Massimo ANGELELLI, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della CEI
La prima esperienza vissuta dalla persona a cui viene diagnosticata e comunicata una situazione patologica è una esperienza di solitudine. La malattia è una esperienza personale, unica e irripetibile, perché coinvolge la totalità della persona, a partire dal rapporto con sé stessa.
In un contesto sociale e culturale che ha ridotto al minimo la relazione con sé stessi, ma piuttosto ci ha spinti ad una relazionalità in cui tutto viene reso pubblico, rappresentato, in questo contesto sperimento che il mio corpo non è più una macchina perfetta che risponde ad ogni mio desiderio e comando. In fondo sono solo, con la mia patologia, la nuova realtà che non volevo, non avevo programmato, ma comunque è apparsa.
La persona malata sa che sta cambiando, e così le relazioni, anche quelle più solide, vengono messe in discussione. In alcuni casi si rafforzano, in altri si frammentano, nei casi peggiori implodono.
In questa visione dell’esperienza della malattia si inseriscono una serie di cambiamenti che riguardano anche i luoghi della sofferenza. Prima che la malattia venisse totalmente ospedalizzata, era ancora un evento vissuto in casa, circondati dai propri affetti, in un contesto familiare e rassicurante. La successiva fase di ospedalizzazione del vissuto della malattia ha privato la persona di tutto questo, ponendola in luoghi asettici, spersonalizzanti, invariabili nella loro ripetibilità. Stanze d’ospedale poco accoglienti, arredate con il minimo indispensabile, con un comodino accanto al letto che riesce a raccogliere quel poco di necessario per la giornata, unico segno di personalizzazione di chi in quel momento occupa quel letto.
Da molti anni questo modello è posto in discussione, e sempre di più si cerca di recuperare la dignità dell’individuo che da paziente deve tornare ad essere persona.
L’unitotalità della persona (corpo, anima e spirito), è l’unico approccio possibile se si vuole realizzare quella «presa in carico» globale della persona e dei suoi bisogni. Solo un approccio veramente olistico alla cura della persona può rispondere ad una esigenza di ascolto della persona malata.
Vangelo e malati: un’«azione necessaria»
La pastorale della salute, da sempre azione necessaria della Chiesa verso i sofferenti, trova le sue radici nel vangelo, anzitutto nel vissuto di Gesù e nell’importanza che ha dato all’attenzione ai malati, ascoltando le loro istanze, partecipando empaticamente al loro dolore, guarendoli come segno e testimonianza del suo essere Verbo incarnato. Nel mandato che consegna alla Chiesa nascente, di annunciare il vangelo e guarire i malati, indica chiaramente ai suoi discepoli le linee operative di un’azione necessaria ancora oggi. Non due linee pastorali parallele, destinate a non incontrarsi, ma convergenti e sinergiche: annunciare il vangelo significa prendersi cura dei sofferenti, come abbracciare un malato significa annunciare la novella di un Dio amorevolmente presente.
Fare pastorale della salute significa entrare in contatto con la dimensione sanitaria. Non è efficace immaginare un’azione pastorale per la salute delle persone che non sia integrata con l’azione sanitaria di coloro che sono chiamati a curare il corpo o la mente della persona stessa. Non c’è un confine definito tra la dimensione fisico-biologica-psichica e la dimensione spirituale. La persona dinanzi a noi, nella sua unitotalità, chiede una risposta globale al suo essere malata. Così, mentre il medico cura il corpo, il cappellano o assistente spirituale si fa carico dello spirito, in una alleanza terapeutica in cui tutti i curanti accompagnano il malato nella sua esperienza di vita sofferente.
La dimensione spirituale, intesa in un’accezione ampia che a volte supera l’esperienza religiosa ed è presente in tutti, compresi i non credenti, diviene luogo di cura e di annuncio. Gli operatori pastorali, sacerdoti, diaconi, religiosi, laici, si fanno carico di curare le relazioni della persona malata nella triplice dimensione di relazione con sé stessi, con gli altri e con Dio, relazioni questa che sfuggono quasi completamente all’orizzonte di cura medico-clinica. Facendosi prossimo alla persona, l’accompagnatore spirituale sostiene il vissuto della persona che deve rileggere il rapporto con sé stessa, vede modificarsi le relazioni con gli altri e si interroga sulla ragione per cui «il Dio», che dice di sé di essere carità e amore, possa permettere una sofferenza che si presenta come insostenibile.
Per l’azione pastorale della Chiesa, i tempi e i luoghi della sofferenza diventano spazi privilegiati per un primo annuncio e una nuova prima evangelizzazione, grazie alla presenza di testimoni credibili e qualificati che, formati al loro particolare servizio, si mettono a fianco alla persona e l’accompagnano, sull’esempio di Maria che, con il suo stabat sotto la croce del Figlio, non parla ma è la presenza più importante nel tratto finale della sua vita terrena.
Una comunità sanante
La questione che si pone dal punto di vista pastorale è quale sia il ruolo della comunità cristiana. Appare evidente che se si vuole dare seguito a quel comandamento che ci è stato consegnato dal Signore Gesù («Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» Gv 13,34), sia necessario ripartire dai più vulnerabili e sofferenti, da coloro che hanno più bisogno di non essere lasciati soli. Una comunità cristiana che vuole configurarsi come tale sarà la più inclusiva delle fragilità, emergenti o croniche, in una forte testimonianza profetica in un mondo che va tracciando sempre più solchi tra chi può curarsi e chi no, tra chi deve essere accolto o meno, tra chi può alimentare speranze e chi resta con la sua rassegnazione. Farsi prossimo a questi malati significa rompere le barriere culturali che abbiamo innalzato in nome della difesa o della paura, esattamente come ha fatto Gesù toccando gli intoccabili, ascoltando gli esclusi, avvicinandosi ai reietti della società, gli «scarti» umani che vanno nascosti per non turbare i nostri modelli vincenti di società del benessere.
La presenza di diversi servizi e ministeri ecclesiali permette alle parrocchie di offrire una rete territoriale di conoscenze e intercettazione dei bisogni, conoscendo famiglie e fragilità, per poterle far emergere e indirizzare verso una possibile soluzione; l’associazionismo, i ministri straordinari della comunione nella case, i diaconi, il volontariato caritativo: tutti contribuiscono a creare un clima di ascolto, di prossimità, che trova nel progetto dell’«infermiere di comunità in parrocchia» un esempio di valorizzazione dell’esistente e di coordinamento nella lettura delle sofferenze più nascoste.
Così riconfigurata, la comunità cristiana, fatta di una rete comunionale di famiglie, che trova nella parrocchia il punto di convergenza umano e spirituale, celebra il sacrificio di Gesù ed esce dalle sue sicurezze per farsi vicina alle solitudini. Il termine «comunità sanante» ben si addice a quelle comunità che, per dirsi tali, si impegneranno ad essere attive sul proprio territorio, con un nuovo slancio missionario, per ripercorrere le vie e le case di tutti, offrendo ascolto, sostegno e accompagnamento, in modo tale che nessuno si senta escluso. E la comunità dovrà essere coinvolta tutta, oltre le specifiche ministerialità e ruoli, perche amare il prossimo e soprattutto il sofferente è impegno necessario di ogni cristiano.
(Tratto da Orientamenti Pastorali 10/2019, EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati)