Livio Tonello – direttore dell’ISSR di Padova e docente di teologia pastorale
In questi ultimi decenni si sono modificate le categorie ecclesiologiche sia relativamente alla pastorale che ai referenti. Questo sicuramente nella Chiesa italiana, quasi a traino di quelle europee. Sinteticamente, i cambiamenti sociali stanno interpellando la Chiesa che sta avviando una riforma al suo interno passando da una pastorale legata ai sacramenti a una missionaria, da una liturgico-eucaristica a una sociale-assistenziale, da una clerocentrica a una ministeriale. Sono categorie molto ampie e generiche per connotare i mutamenti e le problematiche in atto. È necessaria, quindi, una disamina più accurata per cogliere le direttrici pastorali – non sempre evidenti e volute – verso le quali ci si sta avviando. Si tratta anche in questo caso di una azione di discernimento che, partendo dagli elementi di valutazione umana, si protende in avanti con la certezza che l’azione di Dio precede la mediazione ecclesiale, che il futuro riserva l’inaudito e che rimane indisponibile una comprensione olistica del senso della storia. Non è tuttavia senza valore l’interrogarsi su come essere Chiesa oggi e su come il vangelo possa ancora parlare e interpellare le progettualità umane.
Constatazioni
Una prima evidenza è data dal fatto che una pastorale di conservazione dell’esistente non produce effetti significativi. I cammini catechistici e di iniziazione cristiana non producono una scelta consapevole di fede; la catechesi per/con gli adulti è scomparsa; alla celebrazione domenicale dell’eucaristia non sono più presenti i giovani… e via dicendo.[1] Una seconda evidenza è data dal fatto che i numeri si stanno assottigliando, sia tra il clero che tra i consacrati che tra i fedeli. Invocare la partecipazione corresponsabile del laicato fa i conti con il deficit numerico di risorse che le aperture alla ministerialità istituita non appianeranno. Terza evidenza è la poca rilevanza pubblica e culturale del messaggio evangelico, complice la perdita di credibilità della parola autorevole del magistero e della testimonianza dei battezzati. Queste constatazioni portano alla consapevolezza che in Europa è finito il tempo della cristianità, che il cristianesimo va verso una esculturazione e che ci sia avvia a essere di minoranza e in diaspora.[2]
Cambio di prospettive
Di fronte al cambio valoriale popolare e del senso di appartenenza, già da tempo sono in atto revisioni e ripensamenti sul modo di essere chiesa e di vivere la missione. Se originariamente la parrocchia non si è mai pensata come missionaria, le situazioni congetturali la costringono a rivedere il proprio statuto e la modalità di stare nella contemporaneità. Sia la Conferenza episcopale italiana già da inizio millennio che papa Francesco a inizio pontificato, hanno rilanciato il compito della comunità parrocchiale nella prospettiva missionaria.[3] Mancano tuttavia le acquisizioni di fondo per ripensare l’impostazione parrocchiale. Il concetto stesso di comunità rimane limitato e pensato nella logica di una appartenenza affettiva. Ne sono complici le analisi sociologiche che rilevano la vitalità o meno del cattolicesimo a partire dai frequentanti la messa. Questo è solo uno degli elementi con i quali valutare la salute ecclesiale in generale e della parrocchia in particolare. A ben vedere, una comunità credente di tipo parrocchiale è composta da battezzati i quali si relazionano con tonalità differenti. Ci sono i fedeli, i saltuari, gli indifferenti, i cercatori di Dio, gli arrabbiati, i simpatizzanti… tipologie variegate che declinano appartenenze diverse, ma che tuttavia sono da ascrivere alla realtà identificata come «comunità» ecclesiale o, meglio ancora come andrebbe fatto, come «fraternità» cristiana. «La sequela di Gesù vi si rivela ampia e complessa, e non può essere artificiosamente ridotta al solo gruppo dei discepoli. Per conservare tutta la sua pertinenza, il termine “discepolo” deve essere relativizzato e arricchito da tutti quegli outsiders che sono i compagni. Amici fedeli e altri praticanti di Gesù».