Luigi Alici – già Professore ordinario di Filosofia morale Università di Macerata

«So bene che molte cose, che nella sacra Scrittura da solo non sono riuscito a capire, le ho capite una volta posto di fronte ai miei fratelli […] È evidente, infatti, che quanto mi è dato di capire a loro vantaggio mi è dato proprio dalla loro presenza. Così, per grazia di Dio, avviene che cresca il senso delle cose e diminuisca il mio orgoglio, giacché grazie a voi imparo ciò che a voi insegno». Debbo a Severino Dianich la scoperta di questo testo straordinario di san Gregorio Magno,[1] che spero di non forzare se provo ad applicarlo al tema che è stato chiesto di sviluppare. Se intese in senso ampio, oltre il piano esegetico cui si riferiscono, queste parole possono evocare anche un autentico «circolo ermeneutico», attraverso il quale la comprensione è inseparabile da un processo costante e aperto di interlocuzione. San Gregorio ci ricorda una verità paradossale: insegnare e imparare non sono atti che appartengono a momenti separati, l’uno attivo e l’altro passivo.

Questo vale a maggior ragione quando si parla di sinodalità: camminare insieme non è il risultato di un algoritmo pastorale testato a tavolino e automaticamente trasformato in un esercizio di discernimento comunitario; tale esercizio è autentico – e credibile – solo se concepito e praticato come processo dinamico e perfettibile di partecipazione condivisa, che non deve mai perdere «il senso delle cose». Tale richiamo non ha solo valore di metodo, ma può essere collegato al messaggio stesso della Gaudium et spes; in una Chiesa di cui si proclama la «intima unione… con l’intera famiglia umana» (GS, 1), dove quindi non sono immaginabili presenze passive, la qualità della comunione ecclesiale e il cammino di evangelizzazione debbono arricchirsi continuamente grazie a una sintesi sempre nuova di fede e storia, non riducibile a una collaborazione strumentale e occasionale fra pastori e fedeli laici. Non si tratta dunque di aggiornare un prontuario di «cose da fare», sulla base di una mera redistribuzione di compiti, aumentando lo «spazio» dei laici; si tratta piuttosto di aiutare l’intera comunità ecclesiale – nessuno escluso – ad assumere uno sguardo «laico» sulla storia, nel momento stesso in cui ci si pone in ascolto e contemplazione della «buona notizia»; una laicità capace di far tesoro di competenze accreditate e diversificate, nel rispetto della legittima e relativa autonomia delle realtà terrene, è parte integrante dell’annuncio del vangelo, non un corollario ininfluente ed estrinseco.

Per questo motivo, una riflessione sul tema della corresponsabilità deve evitare il pericolo di una riduzione pastoralista, che si accontenti di circoscrivere la questione a livello metodologico e intraecclesiale, quasi si trattasse semplicemente di aggiornare una forma organizzativa interna. La banalizzazione organizzativa può essere la scorciatoia più immediata quando le sintesi sono difficili e può sembrare una inutile complicazione aggiungere alla difficoltà di un percorso sinodale ogni confronto allargato. Eppure, un ascolto attento dei segni dei tempi può aiutare ad andare in profondità anche nell’approfondimento della fede cristiana: in un’epoca in cui la domanda di relazioni autentiche si scontra con un grave indebolimento dei legami sociali, una seria ricognizione storico-culturale che riconosca, in modo rigoroso e onesto, luci e ombre, conquiste importanti per l’intera famiglia umana e fallimenti clamorosi, può contribuire a purificare la stessa comprensione dell’evento gratuito della Rivelazione da precomprensioni improprie e da tentazioni evasive.

1. Quale responsabilità

Il tema della responsabilità segna profondamente il dibattito etico contemporaneo, grazie soprattutto al contributo di due pensatori ebraici, che si pongono come alternativi alla celebrazione individualistica dell’autonomia. Secondo Emmanuel Levinas, dinanzi al volto fragile e indifeso dell’altro, in cui è come inscritto il comandamento «non uccidere», il soggetto è in un certo senso deposto dal suo piedistallo e «messo all’accusativo». In tale distanza non indifferente l’assoluto della responsabilità è anche testimonianza dell’Infinito. Hans Jonas invoca invece una «euristica della paura» dinanzi allo strapotere della tecnologia, attribuendo all’essere umano, l’unico in grado di scegliere, il dovere di rispondere. Anche in questo caso, la responsabilità è assoluta e coincide con il massimo di dovere dinanzi al massimo di fragilità. Lo «scopo di tutti gli scopi» è il futuro della vita sulla terra; il primato dell’essere umano dunque dev’essere inteso non in termini di potere ma di dovere, e quindi di responsabilità.

