Lc 19,1-10

 1 Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo, infatti, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

Non è infrequente incontrare persone che hanno come hobby personale quello del “mugugno”, del “mormorio”, del “chiacchiericcio”, come ama definirlo Papa Francesco: persone abituate a parlare (ma soprattutto a “sparlare”) di tutto e di tutti, persone a cui non va bene mai nulla, persone che si lamentano se qualcuno fa qualcosa, e che si lamentano allo stesso modo se questo “qualcuno” fa l’esatto contrario. Così… forse solo per un po’ di spirito di contraddizione o magari perché non trovano di meglio da fare nella vita. A me hanno dato sempre l’impressione di essere persone profondamente infelici e incapaci di accogliere in sé qualsiasi elemento di ottimismo che li possa portare a guardare la realtà con occhi diversi, e quindi anche a offrire opportunità di riscatto a situazioni umane che – in apparenza – sembravano totalmente compromesse. Hanno da ridire su tutti, ma ovviamente è pane per i loro denti parlare male di chi si comporta male. E anche di chi cerca di aiutare coloro che si comportano male a dare una svolta alla loro vita.

Insomma, qualcosa di simile alla Gerico dei tempi di Gesù, dove “tutti” mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore!”. L’iniziativa di Gesù che va a casa di Zaccheo per poter imprimere una svolta alla sua vita è giudicata negativa così come era giudicata negativa (può darsi anche a ragion veduta, nessuno lo nega) la condotta poco onesta del capo dei pubblicani. Colpisce il fatto che “tutti” in quella città mormoravano contro l’atteggiamento di Gesù, quasi a dire che questo modo di fare è tanto diffuso quanto difficile da scalfire.

All’interno della Chiesa stessa, i tentativi di andare incontro alle persone che fanno grande difficoltà a vivere in maniera onesta i valori morali e la stessa fede sono spesso guardati quantomeno con sospetto da molti “giusti” che si ritengono migliori degli altri. E allora, se un sacerdote avvicina qualche soggetto socialmente a rischio viene considerato connivente con lui (ma verrebbe accusato di non fare nulla per lui, se non cercasse di avvicinarlo…); se una persona con una situazione familiare difficile cerca di reinserirsi nella comunità in maniera attiva viene considerato un “irregolare” che non può certo dare buoni esempi; se qualche persona dal passato poco chiaro mostra segni di conversione viene stigmatizzato come “il lupo che perderà il pelo ma non il vizio”, e così via.

Personalmente, sono convinto che la dimensione missionaria della nostra fede come testimonianza del Vangelo a ogni uomo debba tener conto anche –se non soprattutto – di questa dimensione dell’accoglienza, del dialogo, della riconciliazione, di un annuncio della salvezza che aiuti le persone, per quanto possano essersi sentite lontane da Dio, a sentirsi poi accolte da lui, per continuare a proclamare, come Gesù a Zaccheo: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza”.

Il nostro essere parrocchia dal volto missionario non può farci dimenticare che siamo chiamati prima di tutto ad andare in cerca di chi fa fatica, di chi è e si sente perduto. Predicare il Vangelo ai “nostri”, ai “vicini”, a quelli “che sono sempre con noi” è facile, e pure gratificante: molto più impegnativo, ma certamente più cristiano, è andare ad annunciare il Vangelo a chi non è “dei nostri”, è “lontano”, ci rifiuta e magari anche ci osteggia. C’è chi ci spesso ci dà contro, ci osteggia, non tanto “in odium fidei”, ma perché ha sperimentato sofferenze o soprusi e per questo ha perduto fiducia nell’uomo e nelle sue azioni.

Penso a donne o uomini traditi dai rispettivi partner e che perdono fiducia nei confronti dell’amore di coppia; penso a donne che hanno subito violenza e che non vogliono più sentire parlare di gesti d’affetto; penso a bambini lasciati a se stessi che non vogliono sentire parlare di famiglia; penso a persone ingannate da presunti amici che non credono più all’amicizia, e via dicendo. Ma credo che sia compito di noi cristiani dimostrare di essere missionari anche in questo: nell’aiutare ogni uomo e ogni donna a riconciliarsi con se stessi, con Dio e con gli altri, creando in loro la forza necessaria a ridare e a ridarsi una possibilità di riscatto.

Dobbiamo aiutare ogni Zaccheo a trovare il proprio sicomoro sul quale salire per vedere Gesù; dobbiamo aiutarlo ad accogliere nuovamente Gesù nella sua casa. Al di là di ciò che abbia compiuto nella sua vita e del male che anche noi abbiamo potuto ricevere da lui, l’importante è che anche grazie a noi possa incontrare nuovamente il Signore e compiere gesti che pongano rimedio a tutto ciò che è stato il suo passato.

Oggi la Chiesa – laddove è veramente missionaria – è chiamata in diverse parti del mondo a svolgere questa funzione di dialogo, di riconciliazione, di accompagnamento alla riscoperta del volto misericordioso di Dio, soprattutto verso quegli uomini che hanno visto per tanto tempo solo violenza e segni di morte. Potrei citare varie situazioni di Chiese sorelle del mondo: dalle Chiese d’Africa   dove tremendi genocidi e guerre civili senza fine hanno alimentato odi etnici anche tra i membri di una medesima Chiesa diocesana o di una congregazione religiosa, alle Chiese dell’America Latina dove la parola d’ordine per rimettere a posto le cose dopo anni di soprusi e tirannie è “giustizialismo”, con un desiderio di vendetta talmente forte per cui si cerca di far pagare a ogni costo qualcosa a qualcuno, commettendo a volte ingiustizie peggiori di quelle che si vorrebbero condannare. Oppure alla Chiesa in Medio Oriente, dove la parola “dialogo” è talmente difficile da pronunciare che speso si preferisce rimanere in silenzio, lasciando così il discorso in mano a chi, come unico interesse, ha quello di un’economia basata sulla guerra.

Ma penso anche alla nostra Chiesa italiana, che oggi fa fatica a essere missionaria non solo “ad extra” (perché ci sono meno missionari che partono), ma anche e soprattutto “ad intra”, al suo interno, nel quotidiano di una pastorale carica di attività e povera di spirito, bravissima a pensare iniziative ma incapace a “perdere tempo” ad ascoltare i problemi della gente, pronta ad essere maestra ma pigra nell’essere serva dell’umanità, disposta ad andare a braccetto con i grandi e molto poco disponibile nei confronti dei piccoli che, come Zaccheo, vogliono vedere Gesù ma spesso viene loro impedito proprio da chi si sente più grande di loro.

Impegniamoci, quindi, a rilanciare la missionarietà come dimensione essenziale dell’annuncio della Chiesa: perché nessun uomo, mai, venga escluso dall’incontro salvifico con Cristo a causa del mormorio dei benpensanti o del chiacchiericcio dei buontemponi di turno.