Dal desiderio alla decisione
Anna Bissi, della Fraternità della Trasfigurazione, psicologa e psicoterapeuta presso il Centro di consultazione della diocesi di Vercelli
In una conferenza tenuta presso il monastero di Bose, lo psicanalista Massimo Recalcati[1] ricorda che l’uso del termine «desiderio» risale al De bello Gallico di Giulio Cesare in riferimento ai desiderantes; così venivano chiamati i soldati che, sopravvissuti alla battaglia, sotto un cielo carico di stelle (sidera) attendevano i compagni ancora impegnati nella lotta. Questa immagine – continua l’autore – contiene le dimensioni fondamentali del desiderio: l’attesa e la veglia; il de privativo, inoltre, mette in risalto la mancanza di una stella, vale a dire di un’indicazione sicura che offra un orientamento certo al proprio cammino. Il termine include dunque un elemento che potremmo definire di «tensione verso»: attendere e vegliare rimandano, infatti, all’immagine dell’essere protesi verso qualcosa; nello stesso tempo il richiamo alla mancanza ricorda che il desiderio «è sempre un’esperienza che strutturalmente costeggia il rischio dello smarrimento, della perdita, del non ritrovarsi più».[2] Tensione e rischio sono dunque due termini caratterizzanti il nostro desiderare; essi, implicitamente, permettono di cogliere qualcosa del mistero dell’uomo: la tensione, infatti, evoca la dimensione trascendente presente all’interno del nostro psichismo, capace di spingere l’essere umano al di là di se stesso nella conoscenza, nella moralità e nell’amore. Il rischio esprime contemporaneamente questa stessa spinta a uscire da se stessi per osare andare al di là del sicuro, del già sperimentato e, nello stesso tempo, mette in risalto la fragilità umana, la possibilità di perdersi nel seguire le proprie aspirazioni e attese. Nella società contemporanea, però, il desiderio – nel suo senso più pieno – pare talvolta in via di estinzione; prova ne è il fatto che il termine stesso ha perso di significato: con un’operazione riduzionista avvenuta senza che ce ne rendessimo conto, il termine è diventato sinonimo di libido, di pulsione a livello puramente sessuale. Quella che – dopo il sessantotto – avrebbe dovuto costituire la liberazione del desiderio si è trasformata nella sua riduzione o eliminazione. La ricerca del godimento, ripetitivo e fine a se stesso, ha così sostituito la tensione verso un bene «altro» cercato e percepito come buono, come significativo per la propria persona.
La risposta all’interrogativo su come mai questo sia accaduto comporta uno studio elaborato e complesso; è tuttavia possibile percorrere qualche pista di riflessione avendo come riferimento i dinamismi profondi presenti nell’interiorità delle persone che, in quanto individui abitati non solo da doti e qualità ma anche dalla mancanza, nel corso della crescita devono fare i conti con la propria fragilità. I primi capitoli del libro della Genesi – testi suggestivi anche sotto il profilo psicologico – ci presentano, attraverso l’immagine del primo uomo modellato come un vaso di fragile creta in cui Dio insuffla qualcosa della propria vita, questo doppio mondo di vulnerabilità e grandezza da cui ogni creatura è abitata. Subito dopo, la tentazione del serpente – oltre a insinuare il sospetto rispetto alle intenzioni e alla bontà di Dio – propone all’uomo il miraggio di una possibile onnipotenza che dovrebbe riscattarlo dalla sua debolezza strutturale. Nello stesso modo – benché con un linguaggio completamente diverso – la psicologia del profondo mette in risalto la necessità di integrare la percezione del proprio limite all’interno di una visione realistica e positiva di se stessi; essa invita a credere al valore personale, senza però negare la propria vulnerabilità. Perché questo si realizzi, però, è necessario riconoscere che la vita non è solo pienezza, soddisfazione del bisogno, realizzazione di sé, ma è anche mancanza, tensione, attesa e veglia, come giustamente mette in risalto la dinamica del desiderio. Siamo dunque abitati da due dinamismi, spesso in contrasto l’uno con l’altro: il bisogno, che tende a cercare un appagamento