Nelle nostre prassi pastorali spesso sperimentiamo – non senza sofferenza – il paradosso di una Chiesa che, nata per annunciare e preparare la venuta del Regno, protesa per essenza verso il futuro, venga percepita da molti come relitto malinconico del passato. Vale a dire una realtà che sembra incapace di offrire una parola per l’uomo moderno che vive in ambienti profondamente secolarizzati, in cui è difficile poter incrociare risposte religiose alle proprie domande. Talvolta si ha l’impressione che si stia predicando un vangelo che non è più quello di Gesù, che era capace di penetrare i cuori e toccare l’orizzonte affettivo e progettuale della gente che incontrava. Le sue erano risposte concrete a problemi reali e non preconfezionate o scontate. Le risposte di Gesù erano di un sapore particolare, sapevano di futuro, di un domani sorprendente, capace d’indicare possibilità insperabili. È il «grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa – afferma il papa nella Evangelii gaudium – nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità. Si sviluppa la psicologia della tomba, che a poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo» (EG, n. 83). La soluzione – affermava Benedetto XVI a un gruppo di vescovi francesi in visita ad limina – non può essere affidata solo a questioni organizzative, per quanto importanti esse siano; «si rischia di porre l’accento sulla ricerca dell’efficacia con una sorta di “burocratizzazione della pastorale”, concentrandosi sulle strutture, sull’organizzazione e sui programmi, che possono diventare “autoreferenziali”, a uso esclusivo dei membri di quelle strutture. Queste ultime avrebbero allora scarso impatto sulla vita dei cristiani allontanatisi dalla pratica regolare». Occorre un cambiamento di paradigma: dalla trasmissione della fede «a senso unico» alla comune scoperta, in piena sintonia con uno stile sinodale di Chiesa. A ben guardare, non si tratta di un’innovazione, bensì di un ripartire dallo stile di Gesù e dall’esperienza degli inizi del cristianesimo. In questo senso, alcuni teologi di lingua francese parlano da una ventina di anni di una pastorale d’engendrement ovvero di una pastorale generativa. Non basta più preservare i vissuti pastorali, ma è necessario curare una dinamica generativa capace di condurre le comunità ecclesiali verso stili di vita rinnovati dal vangelo. Il lavoro che ci attende è di destrutturare modelli stantii e asfittici, per rilanciare e narrare l’umano segnato da Gesù, attraverso approcci veri, concreti, ricchi di umanità. Il divenire generativi necessariamente sposta l’attenzione dal fare all’essere e richiede un cuore innamorato, appassionato, carico di desiderio, pronto a mettersi in gioco e a donarsi. Un’evangelizzazione capace d’incidere e tracciare percorsi ricchi di autenticità non può essere affidata allo spontaneismo, ma necessita anch’essa di una riflessione teologica appropriata, che sappia incarnare uno stile capace di leggere i tempi, non adeguandosi, ma trovando piste di riflessione che sappiano nutrire la vita cristiana in ordine alle sfide dell’oggi. È sufficiente, per capire che una pastorale che genera alla fede non s’interessa prima di tutto della salvaguardia dell’istituzione e delle sue strutture: ciò che le sta a cuore sono prima di tutto le persone. «Si tratta, […], di scoprire uno stile diverso di fare pastorale perché sia conservata (o restituita, in qualche caso) alle nostre azioni ecclesiali la loro intrinseca forza generativa alla fede ed educativa della fede. Non si tratta di andare verso altre cose e di fare cose nuove, ma dirle e compierle noviter. Domandarci, in breve, se quello che facciamo apre davvero la strada all’incontro con Cristo» (M. Semeraro).
Non comprendiamo l’importanza della comunicazione per la nostra vita se non quando essa viene a mancare. La missione della Chiesa è stata fortemente messa in discussione dalla esplosione della comunicazione nel XX secolo. L’azione pastorale è chiamata a confrontarsi con questo nuovo fenomeno, nuovo areopago, attraverso cui si è realizzata la cultura contemporanea. Il punto centrale su cui riflettere non è, ovviamente, il diritto-dovere della missione della Chiesa. Il punto centrale risiede nella riflessione da completare se tale azione missionaria, che esprime la natura dell’esistenza della Chiesa, si può continuare a realizzare attraverso la categoria comunicativa del trasmettere oppure se l’azione missionaria deve essere modellata attraverso categorie comunicative che rispettino la natura antropologica della comunicazione stessa. In termini più semplici: la missione della Chiesa si può limitare alla sola azione della comunicazione monodirezionale (la Chiesa parla agli uomini) o deve assolutamente assumere il modello compiuto di comunicazione: il modello bidirezionale (la Chiesa dialoga e ricerca insieme con gli uomini)? (Michele Roselli)
- Trasmettere e comunicare nel tempo della ri-medialità
In un sistema relazionale sempre dinamico e in mutamento, oggi la frattura tra le generazioni ha messo in crisi il modello della trasmissione ed è evidente il disagio di tanti nell’iniziare i giovani ai significati dell’esistenza. Quello degli adulti, infatti, è un universo in crisi, strapazzato tra quesiti ed incognite pesanti, risultati fallimentari, lusinghe giovaniliste, desiderio di ricostruzione e di maggior tranquillità. Durante un evento come la pandemia, poi, i luoghi formativi per eccellenza, come la scuola e la famiglia, hanno conosciuto vuoti, dinamiche e tensioni inaudite. La didattica a distanza e lo smart working hanno aperto tanti interrogativi da affrontare e, proprio come la nostra Italia, anche il panorama educativo sembra essere un cantiere più che mai aperto. Sta a noi trasformare le perdite in nuovi inizi ed educare alla speranza, con un atteggiamento di fiducia nel futuro, interpretando il presente come tempo favorevole per il cambiamento dell’uomo e del mondo. (Massimiliano Padula )
