Giuseppe Savagnone – responsabile del sito della pastorale della cultura dell’arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu. Scrittore ed editorialista.
In un momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è unilateralmente concentrata sulle vicende diplomatiche e militari della guerra in Ucraina, ha ricevuto ben poca attenzione l’esplodere, in questi giorni, di un’altra guerra, anch’essa combattuta sul territorio del nostro continente, anche se di proporzioni quantitative molto più ridotte. E così, pochissimi, in Italia e in Occidente, si sono resi conto che la fulminea aggressione scatenata in questi giorni dall’Azerbaigian, con forze soverchianti, ha posto fine in 24 ore all’esistenza di una piccolo Stato, la repubblica dell’Artsakh, nato il 6 gennaio 1992 sul territorio del Nagorno Karabakh. Molto più deboli militarmente, abbandonati da tutti e mal sostenuti dalla stessa Armenia – il cui primo ministro Nikol Pashinyan è stato oggetto di aspre accuse di debolezza e di incapacità da parte della opinione pubblica armena – , i difensori della repubblica si sono dovuti arrendere per non essere massacrati e ormai l’intera regione è nella mani delle forze azere. Può essere utile, per capire l’accaduto, un po’ di storia. Il contesto è quello dello sfacelo dell’Unione Sovietica, che diede luogo alla diaspora delle diverse realtà etniche che ne facevano parte. Una di esse fu l’Azerbaigian, che alla fine dell’agosto 1991 decise di dar vita ad una repubblica autonoma. Subito dopo, ai primi di settembre, il soviet del Nagorno Karabakh, una enclave a maggioranza etnica armena che si trovava all’interno del suo territorio, decise di non seguire l’Azerbaigian e votò per la costituzione di una nuova entità statale autonoma. Il 10 dicembre 1991 un referendum confermò la scelta dell’autonomia. Seguì, all’inizio del nuovo anno, la proclamazione ufficiale della repubblica, che però non è stata mai riconosciuta dalla comunità internazionale, pur fondandosi, indiscutibilmente, sul principio di autodeterminazione dei popoli. In ogni caso, l’Azerbaigian non ha mai rinunziato a questa parte del suo territorio. Già nel 1992 ha cercato di impedire con le armi la nascita del nuovo Stato, ma in quell’occasione uscì sconfitto nel conflitto con l’Armenia – un altro soggetto politico originato dalla diaspora dell’URSS – , che sosteneva gli autonomisti.
Ma il fuoco covava sotto la cenere
Già nell’aprile del 2016 un attacco da parte degli azeri aveva dato luogo alla cosiddetta “guerra dei quattro giorni”. E nel novembre del 2020 l’Azerbaigian – sostenuto fortemente dalla Turchia – , dopo un attacco su vasta scala, ha riconquistato una parte del territorio del Nagorno Karabakh, sottraendolo al governo dell’Artsakh. Ora la guerra è esplosa nuovamente, di nuovo per iniziativa dell’Azerbaigian. Il pretesto – lo stesso sbandierato da Putin per giustificare l’aggressione all’Ucraina – è una “operazione antiterrorismo”. Ma tutti sanno che il progetto era di completare la conquista, iniziata nel 2020, dei territori dell’auto-proclamata repubblica autonoma. Intento pienamente realizzato, con l’aiuto degli armamenti forniti dalla Turchia e grazie anche all’inerzia della Russia – in passato sostenitrice dell’Armenia e garante dell’autonomia della neonata repubblica autonomista – , che invece in questa occasione, distratta dal altri problemi e bisognosa dell’appoggio turco su scenari più ampi, ha mantenuto un profilo bassissimo. Baku ha raggiunto tutti i suoi obiettivi: la resa di tutte le “formazioni militari armene illegali”, la consegna dell’intero arsenale in mano ai ribelli e il parallelo scioglimento delle autorità separatiste. In sostanza, la resa senza condizioni dell’Artsakh.