Questi due contributi ci insegnano, rispettivamente, che c’è una «responsabilità corta», cioè un dovere assoluto di farci carico dell’altro proprio in quanto altro, dunque a prescindere da ogni logica opportunistica dello scambio, e nello stesso tempo anche una «responsabilità lunga», nei confronti cioè di una natura e di un’umanità che non sono davanti a noi, come oggetto immediato di un confronto o di una trattativa. Da questo confronto è possibile ricavare almeno un doppio contributo: anzitutto la responsabilità, pur restando un atto personale, si declina sempre al plurale, nella forma corresponsabile del «noi»; in secondo luogo, tale corresponsabilità caratterizza la natura stessa dell’essere insieme, e non è la concessione paternalistica di un soggetto autocentrato.

La difficoltà a stabilire – e soprattutto mantenere – un rapporto di reciprocità responsabile viene da lontano ed è diventata particolarmente evidente ai nostri giorni; sperimentiamo quotidianamente quanto sia difficile stare insieme, perché forse non sappiamo più cosa significhi essere insieme: a livello affettivo, culturale, sociale, economico, politico, persino ecclesiale… L’oscillazione moderna tra libertà e uguaglianza, dipendente da un’interpretazione opposta della sfera politica, centrata sul primato dell’individuo o sul primato del collettivo, ha obbligato di fatto a una scelta di campo tra liberalismo e comunismo, che ha condizionato anche alcuni orientamenti della Chiesa. Tuttavia, dopo la caduta del muro di Berlino (1989), san Giovanni Paolo II con la Centesimus annus ha messo in guardia profeticamente contro i pericoli di un capitalismo selvaggio e di una diffusa mentalità individualista, invitando a considerare l’uomo come «via della Chiesa».

Nel nostro tempo, a cui a oggi non siamo riusciti a dare un nome, all’infuori dell’uso ormai indiscriminato dell’avverbio latino post, all’origine di una serie interminabile di neologismi (postmoderno, postcapitalismo, postdemocrazia, postumano…), molti di questi nodi si presentano in una forma che è nello stesso tempo banalizzata e incattivita. I processi di globalizzazione, multiculturalismo e finanziarizzazione dell’economia accrescono le opportunità di vita ma anche gli squilibri sociali; all’esplosione di una bolla comunicativa sembra corrispondere un amento dei contatti e insieme un impoverimento delle relazioni. In questo contesto si fa strada una seduzione populista che trasferisce nello spazio pubblico le visceralità irrazionali e chiuse del piccolo gruppo, fatte più di nostalgie che di progetti, più di chiusure che di aperture, più di esclusione che di inclusione. Narcisismo e tribalismo sono i frutti avvelenati di questi processi, come hanno messo in guardia, tra gli altri, Sennett e Bauman.[2] Nella contrapposizione di egoismi tra il gigantismo senz’anima dei grandi apparati, ostaggio delle élites burocratiche e dei poteri forti, e la retorica delle piccole patrie, incosciente cinghia di trasmissione dei nazionalismi che ci hanno regalato due guerre mondiali, si fa strada una sorta di sovranismo dell’ego, fatto di slogan identitari e di solidarietà corte, che lambisce anche strati profondi di un cattolicesimo nostalgico e identitario, che si sente messo in discussione (e addirittura in pericolo!) dal magistero di papa Francesco.

2. Dalla collaborazione alla corresponsabilità

Parlare di corresponsabilità a livello ecclesiale senza fare i conti con queste derive significa impoverire il dibattito sulla sinodalità, riducendolo a una esortazione moralistica. Grazie a una interlocuzione critica con il nostro tempo, invece, senza confusioni di piani, lo stesso discernimento ecclesiale potrebbe esserne rafforzato nelle sue radici conciliari e valorizzato nelle sue potenzialità più profonde. Un importante cambiamento di paradigma a livello teologico e pastorale avviene infatti soprattutto grazie a due insegnamenti conciliari: l’universale chiamata alla santità, connessa al riconoscimento della legittima autonomia delle realtà terrene, e l’idea di Chiesa come popolo di Dio, che comporta una valorizzazione del sacerdozio comune dei fedeli. Il tema della corresponsabilità è centrale in Lumen gentium: «I sacri pastori riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli incarichi per il servizio della Chiesa e lascino loro libertà e campo di agire, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa» (LG, 37). Ne deriva una ministerialità non solo ad intra: nella edificazione del bene comune e della solidarietà in campo nazionale e internazionale «sono specialmente i laici a essere ministri della sapienza cristiana» (AA, 14).