- Elogio del pensiero incompleto
Nel suo magistero papa Francesco – per mettere in guardia da visioni culturali «assolutiste» – richiamando Guardini, fa spesso al cosiddetto «pensiero incompleto»: «quello che ti porta fino a un certo punto, ma poi ti invita a contemplare in prima persona. Crea uno spazio per farti incontrare la verità. Un pensiero fecondo dovrebbe essere sempre incompleto per dare spazio a sviluppi successivi […] un tipo di pensiero che permette(va) di attraversare i conflitti senza restarne intrappolato. Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità». Attraversare i confini senza restarne intrappolati è quello che oggi tutti dovremmo desiderare. (Giuseppe Savagnone)
- Il linguaggio simbolico: una sfida liturgica alla teologia dei sacramenti
L’uomo moderno è diventato analfabeta, non sa più leggere i simboli, quasi non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Ciò accade, ad esempio con il simbolo del nostro corpo: basta vedere il modo paradossale con il quale viene trattato, ora curato in modo quasi ossessivo inseguendo il mito di una eterna giovinezza, ora ridotto a una materialità alla quale è negata ogni dignità. Il fatto è che non si può dare valore al corpo partendo solo dal corpo. Ogni simbolo è nello stesso tempo potente e fragile: se non viene rispettato, se non viene trattato per quello che è, si infrange, perde di forza, diventa insignificante. La domanda che ci poniamo è, dunque, come tornare a essere capaci di simboli? Come tornare a saperli leggere per poterli vivere? Sappiamo bene che la celebrazione dei sacramenti è – per grazia di Dio – efficace in se stessa (ex opere operato) ma questo non garantisce un pieno coinvolgimento delle persone senza un adeguato modo di porsi di fronte al linguaggio della celebrazione. La lettura simbolica non è un fatto di conoscenza mentale, di acquisizione di concetti ma è esperienza vitale. (Andrea Grillo)
- Il «di più» di dono di cui avrebbe bisogno la pastorale
Il difficile contesto contemporaneo – nel quali i credenti sono chiamati a portare la loro testimonianza della bella parola del vangelo (fine della cristianità, secolarizzazione, pluralismo) – invita a ripensare non solo le modalità dell’annuncio, ma anche su quale immagine di Chiesa guida l’azione pastorale. La chiave di volta per tenere insieme la Chiesa, la sua missione e il nostro tempo può essere rintracciata nel tema del «dono». (Salvatore Currò)
6. Verso comunità generative
La «pastorale generativa» non indica un modello pastorale «nuovo», quanto un modo per risalire al principio stesso dell’azione ecclesiale (pastorale). Esso dipende dalla convinzione che tra la generazione alla vita umana e la generazione alla vita di fede esiste una fondata analogia; dall’idea che tra l’accesso di qualcuno alla propria umanità, grazie all’azione di chi lo ha generato, e l’accesso alla fede, grazie alla presenza di un altro credente, sussiste un rapporto che potremmo dire intrinseco. È sufficiente, per capire che una pastorale che genera alla fede non s’interessa prima di tutto della salvaguardia dell’istituzione e delle sue strutture: ciò che le sta a cuore sono prima di tutto le persone. (Paolo Blasetti)
- La liturgia è generativa
Nel rito narrare non è solo ricordare, ma anche generare una reviviscenza, come accade nell’Haggadah, il testo della celebrazione pasquale giudaica: la liberazione dall’Egitto viene «rivissuta» nel dono della libertà che si sta vivendo. Le nostre liturgie sono un’azione simbolica, narrativa, che hanno in sé stesse una capacità performativa, che conduce i fedeli al cuore del mistero della fede. (Valeria Trapani)
- Per un annuncio generativo. Appunti per ripensare la trasmissione della fede in società secolarizzate
La catechesi sta rivedendo il suo tradizionale atteggiamento di sola trasmissione e accetta la sfida di esporre il suo messaggio al gioco della relazione tra i soggetti comunicativi. Comprende che deve entrare maggiormente in comunicazione, che la validità del suo messaggio non è messa in pericolo da un approccio legato alla emotività e sensibilità. Comprende che la «competenza comunicativa» dei suoi operatori può facilitare sia la trasmissione, come la comprensione e interiorizzazione del messaggio stesso. Infine, comprende che anche la costruzione della comunione della comunità stessa è avvantaggiata da una rilettura comunicativa della sua ministerialità. (Antonio Staglianò)
- La carità generativa: tra nuove povertà, mobilità e nuove esperienze di condivisione
Nel sentire comune la carità viene ridotta a elemosina. Papa Francesco nella Fratelli tutti (n.186) mette in guardia da questo pericolo. Quali strategie, modalità, stili consentono di non generare dipendenza e clientelismo e al contempo di non dimenticare indietro nessuno e, anzi, di valorizzare l’unicità di cui ciascuno è portatore? Come fare spazio nelle nostre comunità al contributo della persona in difficoltà, favorendo un approccio di empowerment e di espressione, riconoscimento e sviluppo delle proprie risorse in funzione del raggiungimento di una nuova autonomia? (Gian Carlo Perego)
- Verso un progetto generativo di «senso» per la quotidianità onlife
Essere umani in un’epoca di iperconnessione significa attivare un processo che si lasci ispirare dal paradigma della comunicazione generativa, verso un progetto per un’esperienza cristiana del feriale, inteso come «lo spazio della fede, la scuola della sobrietà, l’esercizio della pazienza, un’occasione silenziosa per amare ed essere fedeli in modo autentico». Dal feriale, secondo il teologo Karl Rahner, all’inedito. (Fortunato Ammendolia)