Giacomo Ruggeri – pastoralista
Perché il termine pastorale ha perso di significato? I motivi sono più di uno. Ne sottolineo tre.
Il primo: per decenni il termine pastorale è stato solo sinonimo di pastore, una sola cosa identificata con il parroco, alpha e omega della propria parrocchia. «Non si muove foglia che il parroco non voglia»: frasi come queste erano il mantra di ogni parrocchia, soprattutto di quelle che lo hanno visto al comando per 40-50 anni. Pastorale e pastore erano una sola cosa perché tutto discendeva dal parroco e tutto a lui faceva capo (come progettazione e come condizione). La figura del pastore, in perfetta cornice ovina, era sempre davanti e tutto-tutti dietro. A confermarlo in tale postura era il sentire comune, ciò che rappresentava come istituzione assieme ad altre istituzioni, la forgiatura ricevuta negli anni del seminario, l’esempio di parroci del passato, la richiesta dalla gente del bisogno di una guida forte, sicura e che non deve chiedere mai.
Il secondo: la Chiesa italiana ha costruito il concetto di pastorale facendola coincidere con la progettazione, per numerosi decenni. Termini come: piani pastorali, progetti pastorali, orientamenti pastorali erano verticalizzati dal centro alla periferia, dall’alto al basso. Una forma mentis pastorali e, di conseguenza, una prassi attuativa nelle parrocchie da parte dei parroci che ha avuto il suo lento declino, sino a estinguersi, con l’inizio del pontificato del gesuita Bergoglio, il papa che ha avviato la metamorfosi del paradigma vedere-giudicare-agire: non più monolite indiscusso e diffuso in tutte le salse nella stessa teologia. Questo paradigma ha impattato con la storia e da essa ha visto ricevere un nuovo paradigma: riconoscere-interpretare-discernere. Si dirà: cambia le parole ma la sostanza è la stessa. No, non è così. Il primo decennio di Francesco (2013-2023) è eloquente da sé.
Il terzo: pastorale uguale attività parrocchiali. Sino a ieri (ovvero qualche anno fa) una parrocchia riceveva l’appellativo bella, forte, attiva, attraente perché era capace di organizzare un poliedro di attività da far invidia a qualsiasi amministratore delegato di azienda. Il passa parola tra genitori era: «porto i miei figli in quella parrocchia perché organizza tante attività». Va da sé che si attivavano cortocircuiti a più livelli: al cambio del parroco la gente chiedeva uno simile o più bravo, e il vescovo, da parte sua, verificava dallo scacchiere chi inviare in quella parrocchia, uno capace di mantenere l’affastellato mondo delle aspettative molteplici (del sindaco, del consiglio pastorale, ecc.).
In sintesi: per decenni la teologia ha coniato significati plurimi al concetto di pastorale osservando ciò che proveniva dal vissuto della Chiesa italiana e delle parrocchie. Aver iniziato da tempo uno sguardo a ciò che accedeva in Europa, pastoralmente parlando, avrebbe favorito, e avviato, un ossigenante pensiero. Ma così non è stato, almeno sino ad oggi. Ogni qual volta teologi pastoralisti, e la teologia stessa, hanno cercato di aprire, ed offrire, nuove vie di riflessione per ridefinire e ripensare oggetto e soggetto della pastorale in Italia nella cornice del processo di metamorfosi avviato da Bergoglio, essi sono impattati sul respingente proveniente dai parroci stupiti: «perché cambiare? Cosa ci guadagniamo a lasciare percorsi consolidati con risultati certi per iniziative nuove con esiti ignoti?».
Domanda: andiamo allora verso una metamorfosi del termine pastorale e del servizio dei pastoralisti? Come pastoralista mi interrogo innanzitutto con me stesso e mi domando: se il termine pastorale è legato e relegato a una epoca storico-antropologica di un cristianesimo che si è concluso, che è ininfluente sull’agire quotidiano delle persone, e di conseguenza si è sospinti dalla storia ad andare verso una metamorfosi sia di contenuto e sia in ottica terminologica di pastorale, allora anche il mio servizio di riflessione teologica (e di altri colleghi) è chiamato attivamente dentro tale mutazione non subita ma partecipata? Ritengo di sì. E ancora mi chiedo: se i termini significano qualcosa (per questo sono usati) ha senso continuare ad usare il termine pastorale (centrato sul pastore e sulle attività della parrocchia) reiterando di fatto una prassi che non impatta più nella società, o non sia il caso, invece, di accogliere e recepire le molteplici vie aperte da Francesco in questi primi dieci anni, così da tracciare una teologia che vada oltre i recinti della parrocchia e i confini dettati dal parroco?
La fede cristiana abita dove c’è la persona esprimendola con inedite forme; Dio è in ciascuna persona. La dicotomia «dentro-fuori la Chiesa» che ha segnato non pochi lustri, e che è sottotraccia nel pensare e nell’agire di un certo stile di essere parrocchia (poco incline al sinodale), ha – di fatto – nutrito un pensare e un agire pastorale in linea con il monito di Gesù: «Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito» (Luca 11,52). Francesco sta invertendo questo monito in invito, richiesta, necessità, come a dire: fatevi prossimi al vissuto e alla vita della persona e in ciascuna troverete Dio Padre che sta già abitando in essa con una prossimità, un linguaggio, uno stile, un agire personalizzato. «Non una pastorale in cui siamo noi al centro, ma una pastorale che genera figlie e figli alla vita nuova, che porta l’acqua viva del vangelo nel terreno del cuore umano e del tempo presente» (Francesco, 8 febbraio 2024).
L’interrogativo posto all’inizio di questo paragrafo mi fa consapevole, ovviamente, che la teologia non è solo una questione di quali termini usare, perché posso cambiare parola e continuare nell’agire del «si è fatto sempre così». Però è indubbio che i termini hanno il loro peso, il loro spessore, la loro incisività. Domanda: quale termine, allora, al posto di pastorale? Alcune ipotesi: teologia di comunità; teologia d’ambiente; oppure…
La rubrica si conclude con questo numero.