«Preoccupati e allo stesso tempo obbligati ad abitare le trasformazioni che stiamo conoscendo come Chiesa: Cosa fare? Cosa stiamo diventando?». Con queste parole mons. Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale (diocesi di Milano), ha introdotto alla sua relazione, che con metafora offre un metodo per porsi dinanzi alla città: non passa infatti inosservato nel titolo della sua relazione, quel «… come Ninive». Argomenta: «Missionari dentro una città che non abbiamo generato, anzi che ci genera, allo stesso tempo capaci di ritrovare le tracce dello Spirito, che ci rende protagonisti in questa storia di piena trasformazione. Milano come Ninive è una grande metafora per chi è ambrosiano: si rifà ad una lettera pastorale che il cardinal Martini rivolse alla città di Milano agli inizi degli anni ’90. È una metafora che la Chiesa ambrosiana consegna ai lavori di questa Settimana, d’invito ad imparare a guardare la città come Giona guardava Ninive, ovvero una città che mi può sembrare estranea ma che è già abitata da Dio. Ritrovare le tracce di Dio che abita in questa città, in un momento in cui abbiamo la sensazione che la trasformazione invece ci “espella” dalla città. Lo possiamo fare accettando un metodo, che è il rovesciamento di prospettiva, ovvero non guardare sempre a chi siamo noi dentro la città ma a guardare chi è la città, e come ci guarda. Un metodo che possiamo eseguire in tre tappe. Anzitutto aiutarci a capire perché la città è così importante nella storia degli uomini. Abbiamo imparato che la città è un grande laboratorio: riesce a fare incrociare le libertà delle persone e a generare effettivamente un soggetto collettivo in noi che è capace di permettere alle persone che la abitano di scoprire il senso della storia e di accendere al senso spirituale. La città, quindi, è un produttore di strumenti, spazi – eterotopie – che permette alla città di interrogarsi sulle dinamiche profonde della propria esistenza, e di cogliere dove stiamo andando, chi siamo, come leggere la memoria che ci ha generato, qual è il futuro che stiamo costruendo. In questo modo possiamo leggere che le città sono effettivamente luoghi di trasformazione non necessariamente sempre positiva, anche metafora dell’alienazione (si pensi alle grandi periferie). Possono essere anche metafore positive, metafore di trasfigurazione: molti dei nostri edifici, molte delle nostre azioni pastorali sono metafore di trasformazione. Occorre, dunque, prendere queste metafore, capire come funzionano, per poi interpretarle e vedere che strumenti ci possono dare per abitare il cambiamento. Come metafora di trasfigurazione pensiamo al sacramento cristiano e come esso si traduce nello spazio sociale. I sacramenti sono dei grandi processi di ordinazione simbolica dentro uno spazio disorganizzato, che crea ad esempio conflittualità. L’esperienza cristiana si colloca come una realtà che sa mettere ordine, che permette alle persone di capire dov’è il fine, come ci si aggrega, dov’è il bene e come lo si riconosce. Le metafore di trasfigurazione sono luoghi in cui impariamo a dare carne alla fede, a comprendere che la fede diventa esperienza significativa se effettivamente permette alle persone di riconoscere come Gesù ci ha cambiato, riconoscere che tutti abbiamo una traccia dentro di noi di questo Dio che ci ha cercato e ci ama. Per poi arrivare a capire come possiamo dare referenza. far vedere che la nostra esperienza cambia il quotidiano – che è l’esperienza della domenica –. Il cristianesimo ha cambiato la storia introducendo un argomento nuovo, quello della resurrezione. Come torniamo oggi a quello che una volta chiamavamo “precetto festivo”? È tramontato perché lo abbiamo ridotto alla sua sola dimensione morale, facendo venir meno dimensioni fondamentali come l’aggregazione, la costruzione di dinamiche simboliche, riconoscersi come comunità, capire il senso della storia, generare un noi; solo alla fine è diventato un principio etico. Oggi dobbiamo rifare tutto questo in modo nuovo, ed è quello che ci viene consegnato, per scoprire che in realtà ne abbiamo già tanti di spazi rigeneratori del precetto festivo. Per rigenerare un cristianesimo anche nel XXI secolo».