Nel magistero di san Giovanni Paolo II il tema della corresponsabilità compare soprattutto nelle encicliche Redemptor hominis (1979) e Centesimus annus (1991), mentre almeno un riferimento insistito ed esplicito si trova in un messaggio di papa Benedetto al Forum internazionale di Azione cattolica (2012), che teorizza apertamente un passaggio dalla collaborazione alla corresponsabilità: «La corresponsabilità esige un cambiamento di mentalità riguardante, in particolare, il ruolo dei laici nella Chiesa, che vanno considerati non come “collaboratori” del clero, ma come persone realmente “corresponsabili” dell’essere e dell’agire della Chiesa».[3]

Gli appelli ripetuti e accorati di papa Francesco in tale direzione riguardano soprattutto, più che un riequilibrio di compiti e carismi tra laici e ministri ordinati, una nuova postura, comunitaria e condivisa, nei confronti delle fragilità e delle miserie, e una costante apertura missionaria. In relazione agli organismi di partecipazione e ad altre forme di dialogo pastorale, in Evangelii gaudium, tra l’altro, ci viene ricordato che «l’obiettivo di questi processi partecipativi non sarà principalmente l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti» (EG, 31); da qui il rammarico perché tale impegno «non si riflette nella penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico. Si limita molte volte a compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’applicazione del vangelo alla trasformazione della società» (EG, 102). In questi appelli evidentemente si tiene conto di una deriva che ha segnato la teologia del laicato in questi ultimi anni: da un lato, la corresponsabilità laicale si è venuta progressivamente appiattendo in forme puramente operative di supplenza clericale; da un altro, sembra essersi spenta l’attenzione intorno al senso e alle possibilità di una ministerialità ad extra, capace di reinterpretare alla luce delle sfide di oggi una modalità di essere cristiani nel mondo proponibile a tutti, ben oltre l’ambito dei cosiddetti operatori pastorali.

Per riconoscere la responsabilità che ci accomuna, a livello sociale ed ecclesiale, dobbiamo quindi chiederci come far scendere l’io dal proprio piedistallo narcisistico, a partire da una semplice domanda: che cosa c’è tra noi? Solo la occasionalità di contatti effimeri, o una logica di reciproca convenienza, oppure i legami della terra e del sangue? Corresponsabilità significa precisamente riconoscere il primato del «noi», dilatandolo in senso universalmente inclusivo: nella società, incoraggiando ministerialità laicali competenti, formate e disponibili; nella Chiesa, prendendo atto che non è possibile ripensare i luoghi e le forme della corresponsabilità senza accogliere e condividere il munus della comunione – dono che ci precede e compito che ci interpella. La prima via è credibile se l’appello alla partecipazione e alla solidarietà si fa carico di rigenerare il tessuto della convivenza affrontando concretamente il tema del rapporto tra giustizia sociale e bene comune; una giustizia non ridotta a sentinella degli egoismi privati, ma aperta all’eccedenza dell’amore e della misericordia. La seconda via è chiamata in un certo senso a percorrere un itinerario inverso, mostrando la rivelazione dell’amore e della misericordia non come una fuga dalla giustizia ma come il suo compimento più alto, che precede la giustizia in senso generativo e la riscatta, senza sconfessarla, in senso riparativo.

Il primato del «noi» per un cristiano può essere un punto di arrivo solo perché è, prima di tutto, un punto di partenza, che si fonda nel mistero della comunione trinitaria, dove lo Spirito è amore che accomuna la prima e la seconda persona, fino al punto da essere persona egli stesso! Nel mistero dello Spirito è custodita la verità ultima di ogni relazione. Lo Spirito che è in mezzo a noi è il fondamento del «noi», è il dono del «noi» che include senza escludere, che abbraccia senza soffocare, che trascende senza dissolvere. «L’unità dello Spirito – ci ricorda papa Francesco – armonizza tutte le diversità» (EG, 230). Solo un legame che accomuna dall’alto può far incontrare, dialogare e crescere insieme i diversi. Può fare di tanti popoli un solo popolo: un poliedro, più che una sfera (EG, 236). Si può collocare in quest’orizzonte anche l’invito di papa Francesco alla «cura della casa comune», affidato all’enciclica Laudato si’, che sfugge al falso dilemma tra natura e persona, tenendo insieme questione ambientale e questione sociale, raccomandando uno «sguardo diverso» sull’ordine della creazione, capace di cogliere la radice trinitaria di ogni interconnessione tra fenomeni apparentemente eterogenei: «Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità» (LS, 240).

