PER UNA PARROCCHIA SINODALE, MISSIONARIA E SEMPRE VICINA ALLA GENTE.
NELLA CREATIVITÀ DELLO SPIRITO
Abbiamo sempre chiamato settimana del COP questo nostro incontrarci ogni anno a riflettere sulla pastorale italiana e quest’anno non potevano non partire dalla sinodalità, come esperienza che ha caratterizzato tutte le diocesi italiane, per acquisire il lavoro fatto e per fare un passo ulteriore: declinare la categoria sinodalità dentro le nuove comunità parrocchiali che si stanno formando in molte regioni italiane, perché il termine “sinodalità” non risuoni come un vuoto refrain, ma apra a ricadute concrete, attraverso una profonda conversione. L’altro elemento che abbiamo voluto approfondire è la missione: una comunità vera non può non essere comunità missionaria, con un movimento “in uscita”, quindi. Abbiamo privilegiato lo studio sulle città, sui grandi agglomerati, sulle parrocchie di questi centri per lasciarci ispirare dallo Spirito che ci invita ad essere comunità cristiane di comunione ad intra e ad extra, assumendo “plasticità”, nella creatività che ci spinge ad avere coraggio e voglia di “metterci in gioco”. Negli spazi di vita c’è un “fuoco sotto la cenere” che va intercettato e accolto, elaborato con esperienze aperte a parole nuove, strade intentate: questo esige condivisione» (Mastantuono)
- Intercettare spazi di trasfigurazione e darvi “referenza”
«La preoccupazione e l’obbligo di abitare le trasformazioni che stiamo conoscendo come Chiesa: ci fa porre qualche domanda: Cosa fare? Cosa stiamo diventando? «Missionari dentro una città che non abbiamo generato, anzi che ci genera, allo stesso tempo capaci di ritrovare le tracce dello Spirito, che ci rende protagonisti in questa storia di piena trasformazione. Milano come Ninive è una grande metafora. Per chi è ambrosiano, si rifà ad una lettera pastorale che il cardinal Martini rivolse alla città di Milano agli inizi degli anni ’90. È una metafora d’invito ad imparare a guardare la città come Giona guardava Ninive, ovvero una città che ci può sembrare estranea ma che è già abitata da Dio. Vogliamo ritrovare le tracce di Dio che abita in questa città, in un momento in cui abbiamo la sensazione che la trasformazione invece ci “espella” dalla città. Lo possiamo fare accettando un metodo, che è il rovesciamento di prospettiva, ovvero non guardare sempre a chi siamo noi dentro la città ma a guardare a chi è la città, e come ci guarda. Un metodo che possiamo eseguire in tre tappe.
Anzitutto aiutarci a capire perché la città è così importante nella storia degli uomini. Abbiamo imparato che la città è un grande laboratorio: riesce a fare incrociare le libertà delle persone e a generare effettivamente un soggetto collettivo in noi che è capace di permettere alle persone che la abitano di scoprire il senso della storia e di accedere al senso spirituale. La città, quindi, è un produttore di strumenti, spazi – eterotopie – che permette alla città di interrogarsi sulle dinamiche profonde della propria esistenza, e di cogliere dove stiamo andando, chi siamo, come leggere la memoria che ci ha generato, qual è il futuro che stiamo costruendo. In questo modo possiamo leggere che le città sono effettivamente luoghi di trasformazione non necessariamente sempre positiva, anche metafora dell’alienazione (si pensi alle grandi periferie). Possono essere anche metafore positive, metafore di trasfigurazione: molti dei nostri edifici, molte delle nostre azioni pastorali sono metafore di trasformazione. Occorre, dunque, prendere queste metafore, capire come funzionano, per poi interpretarle e vedere che strumenti ci possono dare per abitare il cambiamento. Come metafora di trasfigurazione pensiamo al sacramento cristiano e come esso si traduce nello spazio sociale. I sacramenti sono dei grandi processi di ordinazione simbolica dentro uno spazio disorganizzato, che crea ad esempio conflittualità. L’esperienza cristiana si colloca come una realtà che sa