immediato, a colmare una mancanza, a tappare il buco creato dal «vuoto», dalla non pienezza che ci qualifica; accanto troviamo il desiderio, che sa resistere all’assenza di soddisfazione e si orienta verso qualcosa che supera il sé, verso un bene considerato buono per se stesso e non semplicemente utile per colmare la «voragine» interna. Anche di questa dinamica troviamo testimonianza nei primi capitoli del libro della Genesi: nel racconto della creazione della donna, Dio fa un’affermazione contemporaneamente sconvolgente e fondamentale per comprendere il mistero dell’essere umano: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Con tali parole sembra quasi affermare che – pur essendo Dio – egli non può bastare all’uomo, il quale invece ha bisogno di un aiuto che gli sia simile. Troviamo un’eco di tale verità nelle affermazioni della psicologia evolutiva e nelle scoperte delle neuroscienze: l’uomo è un essere relazionale e l’altro è per lui «l’indispensabile». Quest’uomo, fatto per l’altro, conosce allora il desiderio, la tensione verso un qualcosa che lo trascende, come è ben espresso nello slancio – quasi contemplativo – in cui Adamo dice di Eva: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (Gen 2,23). La mancanza, però, non è sempre facilmente gestibile; la tensione dell’attesa e della veglia è faticosa, frustrante: «il vuoto pesa» – come afferma, con una frase lapidaria e stringente, una psicanalista francese.[3] Il bisogno deve essere riempito, colmato, nell’illusione di trovare la vagheggiata pacificazione. Alla dinamica del desiderio si sostituisce quella della soddisfazione del bisogno, anche qui drammaticamente testimoniata nel libro della Genesi: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò» (Gen 3,6): alla fatica di custodire il desiderio subentra la gratificazione attraverso la voracità, il riempire il vuoto; non a caso il peccato originale è stato descritto attraverso la simbologia del nutrirsi, dell’appagare la propria fame.
Ognuno di noi conosce interiormente questa duplice tensione: innanzitutto quella del bisogno, con le sue dinamiche passive e ripetitive, che provocano assuefazione e introducono in una sorta di circolo vizioso, in cui la persona è resa insaziabile. La gioia del piacere soddisfatto è, infatti, superficiale e momentanea – prima una gioia sperata, subito dopo un sogno – che, illudendosi di eliminare il vuoto, lo crea e apre enormi voragini interiori.[4] Ciò è vero non solo del bisogno fisiologico, ma anche di quello psicologico quale, per esempio, il bisogno dell’altro. Quando la ricerca della sua presenza trova sempre una risposta immediata, la persona non può accedere alle dimensioni più profonde della relazione, quelle in cui l’altro è benvoluto per se stesso, per il valore che ha e non per la funzione assunta nel colmare delle possibili carenze affettive.
Anche il desiderio nasce dalla mancanza, ma la vive in un modo diverso: invece di riempirla, la accoglie e si lascia da essa guidare verso un «oltre», che supera la persona stessa. Desiderare, infatti, è essere abitati da qualcosa che è contemporaneamente molto personale e, nello stesso tempo, ingovernabile, non controllabile; qualcosa che ci sovrasta e ci attraversa. Mentre il bisogno vive un’attrazione a senso unico, dove l’oggetto costituisce un richiamo importante perché percepito come capace di sopperire alla mancanza interiore, di colmare il vuoto, il desiderio instaura una sorta di legame a doppio senso: esso è, infatti, suscitato da una realtà esterna che lo anticipa e si impone al soggetto, esercitando su di lui un fascino. Il desiderio è risposta a un appello, a una chiamata che viene dal di fuori, pur trovando in noi una disponibilità a lasciarsi attirare. Così è della dinamica di ogni vera vocazione: il fascino suscitato da una persona, da una professione, da una passione creativa, l’attrazione che può orientare verso il matrimonio, il sacerdozio, la consacrazione religiosa nascono proprio da questa duplice chiamata di appello e risposta, di influsso esercitato da una realtà esterna e di tensione trascendente vissuta all’interno.