[4] L’iceberg dell’appartenenza ecclesiale è molto più esteso di quello che appare in superficie e la sua stabilità dipende anche da quel sommerso che spesso non viene preso in considerazione. Notoriamente la pastorale ordinaria non riesce a intercettare tutte le sfaccettature credenti e la domanda che sorge è se per «pastorale missionaria» si possa intendere la capacità di raggiungere e accogliere le modalità del credere non immediatamente affiliate alla comunità in quanto tale. L’impostazione pastorale ereditata dal concilio di Trento – e ancora per buona parte vigente – pone la parrocchia territoriale al centro, con le attività catechetiche e sacramentali confermative di una identità cristiana cattolica ampiamente diffusa e assodata. La conservazione riguardava anche l’istituzione ecclesiale stessa da preservare e edificare. Nel tempo, la presenza ecclesiale si allarga negli spazi territoriali, intuendo che quelli geografici sono solo un elemento qualificante l’appartenenza, coagulante naturale che la mobilità e la pluriappartenza sociale hanno scardinato e reso meno identificativi. La prospettiva della edificazione della chiesa in un luogo si accompagna così alla considerazione che la pastorale non è fine a se stessa ma protesa al regno di Dio. Finalità ultima della pastorale oggi è rinvenire i segni della presenza del Regno che anticipa attraverso l’azione dello Spirito ogni azione umana. La comunità parrocchiale si fa strumento di ricerca e di accoglienza di un seme già gettato per sostenerne lo sviluppo. È secondo questa logica evangelica che possiamo e dobbiamo oggi intendere l’opera di evangelizzazione secondo uno stile missionario.
Luoghi e stili missionari
Partendo dall’affermazione di Evangelii gaudium che «la parrocchia non è una struttura caduca» (n. 28), ci sono degli elementi che costituiscono ancora dei punti di forza per la sua missione.
3.1. Un primo elemento che avvantaggia la postura parrocchiale in questi tempi di crisi ecclesiale e di credibilità è la funzione istitutiva in ordine al diventare cristiani che le appartiene da sempre. Nessuna «tessera» è richiesta per essere iscritti nell’ambito ecclesiale se non il sacramento del battesimo. Soglia minima da varcare, ma nella gratuità del dono e senza classificazioni. Ogni altra realtà ecclesiale – associazione, movimento, gruppo – richiede una adesione formale e continuativa. La porta della chiesa rimane aperta a tutti. Non pregiudica l’accesso l’essere incostanti, dubbiosi, opportunisti… Lo stile che ha caratterizzato l’azione evangelizzatrice di Gesù è stata una accoglienza aperta e senza pregiudiziali verso chi lo accostava per chiedere qualcosa. E normalmente il beneficiato è rinviato alla propria casa, al proprio quotidiano per vivere un discepolato da salvato prima ancora che da testimone.
3.2. Un secondo elemento che ha caratterizzato la potenzialità operativa della comunità parrocchiale è la visibilità funzionale delle sue strutture. Quelle che oggi costituiscono un problema di sostenibilità, nel tempo hanno svolto una funzione religiosa e sociale rilevante, identificativa e formativa. Oratori, centri giovanili, scuole dell’infanzia, confraternite, … e prima ancora cinema, teatri, campi sportivi, sono luoghi espressivi della forma sociale della comunità e della sua funzione altra rispetto al culto. Non come contrapposizione, ma valorizzazione degli elementi antropologici che evidenziano una visione integrale della persona. Ora, molte di queste strutture sono vuote o non più funzionali allo scopo. La plasticità della presenza parrocchiale orienta alla necessaria valorizzare di altri «luoghi» che non sono necessariamente quelli fisici e che sostituiscono idealmente la funzione svolta dalle strutture tradizionali. Una funzione che può essere ricompresa nel concetto di «eterotopia» e che non va perduta a fronte della transizione o dismissione del patrimonio ecclesiastico.
