Domenico Sigalini – Presidente del COP
C’è sempre più una presa di coscienza che quello delle migrazioni sia oramai un fenomeno universale, una sfida globale ineliminabile; nessuno più pensa che esso sia in diminuzione − anche se alcuni tendono ad affermare il contrario − o che si spenga perché innalziamo ancora dei muri.
Siamo arrivati a dare un nuovo nome alla globalizzazione: «migrazione» di popoli, di etnie, di diseredati e affamati, di vessati e obbligati a fuggire, e la tendenza dell’opinione pubblica è l’esasperazione di questo fenomeno o una sua superficiale sottovalutazione, una maledizione della storia o una forza di crescita della coscienza umana e della stessa civiltà.
L’immigrazione mette paura sia a noi che accogliamo sia a chi chiede accoglienza. Paura però da sfatare, perché spesso è suggestione artatamente provocata e mai messa al vaglio, anche delle scienze umane oltre che del piano di Dio sul mondo. La stessa sacra Scrittura mette continuamente al centro del discorso religioso la situazione della persona e dei popoli nomadi, quale fu lo stesso popolo d’Israele.
È necessario allora guardare, senza preconcetti o visioni unilaterali, a tutta la migrazione, tanto nei numeri che nella qualità, sia nella portata problematica che in quella positiva che producono gli immigrati.
Che cosa ci dice la fede in questa lettura e presa di coscienza? Che sicuramente occorre superare l’inquietudine del rifiuto e far crescere la gioia di prendere parte attiva alla vita di questa società nuova che nasce, alla voglia di essere una unica Chiesa.
Solo da un confronto serio con dati reali e dimostrabili si possono affrontare, con intelligenza, tutti i problemi che ne nascono, come la promozione delle opportunità e l’accoglienza delle bontà assolute che si trovano in questa profonda esperienza umana. Da qui sicuramente ci si potrà applicare ad accoglienze progettuali, ad ascolto e capacità di autonomia di queste persone, si potrà parlare di vita cristiana lasciandosi interpellare da questo rimescolamento delle popolazioni umane.
È questa una strada seria, vera, generosa di accoglienza e integrazione, cui si possono preparare operatori, comunità che accolgono, famiglie e istituzioni, e la stessa parrocchia può prendere nuovo slancio nella fede, nella preghiera e nella sua qualità doverosa e improcrastinabile: la missione.
Da qui, la prospettiva civile e umana che ne deve nascere è quella del mutuo riconoscimento e condivisione di diritti e doveri. Si parla di ius soli o di ius culturae, di alcuni diritti sacrosanti che le persone accolte già da anni, che vivono in Italia, che vanno a scuola con i nostri ragazzi e ragazze, che sanno meglio il dialetto dei nativi, che hanno studiato nelle nostre scuole e nelle nostre università, si aspettano e che noi non dobbiamo continuamente procrastinare, pena l’essere un popolo barricato e pure sfruttatore, oltre che passivo nei confronti di opportunità sociali e umane preziose.
Papa Francesco in questi giorni ha aggiornato il nostro impegno in questo campo. Abbiamo da poco celebrato la 107a Giornata del migrante, il che vuol dire che non l’ha inventata papa Francesco, come dice qualcuno per dire che le migrazioni sono una “fissa” del papa (anche perché lui è proprio figlio di immigrati). E oggi l’Argentina è rappresentata, proprio ai livelli più alti e decisivi della Chiesa, da lui, un figlio di immigrati, che con i modelli nostri “vincenti” di respingimenti, non sarebbe stato non solo non accolto, ma anche continuamente rifiutato.