La nostra società tende però ad abolire il desiderio, sostituendolo con il bisogno. Essa vuole eliminare la tensione della mancanza, la fatica dell’attesa, la frustrazione presente nella ricerca, nello scambio relazionale, nell’accoglienza della fragilità per favorire la realizzazione di un Io che si illude di raggiungere l’onnipotenza. Essa, inoltre, mira unicamente a ciò che è immediatamente fruibile, godibile e limita l’orizzonte umano alle gioie che si possono spremere e afferrare nell’attimo fuggente, lasciando da parte le domande di senso, gli interrogativi rispetto al significato del vivere. La crisi economica sopraggiunta – unita all’influsso drammaticamente negativo esercitato dai maestri del sospetto sulle nuove generazioni, che spesso fanno fatica a fidarsi e a sperare – ha ulteriormente rafforzato questo sguardo disilluso e disincantato rispetto al proprio futuro. All’interno di un orizzonte così limitato, quale significato possono avere ancora il desiderare, il lottare e il pensare al tempo che verrà in termini di vocazione? Questo vocabolo, infatti, con l’esperienza a esso connessa, evoca e comporta l’acquisizione di una serie di capacità che attualmente sembrano essere considerate come retaggi del passato a cui crede solo uno sparuto gruppo di giovani sfortunati o ingenui. Il parlare di «vocazione» – anche quando il termine è utilizzato in senso ampio come chiamata a svolgere un’attività, a donarsi in un servizio, a legarsi a una persona o a Dio – comporta la capacità di credere che la vita ha un senso, un orientamento, una direzione. Il termine presuppone, infatti, un sentirsi chiamati, interpellati da qualcosa che viene dall’esterno e crea una sinergia con ciò che ci abita interiormente; proprio da questa sinergia, nasce l’attrazione, il desiderio. Esso è dunque risposta a qualcosa che ci abita nel profondo, ma anche inizio di un percorso in cui è essenziale imparare a concepire il tempo nei termini di un divenire, di una trasformazione e non semplicemente come un istante da assaporare e godere. L’idea di «vocazione», inoltre, esige che la vita sia pensata come una realtà che può acquisire un significato «altro» rispetto alla ricerca del benessere e della realizzazione personale. Questo denota come il desiderio non vada solo riconosciuto, ma anche custodito, alimentato e difeso: difeso da noi stessi, dalla tentazione di scegliere l’immediato, il bisogno, le vie più facili per ridurre le tensioni interiori, ma anche dai condizionamenti di una società che vede in un progetto vocazionale la manifestazione di un’idealità ingenua e superata. Un film divertente ma non superficiale – Se Dio vuole – esprime bene i paradossi della nostra società a tale proposito: un padre, uomo famoso e arrivato, ipotizzando che il figlio sia gay, decide di accogliere il suo «outing» con il massimo di liberalità e benevolenza; quando però scopre che il segreto custodito dal figlio non riguarda la sua identità ma il progetto di entrare in seminario, inizia una lotta spietata contro il sacerdote a cui attribuisce la responsabilità di tale dramma.[5] Il paradosso rivela quanto sia difficile oggi scegliere in modo autonomo il proprio cammino, andare controcorrente, non adattarsi al pensiero dominante e uscire dalla confusione che sembra regnare sovrana in molti ambiti della nostra esperienza.
Il desiderio – oggetto di tentazione all’interno e osteggiato all’esterno – va dunque alimentato, custodito e protetto: il tempo svolge tale funzione difensiva, permettendo così di distinguere fra veri desideri e aspirazioni momentanee e fasulle. Come scrive san Gregorio Magno, infatti: «I santi desideri crescono col protrarsi. Se invece nell’attesa si affievoliscono, è segno che non erano veri desideri».[6] Tale affermazione ci invita a comprendere come i desideri debbano essere oggetto di discernimento; noi, infatti, possiamo scambiare per desiderio qualcosa che in realtà non lo è o che, se lo è, può contenere anche altre motivazioni tra di loro discordanti. Se è vero, infatti, che a differenza del bisogno tendente a colmare, a riempire il vuoto, il desiderio è caratterizzato da una tensione trascendente è altrettanto vero che esso può includere anche altre spinte, orientate verso la gratificazione dei bisogni. In una chiamata alla vita religiosa, per esempio, è possibile reperire motivazioni di tipo diverso: il desiderio profondo di donare tutta la vita al Signore può essere accompagnato – spesso senza che la persona se ne renda conto – dall’aspirazione a realizzare se stessi, ad avere un ruolo importante; la scelta religiosa viene così inconsciamente percepita anche come occasione di successo, di autoaffermazione personale in ambito accademico, pastorale, professionale. Tale motivazione presente all’interno del desiderio non lo invalida necessariamente né lo fa scadere a semplice ricerca di gratificazione psicologica. Essa, tuttavia, mette in risalto la necessità di operare un discernimento, in primo luogo rispetto alla consapevolezza delle proprie motivazioni e poi in merito alla capacità di ordinarle gerarchicamente, facendo in modo che quelle più egocentriche – quali, per esempio, l’aspirazione al successo personale – non prendano il sopravvento ma siano invece subordinate a quelle più trascendenti. La ragazza povera che sposa l’ereditiere di una facoltosa famiglia, trarrà senza dubbio vantaggio dall’uscire dal misero ambiente cui apparteneva; la cosa importante, però, è che essa – pur consapevole del fascino che la ricchezza può esercitare su di lei – sia innamorata del suo principe azzurro e continui ad alimentare tale amore. Lo stesso principio vale per ogni altra forma di vocazione.