Il termine «eterotopia» è stato coniato dal filosofo francese Michel Foucault per indicare «quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano».[5] Le strutture ecclesiali non sono mai state pensate solamente come «spazi» ma come «luoghi». Luoghi di incontro, luoghi formativi, luoghi di socializzazione, luoghi di collaborazione… In essi i cristiani hanno fatto esperienza di Chiesa e di vangelo valorizzando le dimensioni della gratuità, del dialogo, della ludicità, del servizio. Da tempo altri «spazi» si sono affiancati e hanno sostituito quelli ecclesiali, non ultimi i «virtuali», pur conservando la medesima finalità relazionale e interattiva di quelli classici. Ciò non significa che sia perduta la potenzialità evangelizzatrice delle strutture in capo a una parrocchia, ma vanno integrate con altri luoghi simbolici e capaci di eterotopia, come «luogo altro» del Regno. Pensiamo alla realtà giovanile sempre più assente dalle parrocchie, per la quale alcuni luoghi esterni all’edificio chiesa sono stati punto di incontro e di formazione. È l’auspicio espresso da papa Francesco nel documento finale Christus vivit del sinodo dei giovani del 2018: «La pastorale giovanile ha bisogno di assumere un’altra flessibilità e invitare i giovani ad avvenimenti che ogni tanto offrano loro un luogo dove non solo ricevano una formazione, ma che permetta loro anche di condividere la vita» (Cv 204). «Consiste in una pastorale più ampia e flessibile che stimoli, nei diversi luoghi in cui si muovono concretamente i giovani, quelle guide naturali e quei carismi che lo Spirito Santo ha già seminato tra loro. Si tratta prima di tutto di non porre tanti ostacoli, norme, controlli e inquadramenti obbligatori a quei giovani credenti che sono leader naturali nei quartieri e nei diversi ambienti» (Cv 230). Nella logica del Regno ci sono luoghi nei quali Dio parla; ci sono esperienze che comunicano; ci sono sperimentazioni che catalizzano una serie di significati e sono produttrici di senso: le espressioni artistiche, la pratica sportiva, la salvaguardia dell’ambiente…. Lo possono essere specialmente per i giovani ma sicuramente anche per gli adulti.
L’eterotopia del volontariato e del pellegrinaggio
Possiamo prendere in considerazione un paio di esperienze che, come «luoghi pastorali», risultano essere significativi in ordine a una nuova evangelizzazione e a uno stile missionario. Corrispondono a quella logica di una «chiesa in uscita» che non si accontenta di una «semplice amministrazione», ma avvia una «scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa». Si tratta degli ambiti del volontariato e del pellegrinaggio, prassi non nuove ma che oggi possono esprimere un valore particolare per alcuni elementi che valorizzano le radici cristiane e che sono capaci di trasmissione valoriale. Li prendiamo in considerazione in riferimento alla realtà giovanile, quella che maggiormente risente della secolarizzazione e che denuncia un deficit di considerazione e di accompagnamento credibile da parte del mondo degli adulti.[6]
4.1. Le esperienze di servizio sono sicuramente un «luogo altro», nel quale si verifica una adesione alle istanze evangeliche, perché sono in grado di arricchire in modo significativo la riflessione sulla carità e la vita cristiana. Si possono infatti ricavare molti frutti dal circolo virtuoso che si crea tra «teoria e prassi», tra «gesti e parole», elementi tipici, comunque, non solo di questo ambito ma di tutta l’azione pastorale. L’adolescenza e la giovinezza rappresentano un’età propizia per una proposta di questo tipo: è il tempo della curiosità, della sperimentazione, del movimento, dell’incontro… I giovani possiedono meno blocchi che frenano la voglia di «uscire» ed entrare in relazione. Sensibilizzare i giovani al volontariato non significa puntare a ottenere «manodopera» utile per i progetti della parrocchia o dell’associazione di turno. La sensibilizzazione va messa in atto al fine di sperimentare dei valori antropologici e far maturare delle scelte, non importa in quale contesto si realizzeranno. Il volontariato è profetico perché manifesta la forza della gratuità in un mondo dove tutto ha un prezzo; supera la logica dell’avere per accentuare quella del servizio e del dono di sé; è occasione propizia per riflettere, porsi domande, favorire lo scambio; si presenta tempo favorevole per riavvicinare giovani e adulti oltre le differenze generazionali. Affermava il cardinale Martini che «il volontariato in definitiva è scelta, la scelta di chi ode il grido degli oppressi e dovunque si realizzi esso porta la carica profetica di ogni denuncia dell’ingiustizia, di ogni miseria, dei condizionamenti, dell’inumanità di tante strutture e di tanti uomini».