mettere ordine, che permette alle persone di capire dov’è il fine, come ci si aggrega, dov’è il bene e come lo si riconosce. Le metafore di trasfigurazione sono luoghi in cui impariamo a dare carne alla fede, a comprendere che la fede diventa esperienza significativa se effettivamente permette alle persone di riconoscere come Gesù ci ha cambiato, riconoscere che tutti abbiamo una traccia dentro di noi di questo Dio che ci ha cercato e ci ama. Per poi arrivare a capire come possiamo dare referenza. far vedere che la nostra esperienza cambia il quotidiano – che è l’esperienza della domenica –. Il cristianesimo ha cambiato la storia introducendo un argomento nuovo, quello della resurrezione. Come torniamo oggi a quello che una volta chiamavamo “precetto festivo”? È tramontato perché lo abbiamo ridotto alla sua sola dimensione morale, facendo venir meno dimensioni fondamentali come l’aggregazione, la costruzione di dinamiche simboliche, riconoscersi come comunità, capire il senso della storia, generare un noi; solo alla fine è diventato un principio etico. Oggi dobbiamo rifare tutto questo in modo nuovo, ed è quello che ci viene consegnato, per scoprire che in realtà ne abbiamo già tanti di spazi rigeneratori del precetto festivo. Per rigenerare un cristianesimo anche nel XXI secolo». (Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, diocesi di Milano)
- Il contesto urbano è un punto vincente, ci rimanda a ciò che è naturale nella missione della Chiesa
Per descrivere la trasformazione delle città in occidente si usa il temine post metropoli. Il prefisso postvuole marcare un cambiamento nella metropoli. Metropoli è più di una grande città, è “regione” che esercita una forte influenza sul territorio circostante. Riconoscendo due intenzioni fondamentali:
1) un territorio che subisce meno la metropoli;
2) la glo-località. C’è una nuova ristrutturazione dello spazio e nuove marginalità. La metropoli ha bisogno dei canali di flussi con il territorio, poli che assumono interesse: è ciò che caratterizza la post metropoli. L’unità di misura basata sulla densità è superata, occorre trovare una nuova (più) unità di misura che consideri la complessità.
All’interno di questa trasformazione geografica, antropologica, sociale si colloca anche la vita di fede, sottoposta ad alcune torsioni:
1) La centralità del tempo. Il fine settimana perde il suo carattere festivo, e si crea un’ambivalenza rispetto al tempo: il tempo che manca, il tempo che viene consumato. Il tempo ha una valenza di strutturazione dell’agenda. Uno scollamento dal passato e con difficoltà di immaginare il futuro.
2) Le tensioni a livello spaziale: uno spazio più attraversato che abitato.
3) Una società irrinunciabile: un bisogno di legami.
4) A misura d’individuo: in contrasto a ad una “solitudine” dovuta ad un pluralismo che genera frammentazione piuttosto che sintesi.
Ne abbiamo tratto alcune indicazioni. Questo contesto come interpella la parrocchia urbana (che è nella regione post metropolitana)? Occorre collocarsi nella lettura del contesto, piuttosto che applicare modelli. Quali sono le trasformazioni da mettere a tema? Ecco alcune provocazioni:
1) Ri-strutturare, dare una nuova struttura alla fede rispetto al tempo. Come la parrocchia può garantire una certa comodità temporale specie per ristrutturare il “precetto” festivo? La sola pratica sacramentale – insuperabile – non diventa l’assoluto dell’analisi.
2) Accogliere una logica affinitaria, senza canonizzarla. La gente sempre di più sceglie oltre il criterio di appartenenza territoriale, ad esempio con il criterio del tempo. Nonostante questa dimensione affinitaria-elettiva occorre vigilare perché non si passi da una forma popolare ad una forma di scelta.
3) Formare a scelte consapevoli. Pur non vivendo all’ombra del campanile ogni battezzato è discepolo missionario. In parrocchie sempre più “attraversate” piuttosto che abitate, occorre rendere proficue esperienze pastorali.