Nutrire dei desideri, dunque, significa entrare all’interno di una dinamica di crescita costante, di trasformazione. Come afferma giustamente sant’Agostino: «La nostra vita è una ginnastica del desiderio».[7] «Ginnastica» – in questo caso – potrebbe essere tradotto in termini più concreti con «custodire, alimentare e discernere».
Il discernimento, tuttavia, non costituisce l’ultimo atto nella dinamica del desiderio, ma esige il passaggio alla decisione e all’attuazione. Come afferma giustamente un filosofo: «Il bene» – e dunque anche quello costituito dall’orientamento di una vita – «è sempre concreto». In un tempo dove si tende a prolungare all’infinito l’adolescenza – momento di elaborazione più che di decisione ‒ tale passaggio pare talvolta faticoso e complicato. Esso domanda l’attivazione di dinamiche non solo cognitive e morali – che permettono di comprendere dove si trova il bene per la propria vita – ma anche affettive ed emotive: nessuna vocazione – purché non sia costantemente vissuta in modo difensivo – può resistere all’usura del tempo se non esercita un’attrazione, se la scelta – oltre che buona – non è percepita anche come qualcosa che «piace». Tale «piacere» non equivale naturalmente alla soddisfazione di un bisogno, ma è piuttosto un appello, un fascino che si impone alla persona e la «seduce», per usare l’espressione cara al profeta Geremia (cf. Ger 20,7).
La decisione, inoltre, deve coinvolgere tutta la persona e, di conseguenza, anche la sua volontà. Il discernimento del desiderio, che l’ha resa libera rispetto a eventuali camuffamenti e condizionamenti nel modo di percepire la realtà, la invita anche ad assumersi le proprie responsabilità. In una cultura dove il termine «libero» è spesso interpretato come sinonimo di «spontaneo» la forza esercitata dal desiderio diventa, invece, occasione di maturazione piena: essa mette in moto e armonizza tutti i dinamismi presenti nell’individuo, orientandoli concretamente verso il bene. Decidere, infatti, comporta l’avere una finalità, uno scopo e, nello stesso tempo, integrare, coordinare in modo armonico il mondo delle emozioni con quello dei valori, la dimensione affettiva, cognitiva e volitiva per tendere verso il bene – o il Bene – che è l’oggetto del desiderio. Operare una scelta, inoltre, implica necessariamente anche una rinuncia; proprio per tale motivo nel nostro contesto sociale in cui si aborrisce l’idea di rinunciare a quanto si possiede, prevale la tendenza a procrastinare, a non scegliere, a posporre il momento in cui si definisce il proprio cammino. Tale atteggiamento evita le fatiche e le frustrazioni della rinuncia, ma impedisce alla vita di prendere forma e di orientarsi verso un fine. La dinamica del desiderare, discernere e decidere, invece, favorisce la maturazione dell’Io, che si struttura dando consistenza al proprio vissuto, creando un’armonia interna, incarnando nel tessuto del quotidiano ciò che appare come buono, valido e attraente per dar significato all’esistenza. Il desiderio custodito, valutato e attuato è dunque, in ultima analisi, occasione di crescita personale e stella che guida e orienta il cammino futuro.
(articolo tratto dal dossier “Il mistero della ricerca del cuore umano”, in Orientamenti Pastorali 9/2017, EDB, Bologna 2017. Tutti i diritti riservati)
[1] M. Recalcati, La forza del desiderio, Qiqajon, Bose 2014.
[2] Idem.
[3] C. Ternynck, L’uomo di sabbia. Individualismo e perdita di sé, Vita e Pensiero, Milano 2012, 13.
[4] W. Shakespeare, «Sonetto 129» in Sonetti, Einaudi, Torino 1970, 260. Before, a joy proposed; behind, a dream.
[5] Interessanti sono le immagini che «attraversano» la testa del padre e rivelano il modo in cui oggi si pensa alla Chiesa e alla vocazione religiosa.
[6] Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli, Ufficio delle letture, festa di santa Maria Maddalena.
[7] Agostino, Trattati sulla Prima lettera di Giovanni, Ufficio delle letture, VII settimana del Tempo Ordinario.