Francesco Cosentino – docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana
Se proviamo a leggere la crisi come un’occasione che a volte Dio stesso ci dà per cambiare, allora siamo portati a chiederci quale lezione, anche come Chiesa, possiamo imparare dalla crisi scatenata dalla pandemia. Essa ha sconvolto e messo in crisi l’ordinaria attività ecclesiale e pastorale: le chiese chiuse al pubblico, le messe sospese, i sacramenti non celebrati, la presenza relazionale e caritatevole attiva intorno alle comunità parrocchiali di fatto annullata. Sorpresi e spiazzati da un eccesso di male, siamo stati costretti a fermarci.
In generale, però, la cosa che ci interessa di più è la consapevolezza di come la crisi della pandemia e alcune questioni liturgiche e pastorali emerse durante il lockdown, siano soltanto delle spie, che rivelano una crisi ben più ampia e profonda, presente già da tempo nel mondo occidentale.
La recente pandemia, secondo le profetiche parole di papa Francesco, ci ha fatto vedere come fino a oggi abbiamo creduto di essere sani in un mondo che in realtà era ammalato. E anche dal punto di vista spirituale ed ecclesiale, la crisi ha rivelato quanto da tempo si fa strada un profondo malessere nella relazione tra l’annuncio della fede e le donne e gli uomini del nostro tempo.
Oggi, in molte aree del mondo, assistiamo a un declino dell’esperienza cristiana, nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta e tramandata per secoli. Molte persone faticano a integrare la parola liberante del vangelo nelle sfide quotidiane della loro esistenza, col rischio che la potenza della fede si riduca alla debolezza di un credere superficiale, puramente religioso o folkloristico;
Tuttavia, la crisi può essere un tempo provvidenziale, un invito a scoprire una nuova strada nel deserto che viviamo, l’occasione per trovare una «buona notizia» anche nel mezzo del dolore. Più importante della crisi, dunque, è la domanda con cui ci poniamo dinanzi a essa. Come stiamo davanti alla crisi? Qual è il messaggio che la crisi porta con sé?
Come Chiesa siamo chiamati a chiederci: si è trattato di una parentesi nell’attesa che tutto ritorni come prima oppure c’è una lezione da imparare? Come sta la nostra fede davanti alla crisi? Come sta la Chiesa davanti alla crisi? Quali opportunità? Quale lezione imparare per la nostra relazione con Dio, il nostro modo e stile di essere Chiesa, la nostra spiritualità?
Ciò che è emerso nella pandemia riguarda innanzitutto quel rischio costante che accompagna il cristianesimo, cioè la possibilità di coltivare una falsa e idolatrica immagine di Dio: dal Dio che dovrebbe risolvere il problema sanitario dall’alto e con un evento straordinario, al Dio addirittura additato come responsabile della sciagura, magari per lanciarci un avvertimento se non proprio per punirci a causa del nostro peccato. Appare evidente che siamo in presenza di una vera e propria blasfemia del volto e del nome di Dio.
Il nostro contesto è segnato dalla pandemia e, perciò, non potremo fare a meno, come accadde per la riflessione teologica dopo Auschwitz, di mettere in connessione la fede cristiana in Dio con la sofferenza, la morte, la fragilità psicologica e le angosce generate dall’evento pandemico.
La crisi mette in crisi Dio stesso, cosicché ci liberiamo di Lui per ritrovarlo in modo totalmente nuovo. In tal senso, la crisi è un’opportunità: ci offre l’occasione di liberarci di un Dio pre-moderno, che adesso punirebbe i suoi figli con un castigo per farli redimere; oppure un Dio che rimane chiuso nella sua impassibilità e indifferenza mentre il mondo soffre per una pandemia. Questa è l’occasione per guardare a Gesù, che ci mostra il Dio dell’amore, che non castiga né invia flagelli, ma ci ama fino a condividere, portare e trasformare il nostro dolore.
Guardando alla croce di Cristo possiamo riscoprire il volto di Dio da annunciare e da tradurre poi nello stile di Chiesa e nella pratica pastorale: il Dio che sta dalla parte della sconfitta, per risanare i cuori spezzati; il Dio compassionevole che si commuove, raccoglie le lacrime, scende nella storia per farsi offerta di liberazione, si lascia ferire e toccare dal nostro dolore, fino ad assumere in sé la contraddizione della morte. Il Dio crocifisso, che nella carne di Gesù inaugura una storia nuova in mezzo alla storia di sofferenze di un mondo abbandonato, e chiama anche noi a porre nel mondo segni di liberazione e giustizia.
Grazie alla recente pandemia è emerso come la comunità cristiana, una volta interrotta l’esperienza delle attività ordinarie, sia stata assalita dall’incapacità di pensare e immaginare altro.