4) Superare una logica di “specializzazione”. Non esiste una evangelizzazione da effettuarsi con logiche pure. Il contesto urbano ricorda alla Chiesa la complessità dell’azione pastorale, un’azione che ha peso simbolico specie nella città. (Mattia Colombo)
A queste riflessioni abbiamo accostate tre Focus per rendere ancora più concreto l’impegno nel cambiamento
- Primo Focus (Gianni Borsa)
Incontrare le “città” diverse nella medesima città
Intendiamo la città come luogo dove ciascuno – non tutti per la verità – trova un tetto, un riparo, scuola o lavoro, affetti, momenti di vita, relazioni, hobby, opportunità (La Pira). Città come luogo-emblema della convivenza segnata però – soprattutto per i grandi agglomerati metropolitani – da generale anonimato. Diverso parlare di piccoli paesi, dove la memoria collettiva e le trame delle relazioni hanno ancora un valore identitario. Ci riferiamo peraltro alla città riconoscendo di essere sempre meno radicati in un luogo fisico: la città, appunto. Tra pendolarismo per studio o lavoro, delocalizzazioni, mobilità e viaggi, internet e social media, tra reale e virtuale… diventiamo sempre più RESIDENTI NON ABITANTI di infiniti non-luoghi. I nonluoghi descritti da Marc Augè (antropologo francese, cf. I nonluoghi, 2024), spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli (treni e metropolitane, supermercati, parcheggi, stadi). Le piazze oggi sono virtuali, gli incontri avvengono spesso on line e sui social, le chiacchiere azzoppate… Siamo al contempo, qui e altrove grazie al digitale. Siamo vicini – in metropolitana – eppure distanti. Così gli spazi fisici tendono a perdere o dilatare i confini: pensiamo solo al profilo della parrocchia, che non a caso è stata definita “liquida”. Per capire davvero le città, per capire dalla città, occorre “perdersi” nella città. Viverla intensamente, uscire da casa, uscire dalla chiesa, andare oltre il sagrato. Charles Dickens, cantore della Londra vittoriana, racconta di essersi smarrito da piccolo nella City londinese: così comincia ad apprezzare e amare la città. Il Renzo dei Promessi sposi apprende grandi lezioni di vita dopo essersi immerso, fra tante peripezie, nella Milano della peste, per lui città “straniera”. La stessa Milano è oggi segnata, sul piano urbanistico, da nuovi quartieri pensati e costruiti per essere frequentati solo alcune ore al giorno (quartieri degli orari “feriali”), per il resto svuotati di gente, di vita. Diventando periferie silenziose, “a tempo”, “di lusso”.
Peraltro, dentro la città ritroviamo – se non siamo totalmente distratti – biografie, anziani e giovani, famiglie italiane e d’origine straniera, povertà e poveri… Consumi e ricchezze. Storie, volti, ciascuno diverso dall’altro, ABITANTI DI CITTÀ DIVERSE DENTRO LA MEDESIMA CITTÀ. In questa direzione si comprende anche che la città – la convivenza forzosa – può generare sospetto, persino paura (si invocano – magari sollecitati da chi vuol trarre vantaggio dai timori diffusi – maggior sicurezza, forze dell’ordine, telecamere). È quello che Alessandro Zaccuri, trattando della città, ha definito “il rischio dell’altro” (con la minuscola). Il senso della socialità.
Due sottolineature:
- oggi attraversa i comportamenti sociali il definire chi fa parte – e chi è escluso a prescindere – dalla comunità, dalla città (stranieri, poveri, anziani… e domani chi altri?);
- considerare la città come l’insieme di minoranze frammentate, la città delle tribù (dualismi: centro/periferia; cittadini/stranieri; giovani/vecchi; destra/sinistra…). Città – coi loro ritmi serrati [il fattore tempo], le nuove cattedrali del consumismo, gli spazi dell’anonimato [mobilità, sradicamento] rappresentano anche il progressivo affermarsi del secolarismo, “l’ipotesi di un modello di esistenza e di convivenza tessuto a prescindere da Dio” [Caimi, Dio vive nella città, p. 82].
Ecco, dunque, che emerge – provando a imparare dalla città – una triplice esigenza, più forte oggi che in passato:
- riqualificare spazi, che siano anche simboli di identità (Bressan)
- rigenerare vite e relazioni nel segno della prossimità
- rimodulare e rafforzare (ricostruire) le comunità.
La vera sfida è quella di RICOSTRUIRE IL SENSO DI COMUNITÁ. Qui verifichiamo la necessità di compiere passi nella direzione comunitaria che chiamano in causa una pluralità di soggetti e di attività e di linguaggi: la famiglia, la scuola, le imprese e il lavoro, la politica, le comunità di fede, l’associazionismo, la cultura, l’arte, lo sport.
