Paolo Maria BLASETTI, parroco della cattedrale di Rieti, fondatore del centro Emmanuel e cappellano del carcere di Rieti
L’elaborazione del lutto è una dimensione della nostra esperienza umana che trova oggi una nuova, forte attenzione in realtà completamente diverse. A tale proposito è davvero interessante anche una semplice navigazione in internet alla ricerca di siti che si occupino di questa realtà. In Italia, alcuni anni fa è stato pubblicato, tra i tanti, un libro di Marina Sozzi (Edizioni Chiarelettere), «Sia fatta la mia volontà», che affronta il problema in maniera ampia e dettagliata. Anche il testo di don Delillo «Zero K» è una riflessione sulla vita a partire dalla morte con il tema dell’ibernazione. La constatazione di un rinnovato interesse ci pone di fronte a un’evidenza che caratterizza la nostra epoca in maniera particolarissima, ed è il fatto che la cultura contemporanea abbia escluso la dimensione della morte della nostra esistenza costringendoci poi a farci inevitabilmente i conti. Tutte le culture lungo i secoli hanno affrontato questo problema, e lo hanno risolto attraverso modi e gesti diversi; la cultura contemporanea lo ha eliminato ritrovandoselo davanti all’improvviso, proprio perché appartiene all’esperienza umana in quanto tale, e dunque ineliminabile dalla vita e dallo spazio di riflessione su di essa.
La dimensione pastorale
Mi sembra importante che si parta da questa presa di coscienza anche in una riflessione di carattere pastorale, perché sempre dobbiamo avere presente il fatto che l’agire pastorale non solo si situa all’interno del contesto in cui vive la comunità credente, ma risente inevitabilmente del clima culturale in cui è immerso. Da questo punto di vista, anche l’agire della comunità credente ha finito per risentire del clima esterno affrontando in maniera frettolosa e scontata questa realtà. Quando è uscito il nuovo rito delle esequie, un presbitero ha così commentato: «Ma questi pensano che non abbiamo nulla da fare tutto il giorno?!», rispetto alle diverse parti del rito che partono dalla veglia a casa per giungere fino alla sepoltura. E tale commento denota che anche noi, parte di questa cultura che vive un in tempo accelerato, finiamo per ridurre l’aspetto liturgico e rituale alla sola celebrazione dell’eucaristia in Chiesa, e a pensare il ruolo del presbitero come assolutamente centrale anche nella elaborazione del lutto. Certamente il rito delle esequie non è il «tutto», ma esso contiene gli elementi che dobbiamo richiamare alla mente per capire come la comunità credente entra in gioco in questo cammino di elaborazione.
Parrocchie dei centri urbani e parrocchie piccole
Da questo punto di vista, mi sembra importante sottolineare che non si pone differenza tra le parrocchie di una grande città e quelle piccole che caratterizzano tante parte del territorio italiano: infatti, nell’uno e nell’altro caso, si sperimenta che l’essere comunità cristiana non è più un dato di fatto legato a una situazione sociologica, piuttosto è qualcosa che si deve imparare a costruire superando la visione tridentina della parrocchia identificata con il parroco. Penso che sia sotto gli occhi di tutti che oggi le nostre parrocchie vivano una situazione molto particolare: attorno al parroco si trova un gruppo di fedelissimi che collaborano in maniera assidua ed esemplare e che non sempre favoriscono l’apertura della comunità, e poi ci sono molti altri che vivono la relazione con la parrocchia in forma strumentale e cioè come ente che distribuisce servizi religiosi e caritativi. Tale situazione, se si evidenzia in forma esplicita nelle parrocchie urbane, si presenta ugualmente in quelle extra-urbane che subiscono oggi il fenomeno del pendolarismo in forme diverse. In questo contesto è difficile vivere l’esperienza di una comunità che accompagni in un cammino di elaborazione del lutto. Quando va bene, il ruolo del parroco è di grande aiuto e conforto nel vivere il lutto, ma non presuppone e non individua altre dimensioni di supporto. In altri casi al ruolo del parroco, che si può mettere tra le cosiddette “figure professionali”, si aggiungono gruppi di auto-muto-aiuto che hanno un coordinatore o guida anch’esso fra le figure professionali. In questo modo la comunità cristiana «appalta» quello che le appartiene in maniera strutturale, perché essa è portatrice nella storia di quell’annuncio straordinario che è il vangelo, e che Paolo nella 1Cor 15,1-5 ribadisce essere la Parola della salvezza se viene mantenuta come è stata trasmessa: il passaggio di Gesù nella morte per risorgere a vita nuova.
Negli anni ‘80, se non ricordo male, da un’indagine nella diocesi di Roma su coloro che frequentavano l’eucarestia domenicale emerse che una percentuale molto elevata non credeva alla resurrezione dai morti. Inoltre è sotto gli occhi di ogni operatore pastorale che la partecipazione alla messa della Notte di Natale, o alla celebrazione della domenica delle Palme, è di gran lunga più elevata della partecipazione alla veglia pasquale. Tali evidenze ci mettono di fronte al fatto che ci sono due primi elementi sui quali dobbiamo lavorare pastoralmente: la costruzione di comunità credenti e l’evangelizzazione della morte a partire dal fondamento della nostra fede, che è il Signore Gesù morto e risorto.