[7] Al valore umano si aggiunge anche l’intrinseco valore ecclesiale: esso rientra infatti nell’ambito più ampio della carità, che comprende anche tutte quelle attività svolte dalle persone in maniera informale, senza fare necessariamente riferimento a un’organizzazione. Il servizio è un atteggiamento essenziale della carità, dimensione fondamentale della vita cristiana il cui significato è molto più ampio, come affermava papa Benedetto XVI: «Desidero incoraggiare i giovani a scoprire nel lavoro di volontariato un modo per accrescere il proprio amore oblativo che dona alla vita il suo significato più profondo. I giovani agiscono prontamente alla vocazione di amore. Aiutiamoli ad ascoltare Cristo che fa udire la sua chiamata nel loro cuore e li attrae a sé. Non dobbiamo avere paura di presentare loro una sfida radicale che cambia la vita. […] È nel dono di sé che viviamo la vita in tutta la sua pienezza».[8]
4.2. Uno dei fenomeni in crescita in questi ultimi anni è l’esperienza del camminare, attività salutare, occupazione nel tempo libero, bisogno di uscire. Il tema del cammino coinvolge anche la riscoperta e la valorizzazione di antiche vie, quelle percorse da viandanti e pellegrini. L’attenzione per la natura, la valorizzazione dei territori, l’esperienza del «movimento lento» coinvolgono migliaia di persone, in pellegrinaggi a piedi o in bicicletta sulle antiche vie che portavano ad limina Petri (via francigena, Romea strata…), alla tomba dei santi (Santiago di Compostella, Assisi, Subiaco…) o in Terra santa. Christus vivit ne prende atto: «Le diverse manifestazioni della pietà popolare, specialmente i pellegrinaggi, attirano giovani che non si inseriscono facilmente nelle strutture ecclesiali, e sono un’espressione concreta della fiducia in Dio» (Cv 238). Quale la valenza del pellegrinaggio (in senso largo, intendendo forme diverse di viaggio/esperienze a carattere spirituale/religioso)? Il pellegrinaggio religioso nell’immediato sembra segnalare una ritrosia verso le forme istituzionali della espressione di fede, verso la ritualità standardizzata del culto e della preghiera, della formazione catechistica. Una apatia che si allarga anche nei confronti della chiesa (parrocchia, associazione, gruppo) come luogo emotivamente poco coinvolgente. Il pellegrinaggio è sia un fenomeno della religiosità popolare, sia un atto ufficiale e pubblico di una chiesa; è un evento privato e un fatto istituzionale. Esso accompagna tutte le tradizioni religiose e resiste anche in piena secolarizzazione. Anzi, sembra connotare «la religiosità del cambiamento», che ha perso la memoria delle sue origini. Mantiene le connotazioni periferiche rispetto al tempo e allo spazio, ma non è più praticato da un popolo bensì da individui alla cerca di spiritualità. Lo caratterizza, quindi, una certa ambivalenza che segnala la «progressiva scomparsa del cosiddetto praticante» e la nascita di due figure tipiche della religiosità postmoderna: quella «del nomade, del pellegrino, del credente errante, che oltrepassa le appartenenze confessionali e territoriali» e quella del convertito.[9] Non si tratta della messa in crisi della religione tradizionale, ma di un nuovo modo di intendere il religioso, senza il controllo istituzionale delle chiese storiche. Anche l’identità religiosa rischia di essere una operazione di bricolage in cui l’individuo adatta le sue credenze ai dati esperienziali propri, rendendo incerte le appartenenze ecclesiali.[10] La domanda è cosa il pellegrinaggio offra al desiderio di esperienza del giovane e cosa apporti alla aspirazione di vita, dato che per disquisire sulla fede dei giovani non ci si può fermare ai «marcatori di religiosità» cultuali e liturgici. Il fenomeno si configura come eterotopia del sacro, che si affianca alle tradizionali prassi di pellegrinaggio, in forme nuove, meno istituzionalizzate alla ricerca di un inedito che satura. È una finestra aperta su Dio che l’uomo da sempre ha, ma che non riesce mai a dischiudere pienamente per vedere la trascendenza. È il movimento verso una presenza/assenza, il desiderio di avere una esperienza di Dio e l’impossibilità di appropriarsene. Diventa un’espressione realizzata del linguaggio religioso, la verifica dell’esperienza religiosa autentica, alla ricerca di un assoluto a partire da sé stessi. Il centro, la polarità di cui ha bisogno l’anima trova il suo riempimento dove c’è un polo di attrazione.