Andare incontro alla città (e a coloro che vi vivono) è anche l’insegnamento che, con sottolineature differenti, attraversa parte del magistero degli arcivescovi di Milano. Card. Martini: “Alzati e va a Ninive”, “Benedetta e maledetta città” (cattedra dei non credenti 1995); “Dare un’anima alla città”; riflessioni sul passaggio dal contagio al meticciato del card. Scola; Mons. Delpini, “Tocca a noi tutti insieme” (discorso alla città) e le Sette lettere dopo la visita pastorale al capoluogo ambrosiano (La città dei flussi, quella delle ferite, la città della ricchezza e quella della disperazione, la città della solidarietà e quella della solitudine, fino a quella del pensiero)
Per i cristiani. Sul piano del “metodo” un insegnamento viene dalla Lettera a Diogneto, dove si legge che i cristiani “non abitano mai città loro proprie. […] Sono sparpagliati nelle città greche e barbare. […] Nella loro maniera di vivere manifestano il meraviglioso paradosso, riconosciuto da tutti, della loro società spirituale”. “Ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono del mondo”, cioè nella concreta trama della vita sociale e civile; ossia della città. Il senso della testimonianza cristiana: il vangelo per le strade delle città. Per rigenerare città e ridare vita a quartieri e periferie, per ripartire dalle città sembrano dunque dischiudersi nuove sfide e opportunità: sociali, culturali, ma anche spirituali e pastorali:
- l’impegno a interpretare il “cambiamento d’epoca” che spesso si manifesta con anticipo nelle città (osservare le città di altri Paesi, che anticipano i nostri prossimi cambiamenti); per interpretare occorre prendere sul serio la forza oggi rivoluzionaria del pensare (conoscere, dialogare, discernere e decidere di conseguenza) la fatica di tessere le relazioni; si tratta di “unire le differenze” per realizzare una città inclusiva e pacifica;
- la vocazione a coltivare forme generose ed esemplari di solidarietà (l’evangelico “farsi prossimo”);
- la capacità di immaginare un orizzonte e dunque un progetto comune tra le diverse “anime” che abitano la città (il compito degli studiosi, dei media, della politica); la ricerca paziente e generativa di soluzioni concrete, mediate e condivise – per i credenti: mettere in campo una immaginazione creativa per intravvedere e poi contribuire a edificare la città dell’uomo a misura d’uomo, secondo il disegno di Dio. [oasi di spiritualità, oasi di pensiero – proposta di fede al di fuori dei tradizionali spazi del sacro; missione nel quotidiano; via crucis in Gae Aulenti; Adoro il lunedì al Fatebenefratelli].
- A partire da quel necessario passaggio, da tutti invocato, dall’IO al NOI, che richiede però, e dapprima, di RICONOSCERE IL TU della persona che sta davanti a me, la sua singolare dignità, i suoi diritti, pari ai miei. È il tentativo, generoso e umile, di contrastare l’INDIVIDUALISMO, che è il vero peccato originale, causa dei mali che riscontriamo all’interno delle famiglie, delle realtà sociali, della POLIS. Così si può provare a dare volto e voce a quel “Fratelli tutti” – nelle relazioni brevi di una città, negli spazi senza confini dell’universalismo evangelico – cui ci richiama Papa Francesco.
Papa Francesco, Dio nella città: «Dio vive nella città e la Chiesa vive nella città. La missione non si oppone al dover imparare dalla città – dalle sue culture e dai suoi cambiamenti – proprio mentre usciamo a predicarle il Vangelo. Questo è anzi frutto del Vangelo stesso, che interagisce con il campo in cui cade come semente. Non è solo la città moderna ad essere una sfida, ma lo sono state, lo sono e lo saranno ogni città, ogni cultura, ogni mentalità e ogni cuore umano».
- Secondo Focus (Ezio Falavegna)
Reciprocità dell’accoglienza, per rigenerarsi come comunità.
Avere il coraggio di sconfinare, perché gli altri possano donarci realtà “nuova” da abitare come Chiesa. «Fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra» (Mc 4,32).
