphone, tablet, computer. E questi, i social, non si limitano solo a fare da grancassa, ma generano una cultura ego-social, ovvero: quell’ambiente virale-virus dove la sua cifra è il livello graduato di tossicità, sino ad uccidere (gli esempi, purtroppo, sono in crescendo). C’è bisogno di contro-tendere.
Saper stare al mondo, pertanto, lo si impara insieme, non da soli, perché nella parola comportamento c’è il senso di portare assieme. Portare cosa? Portare chi? La privatizzazione della coscienza, dell’etica e, dunque, dell’agire e del pensare morale, è come se avesse portato la persona a scaricare al suo destino il suo simile. Generando un frasario diffuso: “non mi interessa”, “faccia ciò che vuole”, “è affar suo” e così via.
Sulla propria pelle l’alfabeto del discernimento
Non è un nuovo tatuaggio! È un modo per dire di fare esperienza sulla propria carne (ciccia) della vita quotidiana di cosa significhi vivere senza discernimento e vivere con. Senza inventarsi strategie nuove, ci vengono in aiuto uomini e donne del passato che, sul discernimento, non solo hanno scritto tanto, ma lo hanno sperimentato e, successivamente, lo hanno messo nero su bianco (Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila per citarne alcuni). In una parrocchia, anche la più piccola, vi è il centro caritas. Ebbene: il pane e il vestito di oggi, che di più necessitano i nostri figli e nipoti della generazione IA, è un’introduzione basilare all’alfabeto e alla grammatica del discernere. A livello educativo e formativo il discernimento è più urgente del pane e del vestito. È provvidenziale, allora, lo stallo progettuale che la parrocchia si trova a vivere: un passato certo, un futuro incerto, un presente a vista. Situazione ottimale per ripartire dai fondamentali esistenziali, tra i quali invito a prendere quello del discernimento narrato ai giovani genitori quarantenni che hanno figli pre-adolescenti e dintorni. Se è saltata la catechesi tradizionale e i sacramenti dei figli sono vissuti come giornate socio-aggregativo-affettive non c’è da gridare dal pulpito, né stracciarsi le vesti come catechisti. Si ri-parte con la persona lì dov’è e come essa è; ri-parto con lei se ho una proposta sostanziosa da proporgli. La stagione degli incontri per genitori a batteria presenta il conto. Il rapporto personale è, e sarà, la via da privilegiare, proprio lo stile di un uomo che camminando per le strade si relazionava con la storia di vita della persona che incontrava. Il suo nome è Gesù di Nazareth. Da lui si riparte, con lui si procede nel cammino di questo mondo, con queste persone.