A livello di esperienza ecclesiale possiamo innanzitutto evidenziare l’idea che ancora sostiene il nostro modo di essere e di pensare la Chiesa, cioè l’idea che la Chiesa sia una super-potenza accanto alle altre potenze mondane e politiche. Perciò, nonostante l’aggressività del virus e il numero di contagiati e vittime, è andata crescendo in alcuni settori una certa reazione alla decisione di sospendere le celebrazioni; alcuni hanno parlato di sottomissione dei vescovi e della Chiesa alla scienza e alla politica o, addirittura, di limitazione della libertà di culto.
La seconda idea riguarda il modo in cui in questo tempo di sospensione e smarrimento abbiamo vissuto la liturgia e in generale l’azione pastorale, scivolando nella tentazione di concepire una Chiesa-spettacolo. Si è considerato imprescindibile celebrare la messa e, perciò, la si è fatta anche in streaming, a prescindere dalla presenza del popolo di Dio. Ciò ha rispolverato l’idea della messa come culto individuale e privato, come atto del prete, come rito ancorato alla spiritualità tridentina, con al centro il prete.
Infine, nonostante i proclami, al centro non c’è ancora l’annuncio del vangelo e una nuova iniziazione alla parola di Dio e alla preghiera, ma la preoccupazione sulla data delle prime comunioni e sulla ripresa degli orari delle messe.
Eppure, nel tempo della pandemia sono nate interessanti sperimentazioni di preghiera in famiglia, di liturgie della Parola celebrate a casa, di celebrazioni domestiche preparate e vissute con tanto di segni e di sussidi.
Questo può insegnarci qualcosa e cambiare qualcosa. Ma chiediamoci: abbiamo educato il popolo di Dio all’ascolto della parola di Dio? A pregare nella vita quotidiana? A saper celebrare con la vita quella messa che inizia e si celebra nei travagli dell’esistenza e di ogni situazione umana?
La pandemia allora ci invita a uscire dalle vecchie forme di un vecchio cattolicesimo; più che la ripetizione di gesti liturgico-sacramentali via streaming, ritengo non siano da trascurare le altre iniziative pastorali che hanno aiutato le persone a ritrovarsi nella preghiera, nell’ascolto della Parola e nello spezzare il pane, incoraggiandole a diventare esse stesse protagoniste consapevoli di questa esperienza. Abbiamo assistito a una rinascita della Chiesa domestica che non andrebbe archiviata come esperienza di passaggio dovuta all’emergenza pandemica.
La sfida che ci attende è avvincente: invece di interpretare questa situazione come dettata dall’emergenza, potremmo leggerla con intelligenza pastorale. Tutto ciò non nasce spontaneamente, soprattutto considerando la seria situazione di crisi della fede che imperversa nell’Occidente ormai da decenni. C’è bisogno di un rinnovato annuncio del vangelo per rendere possibile il messaggio cristiano in un’epoca post-cristiana, oltre ogni irrilevanza.
Non si tratta di un semplice aggiornamento nella comunicazione, ma di rimettere al centro l’annuncio del vangelo. Dobbiamo avere il coraggio di lasciare andare molte altre cose nella nostra azione pastorale, per ritornare ad annunciare con passione il vangelo, concentrando tutte le energie per un rinnovato annuncio della Parola e, soprattutto, per cercare di mettere le persone a contatto con la figura di Gesù, uomo libero, appassionato, critico, solidale.
Concludendo, si può dire che la crisi può essere un’occasione importante per interrogarci nuovamente sulle false concezioni di Dio che ancora presiedono alcuni nostri discorsi e su un certo mondo devozionale attorno al quale giriamo. È al contempo un’occasione per ripensare i linguaggi dell’annuncio. Sarà anche un’occasione positiva per uscire da una concezione pastorale, liturgica e più in generale spirituale, fondata esclusivamente sulla celebrazione della messa e, per di più, in una visione tridentina che pone il prete al vertice. Al contempo, si può riflettere su come, a fronte di numerose e spesso poco curate celebrazioni eucaristiche, ci sia ancora poco spazio per l’annuncio, l’evangelizzazione, le altre forme della preghiera cristiana, la centralità della parola di Dio, la lectio divina.
Tutto ciò impegna l’immaginazione pastorale ed ecclesiale perché la pandemia sia una lezione da cui uscire cambiati anche come Chiesa, e non ci si limiti a restare prigionieri del «si è sempre fatto così».
E alla domanda se siamo davvero gli ultimi cristiani, Tillard rispondeva ancora: «Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo».
(tratto da Orientamenti Pastorali n.12/2021, EDB)