Non grandi alberi, ma “rami grandi” che possano accogliere. “Accogliere” è un verbo che esprime bene ciò che una comunità di fede, come la parrocchia, è chiamata ad essere: un “raccogliere insieme verso”. È questo “insieme” che fa della comunità un paniere che “raccoglie”, si fa contenitore della dignità in cui tutti e ciascuno si ritrovano (cf. Gal 3,28). L’accoglienza ha la forza di mostrare la bellezza umanizzante della fede.
4.1. L’accoglienza, una pagina riconoscibile del Vangelo
È lo stile accogliente uno dei tratti che raccontano la parrocchia quale comunità di cammini di fede. La fede ha necessità del sostegno di Gesù e di quanti, con il loro stile di vita e con la loro azione accogliente, si fanno presenze che restituiscano lo stile accogliente di Gesù: uno stile caratterizzato dall’ascolto; dall’attenzione alla libertà dell’altro; da una empatia di sguardo; da un approccio compassionevole e solidale (cf. Mc 9,24). Nell’accoglienza c’è il racconto di come al cuore dell’esperienza cristiana c’è una parola accogliente per ciascuno di noi, un luogo dove risuona il primo annuncio: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti» (EG 164), e su questo annuncio la comunità dei credenti è chiamata a plasmarsi.
4.2. Una stagione della vita da accogliere
In questo impegno, sentiamo che la prima accoglienza da vivere è nei confronti del tempo e dello spazio che ci sono offerti come luoghi in cui Dio opera salvezza (1). Un tempo, il nostro, non facile, ma non meno ricco di salvezza rispetto ad altri. Proprio qui sta la prima accoglienza che ci è chiesta di vivere: la povertà del nostro tempo.
4.3. L’accoglienza, come “scelta missionaria”
Il tessuto della parrocchia è uno spazio di accoglienza decisiva: incontrare le persone là dove si trovano e per quello che sono. L’accoglienza a cui le nostre comunità sono chiamate, è parte di quella «conversione pastorale» fortemente declamata nella Evangelii gaudium. Un’accoglienza che papa Francesco raccoglie in un “sogno”, quello della «scelta missionaria».
4.3.1. L’accoglienza, nella forma del sogno
«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato all’evangelizzazione del mondo attuale […]. La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità» (EG 27.28).
C’è un forte invito a essere prossimi delle forme contemporanee di povertà e fragilità, sentendo viva anche per la comunità l’esortazione «ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali». Proprio questa ospitalità è capace di dare bellezza alle nostre comunità: «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!» (EG 210).
4.3.2. L’accoglienza, nel vigore della nudità
Un cambiamento narrato da una metafora dinamica, quella del “dilemma dell’aragosta” (2): o rimaniamo in strutture che ci proteggono divenendo sempre di più “una gabbia”, oppure accettiamo il rischio di una esposizione culturale, accogliendo ciò che avvertiamo possa dare una nuova forma a ciò che siamo chiamati ad essere. Una crisi che può essere una benedizione, in quanto permette di riscoprire ciò che è realmente essenziale alla vita della stessa comunità (3).
4.4. L’accoglienza, come apprendimento
4.4.1. Accogliere… lasciandoci accogliere in una “terra sacra”
Localizzarsi è per la chiesa una necessità che le deriva dalla sua natura profonda. Essa, infatti, è chiamata a seguire la via dell’incarnazione per servire il radicarsi della novità evangelica dentro il concreto tessuto del vivere umano, grazie al soffio dello Spirito. Si tratta di rendere accessibile la vita secondo lo Spirito negli spazi della quotidianità e secondo la globalità degli aspetti che concorrono a costruire la trama della vita concreta. La parrocchia non coincide con un territorio: è piuttosto la comunità cristiana che vive in quel territorio come attuazione della chiesa locale. Essa, dunque, si trova sollecitata a riconoscersi entro figure più vaste del localizzarsi della chiesa, che le consentano di comprendere e farsi presente entro la trama complessa ed articolata (si pensi alla varietà degli ambienti e degli stili di vita) della vita dei propri membri e degli interlocutori ai quali deve l’annuncio del Vangelo e la cura della fede.
4.4.2. Accogliere un nuovo compito
La sfida che ci è consegnata è quella di attivare correttamente il soggetto (la comunità cristiana), accogliendo che la figura di parrocchia oggi sia in grado di realizzare la finalità che le è propria.
- Reinvestire nella qualità dinamica-missionaria della comunità.