Un grande silenzio
In realtà l’Azerbaigian ha potuto operare indisturbato anche perché gode, oltre che dell’appoggio della Turchia, di quello dello Stato di Israele, che punta su di esso in funzione anti-iraniana. Ma, oltre che su questi espliciti sostegni, ha anche potuto contare anche su un clima di sostanziale indifferenza per quanto stava accadendo. Della Russia si è detto. Ma anche l’Unione europea e gli Stati Uniti sono stati molto cauti nelle loro reazioni all’attacco azero, non andando al di là di generiche raccomandazioni di “cessate il fuoco”, ovviamente inascoltate da parte di chi stava prevalendo. Ci si potrebbe sorprendere di questo grande silenzio, in un contesto in cui, nel mondo occidentale, si rinnovano continuamente le proteste per l’invasione russa dell’Ucraina, in nome di princìpi etici inderogabili, come la libertà dei popoli. A quanto pare, gli aggrediti non sono tutti meritevoli della stessa solidarietà. Certo, come si accennava prima, la repubblica dell’Artsakh non è mai stata riconosciuta dagli altri Stati. E le dimensioni quantitative sono diverse nei due casi. in gioco la vita di 12.000 armeni, pochi se confrontati con la popolazione ucraina. Ma l’etica non si può ridurre a una questione puramente giuridica e meno che mai a un problema di numeri e se è veramente per motivi morali che oggi la Nato è polarizzata, con uno sforzo diplomatico e militare senza precedenti, nel sostenere la causa delle vittime dell’aggressione di Putin, forse ci si sarebbe potuti aspettare che almeno un briciolo della sua sensibilità etica venisse investita anche nella difesa del piccolo popolo del Nagorno Karabakh. Magari intervenendo presso la Turchia, che è uno dei suoi membri, e che in questa vicenda è stata il principale sponsor dello Stato aggressore. Ci sono in gioco, sicuramente, degli interessi economici. Questo vale innanzitutto per il nostro paese. Non tutti sanno che l’Azerbaigian è il primo fornitore di petrolio dell’Italia sin dal 2013. Secondo i dati di InfoMercati Esteri della Farnesina, in quell’anno, Baku (la capitale azera) ha superato la Libia e la Federazione Russa. Quella italo-azera è una partnership consolidata, divenuta ancora più importante con lo scoppio della guerra in Ucraina, quando Roma ha dovuto tagliare i rapporti energetici con Mosca, rivolgendosi a Stati come l’Algeria e, appunto, l’Azerbaigian. Reciprocamente, l’Italia è uno dei partner più importanti della repubblica azera per quanto riguarda la fornitura di armamenti. Le armi per invadere l’Artsakh le abbiamo fornite anche noi all’Azerbaijan.
L’ Assemblea generale dell’Onu
La geopolitica, evidentemente, non si può appiattire automaticamente sull’etica. Non può non impressionare, però, che quest’ultima venga chiamata in causa in certe occasioni e non in altre. Al di là della vicenda del Nagorno Karabakh, si ha a volte l’impressione che essa venga strumentalizzata in base all’ordine del giorno stabilito secondo ben altri criteri e che l’enfasi con cui la si è applicata alla vicenda della guerra ucraina, pur legittima in sé, serva anche da alibi per nascondere altri problemi che hanno pure una valenza morale indiscutibile. Colpisce, per esempio, che nel recente dibattito all’Assemblea generale dell’ONU, di cui tanto si è parlato sui mass media e che è stato quasi esclusivamente centrato sul tema di questa guerra, si sia parlato molto poco e molto distrattamente di altri problemi che avevano una rilevanza sicuramente non minore e forse anche maggiore, riguardando non un singolo paese ma molti – quelli cosiddetti “in via di sviluppo” -, che avrebbero urgente bisogno di po’ di quegli ingentissimi aiuti economici che oggi vengono investiti unilateralmente per armare l’Ucraina. Si può leggere sul quotidiano «Avvenire» del 21 settembre scorso un resoconto di Elena Molinari che fa riflettere: «Al secondo giorno del dibattito generale all’ONU, sui banchi dell’Assemblea generale c’erano solo una manciata di leader e la galleria della stampa era quasi vuota. Sul podio della sala si stavano alternando i presidenti di Nigeria, Ecuador, Guyana, Angola, Tagikistan e Honduras», che non parlavano dell’Ucraina, ma «dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile della Nazioni Unite» per risolvere problemi come «povertà estrema e fame, istruzione secondaria, azioni urgenti per combattere il cambiamento climatico». «Alcuni hanno ricordato che, ai ritmi attuali, entro la data stabilita del 2030 non se ne realizzerà neanche uno» e hanno parlato di «promesse non mantenute» da parte dei paesi ricchi. Particolarmente drammatica la situazione dell’Africa. Non che all’Assemblea dell’ONU non se ne sia parlato. Lo ha fatto ampiamente anche il nostro presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ma non per insistere sulla necessità di sostenerla nel suo sviluppo, bensì per caldeggiare misure contenitive dei flussi migratori da parte della comunità internazionale. L’etica, dell’Occidente, evocata ad ogni pie’ sospinto per condannare (giustamente) la politica di aggressione russa, anche in questo caso sembra stranamente latitante quando si tratta delineare gli scenari geopolitici relativi ad altre situazioni, dove pure essa, che lo si voglia o no, entra in gioco. Siamo ben lieti che l’etica venga chiamata in causa dalla politica. Ma forse dovremmo chiedere ai nostri governanti – italiani e no – maggior coerenza nell’appellarsi ad essa o, almeno, un po’ più di rispetto della nostra intelligenza.