Questo radicamento trinitario della comunione può entrare in dialogo con l’orizzonte culturale odierno, aiutandoci a riconoscere i costi di un paradigma binario, centrato sulla distanza fra soggetto e oggetto, in cui anche l’altro soggetto rischia di essere per l’io come un oggetto; un dualismo che si è ormai trasformato in un paradigma atomistico, in cui l’ego non riesce a uscire da se stesso e superare la paura dell’altro. Il mistero trinitario invita invece a riscoprire il paradigma di «terza persona»: c’è sempre un terzo tra l’io e l’altro, che istituisce l’infinito della relazione, garantendo un’autentica reciprocità e rendendola universalmente inclusiva, in nome di un bene che accomuna. In questa prospettiva «la relazione conta», nel senso che lo spazio pubblico non è abitato solo da individui tenuti insieme dall’opportunismo degli egoismi o da un fragile collante contrattualistico; nel senso proprio, il bene comune non è qualcosa di estrinseco o strumentale, ma esprime la qualità delle relazioni tra le persone, a un livello che appartiene alla loro identità più profonda.

3. Esercizi di corresponsabilità

In questa prospettiva discernimento culturale e pastorale vanno di pari passo; non si tratta di sovraccaricare l’esercizio della sinodalità con una inutile complicazione intellettualistica, ma di aprirlo a una partecipazione responsabile che coinvolga il fedele laico raggiungendolo nel suo vissuto più profondo, laddove la fede senza la storia si ridurrebbe a una serie di compiti e di adempimenti assolti nel segno di una fatica per far fronte a un’emergenza. Si tratta per questo di un cammino che suppone un coinvolgimento di tutta la vita; un cammino fatto di piccoli passi, che riuscirà tanto più lieve e appassionante quanto più potrà essere percorso senza un cuore diviso, senza lasciare a casa competenze e affetti, relazioni e mondi vitali.

Su questa strada avremo bisogno tutti – nessuno escluso – di maturare alcuni atteggiamenti fondamentali attraverso concreti esercizi di corresponsabilità. Mi limito a segnalarne alcuni.

3.1. Esercizi di ascolto fiducioso

L’ascolto esige un decentramento del soggetto, un esercizio quasi ascetico di spoliazione interiore, come condizione indispensabile per attuare un’autentica apertura di credito, capace di sostituire alla logica del sospetto un atteggiamento di fiducia, critica e insieme generosa. Solo attraverso questo esercizio è possibile sfuggire alla tentazione della «ricetta pronta», come ci viene ricordato in un testo di padre Bergoglio, del 1982, rivolto ai confratelli gesuiti: «Come ci viene facile “usare la ricetta pronta”, quella che forse ho letto sull’ultima rivista olandese, o francese, o integrista, per catechizzare il mio popolo. E com’è difficile, e che solitudine si prova nel cuore quando mi rendo conto che devo imparare da loro il linguaggio, le linee di riferimento, le valutazioni… E non come una riverniciata per la mia teologia, ma come forma nuova che mi riordina di nuovo».[4]

3.2. Esercizi di riconoscimento

Il riconoscimento dell’altro nella sua differenza rispetto a noi, e non come un «alter ego», specchio dei nostri egoismi o proiezione delle nostre convenienze, impegna a un atteggiamento di accoglienza, criticamente vigile ma sempre generosamente aperta: «Dobbiamo toglierci le scarpe – ci raccomanda papa Francesco – dinanzi al terreno sacro dell’altro» (EG, 36). Solo così conoscenza di sé e conoscenza dell’altro potranno andare di pari passo. L’altro mi aiuta a riconoscermi in profondità, più di quanto io possa immaginare: «La distanza che ci separa dallo straniero – ha scritto Jabès – è quella stessa che ci separa da noi. La nostra responsabilità di fronte a lui è dunque solo quella che abbiamo verso noi stessi»; in questo senso, «lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero».[5]