- Recuperare il primato dell’annuncio come servizio al cammino della fede dentro la cultura.
- Comunione tramite lo sviluppo della partecipazione (sinodalità) e il riconoscimento-formazione dei ministeri nella loro pluriformità.
- Operare nella carità come ricentramento sul carattere di evento del Vangelo in quanto attuazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo e come conseguente capacità di farsi prossimi.
4.5. Condizioni di possibilità per rigenerare comunità accoglienti
Il riferimento alla narrazione di Atti 10-11,18 può aiutarci ad indicare alcune tappe nel compito di “rigenerare comunità”, attraverso il dinamismo evangelico dell’accoglienza.
4.5.1. Lasciarci accogliere nello sconfinamento di Dio
«…un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte detta Italica […]. Un giorno, verso le tre del pomeriggio, vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: “Cornelio!”» (At 10,1.3).
«vide il cielo aperto e un oggetto che scendeva, simile a una grande tovaglia, calata a terra per i quattro capi. […] “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano”» (At 10,11.15).
4.5.2. Accoglierci (riconoscerci) in ciò che è umano
«Cornelio gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: “Alzati: anche io sono un uomo!”» (At 10,25-26)
4.5.3. Accogliere i luoghi del Vangelo
«Pietro allora prese la parola e disse: In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti» (At 10,34-36).
4.5.4. Accogliere nel lasciarci accogliere della comunità
«quando Pietro salì a Gerusalemme, i fedeli circoncisi lo rimproveravano […]. All’udire questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: “Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!”» (At 11,2.18).
Tutto ciò chiede alle comunità di scommettere sulla possibilità di:
- assumere la missione dell’annuncio rendendolo disponibile a tutti:
- qualificare il luogo della comunità nella forza della prossimità, quale contributo per una umanità inclusiva, più fraterna (4);
- prendersi cura delle narrazioni di fede (At 11,4: «Allora Pietro cominciò a raccontare loro, con ordine […]»);
- nutrire la vita di fede attraverso l’ascolto della Parola;
- vegliare sulla crescita della comunità;
- operare per essere “segno” (LG 1)
4.6. Verso una accoglienza generativa
Recuperare la reciprocità della dimensione accogliente generativa di ogni comunità significa accompagnare i percorsi di fede che si attuano gradualmente, dentro un atto autenticamente generativo e cioè attraverso la qualità della relazione.
Questo avviene tramite:
- lo stile di vita;
- la capacità di ascoltare;
- lo sguardo amoroso ed elettivo
- il percepire quando nasce la fiducia e saperla alimentare favorendone il racconto
- un amore generativo, che ama quello che c’è, ma anche quello che potrebbe essere in una persona
- l’avere “cuore per il misero” (misericordia), per la fragilità umana
- il rispetto per la libertà degli altri (“se qualcuno vuole”), dei loro tempi e dei loro cammini
- suscitare il desiderio, cogliere i veri bisogni che una persona porta dentro di sé.
- Terzo Focus (Luigi Girardi)
Esclusione od inclusione, polarità che suppongono una mentalità di “steccato”. In linea con i sacramenti occorre essere “permeabili”. Una problematica nuova
Un problema “nuovo”, per diversi motivi: in particolare, il calo numerico dei presbiteri e dei fedeli, a fronte del permanere delle precedenti strutture.
Una prospettiva “miope”: venendo da una situazione più “ricca” ad una più “povera”, a volte guardiamo i problemi cercando di conservare il passato.
Una trasformazione “profonda”: non riguarda solo le percentuali dei fedeli frequentanti, ma il diverso modo di “sentire” la vita di fede (a cosa “rispondono” i sacramenti?), di abitare il territorio, una concezione di comunità più dinamica che statica. Un riassetto, un riorganizzarsi della presenza della Chiesa in esso, ha un riflesso immediato sulla celebrazione, sull’annuncio, sulla vita.
5.1. Qualche criterio per una lettura più attenta e “sorprendente”
Criteri parziali e fuorvianti: il solo calcolo numerico; il precetto da garantire; l’organizzazione meramente funzionale. Così si trascura proprio l’elemento comunitario.
Una sorpresa positiva: le difficoltà ai cambiamenti ci dicono come il momento liturgico sia simbolicamente importante, come i fedeli si riconoscano in esso, come i luoghi abbiano una forza di attrazione per una “qualche” identificazione.
