Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile «Ferrante Aporti» di Torino
Se c’è una cosa per cui don Bosco è stato amato tantissimo dai ragazzi della Generala, l’attuale Ferrante Aporti, carcere minorile presso il quale, da ben 37 anni, sono cappellano, è proprio per quella sua famosa gita a Stupinigi, gita che ha avuto eco anche sui giornali del tempo. Don Bosco venne chiamato, nella Pasqua del 1855 − aveva conosciuto le carceri nel 1841, dietro la guida di un prete sapiente e santo, don Giuseppe Cafasso −, alla Generala, allora un riformatorio, per predicare e parlare con i ragazzi; ma lui chiese di portarli fuori, una gita con scampagnata. Li portò quindi a Stupinigi, palazzina di caccia dei reali, il posto ideale, ma andare lì significava percorrere 3-4 chilometri, in aperta campagna, un luogo perfetto per la fuga dei ragazzi. Don Bosco contrattò molto con i ragazzi, arrivato finanche all’esagerazione, come faceva lui: disse loro che se non fossero rientrati in carcere ci sarebbe finito lui. I ragazzi gli promisero: «O Roma o morte»; lui, quindi, era certo che non avrebbero la fuga. Forte di questa contrattazione andò dal ministro, Urbano Rattazzi; un buon rapporto, pur su sponde molto diverse; insistette molto su questa gita a Stupinigi, questa scampagnata; il ministro tentò alcuni escamotage per dire no, a cui don Bosco rispose puntualmente. Alla fine la gita si fece, e se la raccontiamo, vuol dire che funzionò, ma metto in risalto alcune prerogative educative insite in questa esperienza: una grande fiducia di don Bosco nei ragazzi, la capacità di starci, perché per una cosa del genere ha dovuto parlarne a lungo − questo lo dico agli animatori: non fate delle proposte belle dall’oggi al domani, fate in modo che i ragazzi le sospirino un po’, come quando da bambino ti promettevano 15-20 giorni prima una gita o un pellegrinaggio in un santuario che distava dieci chilometri, ma ti sembrava una cosa dell’altro mondo −; infine il considerarli importanti, coglierne i bisogni, farne emergere le qualità più belle. È un vero patto educativo, e non un ricatto, quello che don Bosco stipulò con i ragazzi, perché in fondo lui sapeva veramente stare con i giovani, esattamente quello che diventa più difficile per noi oggi. Ci sembra un perdere tempo, abbiamo sempre da fare, da programmare, preparare i power point − che comunque servono − ma forse ci distolgono dalle vere priorità. È la grande intuizione di don Bosco, magistralmente espressa nella lettera da Roma nel 1884: «Che i giovani non solo siano amati ma che essi stessi conoscano di essere amati»; oppure «Che amino ciò che piace ai giovani, e i giovani ameranno ciò che piace ai superiori». E nel bicentenario, con clamore mediatico, − don Bosco buca il video − abbiamo voluto rimettere nella cappellina del Ferrante una statua di don Bosco in legno benedetta dall’arcivescovo. Ci sembrava giusto far tornare a casa, in qualche modo, il santo dei giovani. Insomma, questa esperienza del dentro e del fuori: dentro e fuori per i ragazzi della galera vuol dire molto: dentro vuol dire dietro le sbarre, fuori significa la libertà e, per tutti, è una bella differenza. Dentro e fuori sono il cardine di un progetto che abbiamo avviato nei primi anni ‘80, un progetto volto a migliorare la qualità della vita interna al carcere minorile; a usare la presenza interna per investire sull’esterno del carcere, rapportandosi ai minori reclusi come a cittadini a tutti gli effetti; sollecitare solidarietà e consapevolezza da parte della città, in altri termini – diremmo oggi – farsi città solidale e accogliente. In quegli anni su 80 ragazzi presenti, una decina di loro usciva in lavoro all’esterno, ex articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, grazie anche a un magistrato di sorveglianza intelligente, capace di trovare nelle pieghe del diritto motivazioni coerenti per scelte così innovative.
