La parrocchia un «nonluogo»: lo si dice di una stazione ferroviaria, di un aeroporto, di un luogo di transito. Oggi lo si può dire, forse, anche della parrocchia: è un nonluogo. L’espressione è forte, ne sono consapevole, ma la realtà la sta confermando. La forma mentis della parrocchia di oggi è incastonata in un immaginario comune che è travolta dalle molteplici metamorfosi sociali, antropologiche, culturali. Quando gli ambienti della parrocchia erano, in passato, assieme al circolo del bar gli unici ritrovi aggregativi di un paese, era normale abitarli e sentirli come propri.
Gli ambienti della parrocchia, ivi incluso l’oratorio – che nel Nord Italia e alcune zone del Centro ha (ancora) una sua consistenza – oggi sono attraversati senza più essere abitati. Lo snodo è antropologico: è mutato il concetto di abitare nell’architettura sociale. Gli architetti, in città come nei paesi di medio-alta densità, pensano la casa come spazio dove sostarvi senza più (nel concetto classico dello spazio) abitarvi. Di qui, dunque, la scelta di pensare, progettare e costruire in grandi palazzi verticali appartamenti piccoli, con spazi concentrati e servizi portati all’essenziale. In essi la persona vi si sofferma per mangiare, riposare, lavarsi e poi ripartire.
Gli ambienti della parrocchia, oggi sono richiesti per i più svariati bisogni, cercando di assecondarli da parte del parroco senza venir meno alla loro identità. Concedere un locale della parrocchia per il compleanno (per alcune ore) nella mente del don è vista come una mano disponibile e di una chiesa aperta a tutti. Ma il punto è che, nella mente delle persone, poter usufruire di uno spazio ampio della parrocchia, laddove le case sono sempre più scatole a matriosca, è possibilità da sfruttare (con tanto di offerta in cambio o, in alcune parrocchie, tariffario ad hoc considerate le reiterate richieste così non si fanno né privilegi, né differenze).
- Censimento delle canoniche vuote in Italia: metamorfosi antropologica
È quanto mai utile, e necessario, mappare a livello diocesano le canoniche vuote, dove il parroco non vi vive più. Un ambiente non più abitato è uno spazio per essere razziato. Prima una porta scassata (poi riparata), poi la finestra rotta e, infine, (di notte) arriva il camion per trafugare il trafugabile. La gente dice: «Qui il prete non ci abita più da tanto tempo. Alla domenica arriva un don, celebra la messa e riparte». Questa frase, che cosa produce nella forma mentis della parrocchia di oggi? Che la parrocchia è, de facto, un nonluogo, sia che il don non vi abiti più, sia che in essa vi abiti ancora. Il servizio celebrativo cultuale è garantito, ma l’identità del parroco è, da tempo, sottoposta alla costante corrosione di essere e sentirsi egli stesso un nonluogo.
L’emorragia costante dell’abbandono del ministero da parte dei sacerdoti di qualsiasi età credo che vada a confermare questo inedito status del parroco in Italia. Sono di tutti e di nessuno, celebro ovunque ma senza condividere il dopo della celebrazione, organizzo cose per creare socialità. E poi alla fine, la domanda gli si impone: chi sono diventato, oggi, come prete, rispetto agli ideali e ai desiderata di un tempo? Tiro «avanti» ma senza più entusiasmo, mi sento rivolgere le richieste più disparate e mi chiedo: è questa la vita che pensavo, che voglio? Quando questi interrogativi, però, abitano la coscienza di giovani preti, la questione assume tratti di una identità in formazione nel corso del ministero. Chi li accompagna lungo il loro percorso? Quale reciprocità matura nel presbiterio?
Il nonluogo dell’ambiente-spazio in parrocchia, pertanto, si espande rapidamente nell’interiorità del parroco che cerca di abitare la sua identità di sacerdote anch’essa mutata e inedita, sentendosi per l’appunto un nonluogo a sé stesso.
- Gli spazi chiedono una conversione relazionale
Sono sempre più frequenti le canoniche non abitate dal parroco, ma date per l’accoglienza di migranti, rifugiati, bisognosi. La catena polemica segue ogni scelta in merito. Gli stessi oratori, frequentati per lo più nel periodo estivo, assieme agli altri spazi della parrocchia, e adiacenti a essi, chiedono una conversione relazionale. Ovvero: prima ancora di chiedersi come consiglio pastorale parrocchiale «che cosa ne facciamo di questo stanzone o di questi locali», chiedersi chi scegliamo di essere – come Chiesa – in questa porzione di territorio.
Quegli spazi un tempo benedetti, con tanto di targa inaugurale-celebrativa, oggi sono un costo, un peso, un problema. La via dell’affitto si ramifica sempre più, con la giustificante di mantenere altri ambienti parrocchiali che necessitano manutenzione ordinaria. Le offerte sono sempre più scarse, i benefattori muoiono e le giovani generazioni hanno altre priorità, non essendo cresciute nel tempo del custodire e mettere da parte.
L’inedito percorso sinodale richiesto da Bergoglio alla Chiesa universale, specialmente alla Chiesa che è in Italia, rappresenta un buon volano per ripensare assieme l’esserci come Chiesa tra la gente e, con essa, gli spazi e gli ambienti di una parrocchia. Le mura, come le relazioni, vanno sottoposte a manutenzione costante. Capire che cosa farne di uno spazio deve poter essere un rimando, innanzitutto, a chi scegliamo di essere come cristiani (parroco e laici, tutti insieme) qui e ora. Esperienze in atto sono una positiva conferma sulle quali riflettere, confrontarsi e copiare.
Giacomo Ruggeri – pastoralista