- a) Dal punto di vista antropologico il pellegrinaggio dice tensione verso una meta e verso l’imprevisto, il non scontato; autorizza il mettersi alla prova per esorcizzare la paura dell’ignoto e dello sconosciuto. In modo simbolico è una rappresentazione della vita: misurarsi con sé stessi e le proprie energie, limiti, paure…; desiderio di incontrare altri, culture diverse, senza un progetto precostituito… È un viaggio fuori di sé (fuori dalla quotidianità) e un viaggio dentro di sé (sguardo su sé stessi).
- b) Dal punto di vista spirituale il luogo a cui si tende richiama un vissuto cristiano, una figura di umanità realizzata, un modello di vita (martiri e santi). È andare alle radici storiche e culturali della proposta cristiana e alla ricerca di una emotività forte e significativa, in forme non istituzionali. Stupisce la presenza dei non praticanti o poco credenti, forse alla ricerca di quel Dio che non hanno trovato nella comunità e nei gruppi. Non le possiamo tout court catalogare tra le esperienze di fede, ma sicuramente tra quelle spirituali. Queste hanno attinenza con la naturale ricerca di senso che attiene alla vita (all’homo viator), al bisogno di affidare la propria vita a Qualcuno e di rimotivare e sostenere il proprio credere (homo peregrinus). «Che bello che i giovani siano “viandanti della fede”, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra!» (Eg 106).
- c) Dal punto di vista teologico segnaliamo solo brevemente gli elementi più profondi che costituiscono le leve sulle quali intraprendere un’azione evangelizzatrice:
- il risuonare del messaggio della risurrezione: la rinascita spirituale a partire dall’incontro con il vivente che trasforma la propria vita;
- l’esperienza della comunione ecclesiale: ritrovare in luoghi diversi il medesimo alfabeto credente che attiva il linguaggio universale della fede;
- il raccordo con la tradizione: la scoperta e l’adesione alle radici e l’accoglienza della ricchezza sapienziale, spirituale e umana dei testimoni della fede;
- l’itinerario pedagogico dei discepoli di Emmaus che fa loro ardere il cuore.
- una prospettiva catecumenale.[11]
La deriva del pellegrinaggio è il turismo religioso che si caratterizza per una religiosità pseudo popolare, cioè emozionale e sganciata da ogni riferimento al vangelo e all’opera di salvezza di Gesù. La prospettiva pastorale non deve sovrapporsi alla esigenza radicale di ricerca, né tantomeno contrapporsi. Al contrario, dovrà proporre e testimoniare un’immagine di Dio evangelica, una promessa di salvezza realizzabile, una esperienza della risurrezione di Gesù.[12] Questo può essere possibile anche con altre proposte ecclesiali più consuete? Come far rivivere le stesse emozioni, come dare risposta alle attese, alle speranze, alla ricerca di senso?
Conclusioni per iniziare
È la vita con le sue esperienze, attese, speranze e fatiche che deve entrare nello stile testimoniale ed evangelizzatore di una parrocchia. Si tratta di intercettare la ricerca di senso delle persone e accompagnare l’esperienza spirituale che in modi differenti cercano ed esprimono. Due passaggi esemplificativi quelli indicati, per dire la possibilità di approdare alla attivazione di un processo di maturazione della fede che porta alla realizzazione piena della dimensione religiosa. La crisi delle forme tradizionali di appartenenza e di partecipazione si accompagna al deficit di linguaggio per dialogare con gli uomini e le donne di oggi. Conosciamo il linguaggio della fede e le esperienze di appartenenza utili a creare identificazione con la comunità cristiana, ma non conosciamo abbastanza il linguaggio antropologico e le esperienze che lo sostengono. Ma il problema più serio e radicale è che non abbiamo più il linguaggio della fede, perché non abbiamo un pensiero sulla fede. Ripetiamo formule, proponiamo modelli di appartenenza e riteniamo di essere gli unici a dire chi è dentro e chi è fuori. Ci manca la capacità di ripensare l’esperienza cristiana in questa cultura, confrontandoci seriamente con la tradizione e le sue ricchezze per la vita. Ci manca il ritenere la fede una esperienza che si attiva nel quotidiano; ritenerla uno stile e non una formula.