3.3. Esercizi di progettazione generativa

«Insieme» è un avverbio che non descrive uno «stato in luogo», ma postula un vero e proprio «moto a luogo»; dunque un processo, un cammino, una pratica cooperativa, che dev’essere tale in tutte le sue fasi, dall’inizio alla fine. L’appello alla corresponsabilità non è credibile se arriva troppo tardi, alla fine del processo, quando si tratta di mettere sulle spalle di altri idee e propositi concepiti in autonomia. «Insieme» è prima di tutto l’avverbio del concepimento, da cui dipende la gestazione e il dare alla luce un progetto. Progettare insieme è un’arte molto difficile: suppone la possibilità di imparare a pensare insieme, a condividere grandi sogni, a commisurare metodi differenti, a fare i conti con timori, esitazioni, scoraggiamenti; ad attivare processi aperti e perfettibili, che solo così potranno tenere insieme la concretezza della situazione e la lungimiranza del progetto. Ancora Bergoglio: «Guardare la nostra storia vuol dire percorrere cortili scorgendo praterie, guardare frammenti ma contemplare forme».[6]

3.4. Esercizi di tessitura cooperativa

Il passo ulteriore chiama in causa un tirocinio paziente e tenace, in cui ciò che conta è «dare priorità al tempo», che «significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi» (EG, 223). Anche in questo laborioso «artigianato dei piccoli passi» si misura la forma di Chiesa come comunità alternativa: in una società scucita, in cui dominano i «solventi» della competizione, dell’arroganza e della violenza, la possibilità di tornare a tessere la trama dei beni relazionali dipende da una rinnovata cura per i «collanti» della partecipazione, della dedizione, della gratuità, che aiutino a ricucire insieme, dal basso, con ago e filo, le ferite della fraternità. C’è una voglia diabolica di rottura dei legami che domina il nostro tempo, in cui si scambia il narcisismo con la maturità personale; una tentazione strisciante che serpeggia anche nella comunità cristiana, portando a sognare perimetri chiusi, cittadelle blindate, vessilli rituali dietro ai quali nascondersi. Imparare a usare ago e filo è un’urgenza per tutti.

3.5. Esercizi di «restituzione lunga»

La responsabilità è una forma di restituzione asimmetrica: non un «do ut des», ma un «do ut sis». Io do perché tu sia, non perché io abbia. La vera restituzione non sopporta i calcoli della convenienza né la logica contabile dello scambio. Il circolo della restituzione è generativo se ispirato al primato dell’eccedenza sull’equivalenza. Nel senso migliore, la restituzione è una risposta assoluta, incondizionata: gratuità senza alcun tornaconto. La vera restituzione è quella che non ci verrà restituita. Questa è la motivazione più profonda, che radicalizza e insieme alleggerisce il peso della responsabilità: la vera urgenza del servizio ecclesiale non dipende dalla carenza di operatori, non è una forma di supplenza transitoria in attesa di tempi migliori; nasce piuttosto dal riconoscimento di un debito che viene da lontano e guarda lontano: viene da una storia di traditio fidei, guarda al mistero inaudito della comunione dei santi, che ci dona un respiro infinito, oltre lo spazio e il tempo, persino oltre il male e la morte.

Questi «esercizi di corresponsabilità» chiamano dunque in causa una capacità di risposta comunitaria rivolta contemporaneamente al Signore della vita e della storia, ai fratelli nella fede, all’intera famiglia umana, al creato nella sua globalità. Forse l’ingrediente più semplice e prezioso, indispensabile per esercitare bene la nostra responsabilità comunitaria è proprio quella santità feriale, che papa Francesco in Gaudete et exsultate ci invita a riscoprire come un cammino comunitario, fatto di preghiera costante, di pazienza e mitezza, di audacia e fervore, di gioia e persino di senso dell’umorismo. Una santità popolare, della «porta accanto», resta la condizione fondamentale per non snaturare l’appello alla corresponsabilità in senso burocratico o strumentale, riconoscendola come cura di una fede testimoniata da un affidamento reciproco: «La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore, dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre» (GE, 145).

[1] Homiliarum in Ezechielem prophetam libri duo, 2,2,1: PL 76,948 s. Il testo è ricordato per sottolineare l’influsso della predicazione «sulla vitalità del magistero e sulla stessa formulazione dei suoi contenuti» (S. Dianich, Magistero in movimento. Il caso papa Francesco, EDB, Bologna 2016, 59).

[2] Cf. R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006; Id., Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano 2012; Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, Bari – Roma 2017.

[3] Messaggio del santo padre Benedetto XVI in occasione della VI assemblea ordinaria del
Forum internazionale di Azione cattolica, 10 agosto 2012 (https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/messages/pont-messages/2012/documents/hf_ben-xvi_mes_20120810_fiac.html).

[4] J.M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Rizzoli, Milano 2014, 258.

[5] E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, SE, Milano 1991, 61, 11.

[6] Bergoglio, Nel cuore di ogni padre, 7.

Tratto da Orientamenti Pastorali 4(2020). EDB, tutti i diritti riservati