Sembrerebbe quasi scontato quanto scritto in precedenza, e invece non lo è, almeno secondo il mio punto di vista, perché si può fare compagna di cammino soltanto una comunità che «ha risolto» al suo interno il problema della morte, e solo se in essa vi sono persone, uomini e donne del quotidiano, che hanno vissuto il cammino dell’elaborazione del lutto. Non importa quale lutto: infatti ogni morte comporta una fatica di ripensamento, ed è questa una sottolineatura importante da mettere in evidenza, perché il nostro è un tempo che tende ad assolutizzare alcune esperienze a scapito di altre: ogni morte comporta un distacco e ogni distacco chiede un ripensamento di chi lo vive all’interno della sua vita, della storia e della società.
Quale volto di comunità
Vorrei provare ora a delineare alcune brevissime caratteristiche di comunità che si renda compagna di cammino nell’elaborazione del lutto. In primo luogo mi sembra importante sottolineare il fatto che essa debba essere una comunità che ha fatto un percorso autentico di evangelizzazione della morte. È necessario che si abbia il coraggio di fermarsi su questo tema specifico della nostra fede, perché esso è a fondamento della nostra identità. I cristiani sono portatori nella storia dell’annuncio pasquale e della speranza che da esso scaturisce che apre l’orizzonte dell’esistenza umana all’infinita eternità di Dio. Va pensato un percorso preciso all’interno del quale si riscopra la verità della fede cristiana e cattolica, perché spesso, all’interno delle nostre comunità, sono presenti idee che poco hanno a che fare con la fede autentica. Tale percorso deve conservare e custodire l’aspetto esistenziale, e non semplicemente informare o consegnare verità. Come rispetto all’Amoris laetitia da più parti si sottolinea che è un documento che va riletto, pensato e studiato, così il tema della speranza cristiana, la dimensione escatologica della nostra fede ha bisogno di essere riproposto con continuità alle nostre comunità credenti.
Un secondo aspetto del volto di una comunità credente che mi sembra necessario mettere in risalto, è quello delle relazioni fraterne capaci di assumere la realtà faticosa degli altri come propria: «Portate gli uni i pesi degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal. 6,2). Essa rappresenta un’indicazione preziosissima dello stile di vita concreto della comunità. Si tratta di quel «sentire» che accomuna i discepoli e li unisce in un solo corpo, rendendoli partecipi delle gioie e delle sofferenze degli altri. È necessario creare allora un clima accogliente e di condivisione attraverso la facilitazione dell’incontro, non attraverso il moltiplicarsi di iniziative, che invece corrono il rischio di creare repulsione, ma facendo della parrocchia un luogo di incontro e uno spazio relazionale autentico. Chi vive l’esperienza del lutto deve sapere che lì è possibile incontrare persone che sanno farsi carico della fatica facendosi compagni di cammino. È importante sapere che chi vive un’esperienza di lutto particolarmente dolorosa è alla ricerca di risposte, ricerca che spesso lo porta in luoghi estremamente pericolosi per lo spirito e per la mente, e che la comunità non si offre come luogo delle risposte ma come spazio accogliente del dolore e della fatica che il lutto inevitabilmente comporta.
Ed ecco allora il terzo aspetto che è quello del tempo. La ricerca affannosa di risposte alle proprie domande si lega al bisogno, a volte spasmodico, di eliminare il dolore, e invece è necessario farsi carico di una fatica che più che trovare risposte alla fine nella fede è capace di trovare il senso dell’evento. Se guardiamo al vangelo non possiamo non notare che mai Gesù offre una risposta come noi siamo abituati a pensarla, ma piuttosto, vivendo l’esperienza umana e facendosi compagno degli uomini, ne dischiude il senso. In questa direzione il cammino con i due discepoli di Emmaus è davvero emblematico (cf. Lc 24): infatti i due raccontano a Gesù i fatti e la loro delusione, ed è interessantissimo che quanto loro raccontano è pienamente il contenuto della nostra fede. Ma solo la lettura che Gesù fa fare loro di tutta intera la vicenda e la celebrazione della cena dischiude il senso pasquale degli eventi. Questo chiede la capacità di saper trovare tempo e di saper donare tempo. La risposta alla domanda libera anche l’interrogato dalla fatica, l’accompagnamento che assume la fatica chiede tempo: non semplicemente come spazio da donare in ascolto, ma anche come dimensione prospettica perché nessuno sa quando l’interlocutore riuscirà a compiere il passo, ad andare oltre. La comunità non può aver fretta, e proprio per questo deve farsi capace di relazioni che nel quotidiano sanno accompagnare mostrando come insieme sia possibile andare verso quell’oltre che caratterizza tutta l’esperienza di fede cristiana.
(Tratto da Orientamenti Pastorali n. 10/2016, EDB. Tutti i diritti riservati)