5.1. Un’esperienza pastorale si può chiamare spirituale se offre un orizzonte interpretativo e valoriale al vivere. Diventa anche esperienza di fede se giunge ad avere in sé ulteriori quattro tratti qualificanti: la trascendenza come aspirazione a un oltre, l’alterità come consapevolezza che tutto è dono, la sequela come appropriazione valoriale e la relazionalità come dinamica dell’io-Tu. Questi tratti, necessari e interdipendenti, qualificano la proposta formativa di una comunità in chiave evangelizzatrice. Se, come abbiamo sottolineato, il punto decisivo è la realizzazione del regno di Dio, sono i segni che lo contraddistinguono che debbono essere cercati e individuati. È ormai diventata familiare l’espressione «chiesa rabdomante», sottolineatura suggestiva del teologo Theobald: «Esiste un “carisma” multiforme che ci sembra promettente per avviare un rinnovamento pastorale missionario; potremmo chiamarlo “il carisma dei rabdomanti” o degli “identificatori di cercatori di senso”. […] Il desiderio che le muove è di far risuonare concretamente il vangelo di Dio nella vita degli altri. […] e rappresentano forse la “leva” che ci consentirà di passare da una pastorale di riproduzione a una pastorale di missione».[13] L’affermazione di Gesù sulla abbondanza della messe, che passa spesso in secondo piano rispetto alla esiguità degli operai, impegna la chiesa ancora oggi nella sua missione con uno sguardo meno disfattista. Il sentire religioso e l’espressione della adesione a un «oltre» vanno al di là delle forme tradizionali espresse nella comunità parrocchiale. Ciò non significa la fine della sua missione ma la sfida a considerare il proprio stile evangelico e la missione evangelizzatrice. La cifra della «chiesa in uscita» cara a papa Francesco, va letta nella logica del modo di porsi nel contesto sociale, culturale, antropologico del nostro tempo.
5.2. Infine, un elemento significativo che caratterizza la spinta evangelizzatrice oltre la conservazione è la valorizzazione dei passaggi della vita. Da sempre nella chiesa i momenti qualificanti la vita delle persone sono accompagnati da segni sacramentali: nascita, affettività, malattia, assunzione di responsabilità, morte…: sono i crocevia vitali che trovano nei sacramenti un significato religioso. La lenta erosione secolarizzante li spoglia di questo significato. Il settenario sacramentale sembra avere sempre meno rilevanza nell’esistenza. Fatti ed eventi sono letti solo dal punto di vista antropologico e sociale, spesso in modo individuale e fatalistico. Bisogna forse «distinguere meglio la celebrazione di un sacramento da una ritualità aperta e persino proposta a “chiunque” (andando fino in fondo all’interesse che abbiamo nei suoi confronti), ritualità che consisterebbe nel far risuonare corporalmente il vangelo in tale situazione d’apertura, senza presupporre o “esigere” da parte di colui o coloro che si presentano la fede esplicita in Gesù Cristo».[14]
Stiamo forse annacquando le esigenze del vangelo? Abbiamo altresì timore di perdere una identità forte come istituzione? Ma l’urgenza è ridestare l’attenzione alla buona novella perché possa parlare agli uomini e alle donne di oggi, incontrandole là dove si trovano. Il battesimo dei bambini procrastinato, l’iniziazione cristiana che conclude più che iniziare, la rinuncia al matrimonio in chiesa, la scomparsa della confessione… sono elementi oggettivi indicatori di una irrilevanza dei segni nel quotidiano. In una prospettiva missionaria, anche i segni sacramentali richiedono una revisione, non nella importanza, ma nella possibilità di incrociare il vissuto. Identificata come «pastorale kairologica», l’azione ecclesiale si prende cura anzitutto delle