Ci sono delle dinamiche di appartenenza che non corrispondono necessariamente o del tutto con quelle istituzionali o di una fede “militante”: queste sono una risorsa.
Una tensione da riequilibrare: l’essere comunità è condizione per la celebrazione dei sacramenti, oppure la celebrazione dei sacramenti è momento generativo di comunità (cf. SC 42)? Verso un nuovo modello di comunità territoriale e un investimento pastorale sulla liturgia.
5.2. Qualche attenzione per il futuro
Coltivare e mantenere un senso di comunità, certamente più leggero e non rigido, ma ospitale e permeabile. Sviluppare nella liturgia una capacità di accoglienza, di far “sentire a casa” tutti (anche gli “occasionali”), superando le mentalità campanilistiche.
Coltivare équipe ministeriali che possano “qualificare” i momenti celebrativi; verificare e promuovere le condizioni per poter celebrare bene. Diversificare le celebrazioni liturgiche (non solo la “messa”!) per allargare l’esperienza della Grazia in condizioni diverse.
6. Napolioni: Dare forma al condiscepolato. D’abbicco, Palmentura: meravigliarsi, davanti all’uomo che la strada regala. Ascolto e discernimento, un continuum ermeneutico
Antonio Napolioni, vescovo di Cremona, introduce alla corresponsabilità, con narrazioni. Una corresponsabilità che è già viva nell’episcopato della Chiesa di Cremona, tra il vescovo in mandato e il vescovo emerito. Corresponsabilità nella lettura della realtà, nel discernimento (che è fatto anche di preghiera), in un progetto insieme, che dice la diocesi impegnata in una pastorale che considera la Chiesa famiglie di famiglie, presente nel mondo dei giovani, capace di comunicazione e cultura. C’è da evidenziare l’importanza della verifica, che necessita del suo tempo, e può trovare forma nelle visite pastorali. Eperienze significative a livello di corresponsabilità: 1) Quella del santuario di Caravaggio: corresponsabilità tra i preti, e religiosi e famiglie, per accogliere, ascoltare, accompagnare. 2)Una attenzione ai seminaristi aprendo alla loro presenza nelle parrocchie e all’interazione con le famiglie. 3) Unità pastorali, nel quale la progettazione parte da una condivisione che mette insieme preti e laici. Preti e laici che si formano insieme, con-discepoli.
Enrico D’Abbicco, presbitero e vicario generale della Diocesi di Bari-Bitonto, porta insieme alla giovane Eleonora Palmentura l’esperienza del cammino sinodale, che è andata oltre l’intraeccessialità, spingendosi quindi oltre i non battezzati (per richiesta del vescovo diocesano, Giuseppe Satriano). Carcere, persone con varie fragilità, strada, sono stati luoghi accolti anzitutto, visitati, ascoltati. Si è pensato anzitutto allo stile: è stata necessaria una formazione per gli operatori strada. Gesù è il primo che nell’annuncio del Regno, percorre strade; nella strada si forma la comunità; un’esperienza dinamica. Andando oltre ogni comodità di chi si fa solo cercare. Andare per strada per riequilibrare la relazione, spesso asimmetrica, davanti a richieste non preconfezionate. Accogliere non è assimilazione (richiesta di diventare come il gruppo), bensì è venire fuori dai loro territori per costruire una realtà nuova rispetto a quella dell’origine. L’interazione con l’associazione “Officine cittadine” di promozione per la cittadinanza attiva (che nel suo stile ha proprio l’uscire nella strade), è stata feconda. Palmentura: dal rinnovamento delle strutture si è saputo fondere il vecchio (la tradizione della Chiesa locale) con una naturale evoluzione, nella passione di aprirsi all’altro e di aprire realmente il cammino mistagogico, che ha caratterizzato il cammino della diocesi sotto i vescovi Magrassi e Cacucci, alla vita. L’esperienza del portatore della parola, dallo slogan “La tua storia conta!”, è laboratorio esperienzale e narrativo oltre le mura della Chiesa (vedere la chiesa oltre i suoi confini visibili): il punto di forza è nel dare ascolto alle differenze. L’ascolto è missione, che fa emergere delle priorità.