persone dove e come si trovano. Le categorie del tempo e dello spazio caratterizzano in modo differente la vita rispetto a un tempo. La relazione tra fede e segno va commisurata alla reale situazione esistenziale. Pensare a un’azione che si dispiega nella forma della proposta senza tenere conto dell’interlocutore, significa fallire in partenza. Serve anzitutto un grande e autentico senso dell’umano capace di relazioni per accogliere da una parte richieste ancora tradizionali pur senza un sostrato credente e dall’altra intercettare la ricerca di soggetti sganciati dal vivere comunitario. La revisione dei Rituali avvenuta in questi anni segnala un primo tentativo di attenzione ai soggetti credenti che chiedono i sacramenti prevedendo forme diverse di celebrazione. Va in questo senso anche la valorizzazione di percorsi catecumenali per ogni richiesta sacramentale e religiosa. La mancanza del costrutto sociale cristiano rende attenti a non dare le cose per scontate e ad affiancare la persona nel cammino che sta compiendo. Si tratta di attivare un «secondo primo annuncio» che ridesta e rimotiva il dono ricevuto che non ha mai o poco avuto modo di essere valorizzato. Il discernimento non va nella logica del «tutto o niente», ma commisurato a una gradualità che non disdegna creatività e apertura.
Tratto da Orientamenti Pastorali n. 9/2023. EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati.
[1] Cf. le rilevazioni statistiche relative al 2022 in Settimananews dell’8 agosto 2023: http://www.settimananews.it/societa/italia-forte-ribasso-pratica-religiosa/
[2] Cf. le note produzioni di G. Ferretti, Essere cristiani oggi. Il «nostro» cristianesimo nel moderno mondo secolare, LDC, Leumann (TO) 2016; Ch. Theobald, Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB, Bologna 2019; D. Hervieu-Leger – J.-L. Schlegel, Vers l’implosion? Entretiens sur le présent et l’avenir du catholicisme, Edition du Seuil, Paris 2022.
[3] Cf. Conferenza episcopale italiana, Le parrocchie missionarie in un mondo che cambia (2004); Francesco, Evangelii gaudium.
[4] V. Le Chevalier, Credenti non praticanti, Qiqajon, Magnano (BI) 2019, pp. 18-19.
[5] M. Foucault, «Eterotopie», in Id. Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3, Feltrinelli, Milano 1988, p. 307.
[6] Cf. Christus vivit, n. 80: «Talora gli adulti non cercano o non riescono a trasmettere i valori fondanti dell’esistenza oppure assumono stili giovanilistici, rovesciando il rapporto tra le generazioni. In questo modo la relazione tra giovani e adulti rischia di rimanere sul piano affettivo, senza toccare la dimensione educativa e culturale».
[7] C.M. Martini, Le età della vita. Una guida dall’alba al tramonto dell’avventura umana, Mondadori, Milano 2010, p. 78.
[8] Benedetto XVI, Intervento sul volontariato all’udienza del Pontificio consiglio Cor Unum, 11 novembre 2011, citato in Caritas italiana, Volontariato scuola di vita alla «cattedra dei poveri». Riflessioni e percorsi di educazione alla gratuità, Dehoniane, Bologna 2012, p. 83.
[9] Cf. B. Salvarani, Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano, Laterza, Roma-Bari, 2023, pp. 39-44.
[10] Cf. R. Tagliaferri, Il cristianesimo «pagano» della religiosità popolare, Messaggero, Padova 2014, pp. 237-249; D. Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito. La religione in movimento, Il Mulino, Bologna 2003, p. 34.
[11] Cf. L. Bressan – P. Carrara (a cura di), La fede cristiana alla prova dei giovani, Glossa, Milano 2018, pp. 108-109.
[12] Cf. P. Asolan, Giona convertito. Paralipomeni di teologia pastorale, Lateran University Press, Città del Vaticano 2013, pp. 137-156.
[13] Theobald, Urgenze pastorali, pp. 239-240.
[14] Ivi, pp. 261-262.