Cappellano di tutti, e carcere come una parrocchia
Io ci ho sempre creduto, sono e voglio essere il cappellano di tutti. Perché il personale è fatto di giovani e io sono un salesiano, sono mandato e mi sento appieno inviato tra i giovani, per stare con i giovani. Senza essere ambigui, nel senso che stare con tutti non vuol dire coprire tutto, ma vuol dire − come affermava il rettor maggiore don Pasqual Chavez − scegliere chi ha avuto di meno. Questo non significa che gli altri non ci sono, significa soltanto operare scelte di priorità. Quindi cappellano anche degli stranieri e i non cattolici. Sì, e con gli stranieri l’ho davvero sperimentato. Un’altra ondata migratoria forte, prima a livello femminile, si è avuta con la Romania. Ma problemi religiosi pochissimi: o erano cattolici o ortodossi, con una religiosità molto tradizionale, rituale. Una religiosità che non ha ancora incontrato la secolarizzazione, molto devozionista, legata alle immagini, ai segni, ai simboli. L’altra immigrazione forte sono stati i nuclei latino americani, cattolici ferventi. Sono loro che hanno spinto per le celebrazioni eucaristiche e hanno richiesto esplicitamente la messa, con una purezza d’animo che non immaginavo. Sono stati questi ragazzi che, dopo l’inaugurazione della cappella, hanno richiesto una scadenza temporale fissa per la celebrazione dell’eucarestia. È da lì che «mi sono convertito», mi sembrava giusto accogliere una richiesta che credevo e, credo tutt’ora, sincera. Stando in questi posti ci si rende conto che c’è una nota educativa importante: ascoltare quello che dicono i ragazzi, non assecondarli ma ascoltarli, e fare verità con loro. Nessuno dà mai le risposte che servono ai ragazzi; bisogna essere veri con loro, perché altrimenti non credono più a ciò che dici loro. Io non sono un cappellano che dà le pacche sulle spalle, un buonista, esigo molto ma posso dire che in questi anni i ragazzi mi hanno assecondato tanto.
La Chiesa nelle periferie e l’emarginazione
Credo che sia urgente che la pastorale delle nostre diocesi pensi anche ai giovani detenuti come soggetti destinatari. Noi non possiamo relegare questo mondo soltanto agli interventi caritativi, ma dobbiamo fare in modo che ci siano anche per loro interventi di accompagnamento, anche di accompagnamento alla fede. Quando un ragazzo è in carcere ed è rientrato dopo una disavventura e chiede di essere confessato è il vero momento di gioia per un prete, questo perché non c’è bisogno di imporre nulla, i ragazzi sono a conoscenza della mia presenza La domanda da porsi è la seguente: come una comunità cristiana si fa presente in carcere? Ci sono molte parrocchie attive nella realtà dei detenuti, ci sono parroci che vengono a offrire un aiuto per le confessioni, per la celebrazione della Pasqua e del Natale ad esempio, e in questo modo hanno la possibilità di conoscere le loro storie e le loro famiglie, e questo è un elemento importante. La mia idea di coinvolgimento, infatti, non consiste nell’avere tanti volontari, perché non è produttivo, e a volte sfocia in una curiosità morbosa, la volontà di andare a far visita ai carcerati, di vedere quale è la situazione. A queste richieste rispondo che non è uno zoo da visitare. Invece traduco l’idea di andare oltre il volontariato in carcere, con la voglia di lavoro educativo sul territorio: è questa la vera parte importante e fondamentale del volontariato per i carcerati minorenni. È quanto intendo con il partire dalle periferie, con il diluire i colori. Bisogna far capire alla gente quanto afferma Michel Foucault: «Conosciamo tutti l’inconveniente della prigione e come sia pericoloso quando è inutile, tuttavia non vediamo con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione di cui non si saprebbe fare a meno».[1] Siamo ancora fermi al non aver trovato un sistema «sanzionatorio» che contenga il messaggio simbolico della gravità del reato (specie per i fatti di sangue e di violenza sulle persone), che non cancelli troppo in fretta il senso di colpa, ma che, d’altra parte, sia veramente rieducativo.
Dalla premessa biblica nascono allora quattro indicazioni generali.
- Nella colpa è già insita la pena. I peccatori nella Bibbia prendono gradualmente coscienza che, commettendo il reato, si sono autocondannati a vivere al di fuori della famiglia di Dio, a vivere da stranieri. Nella colpa è quindi insita una sconfitta, un fallimento, un’umiliazione e una sofferenza.
- La colpa trasforma la pena in responsabilità: chi ha sbagliato dovrà assumersi come pena responsabilità più gravi e onerose per riguadagnarsi la vita.
- La pena non cancella la dignità dell’uomo, non lo priva dei suoi diritti fondamentali. Nessuno viene sradicato per essere rinchiuso in un luogo irreale e snaturato. Chi ha sbagliato, avendo però negato la paternità di Dio e infranto i rapporti pacifici con il prossimo e con se stesso, dovrà percorrere un cammino di ritorno verso la realtà di partenza, verso il recupero della propria dignità e il rientro nella comunità. Tale cammino di conversione è la vera pena richiesta da Dio per ridonare ai peccatori la remissione della colpa.
- Infine, dalla Bibbia appare che Dio non fissa il colpevole nella colpa identificandolo in essa. Dio, come unico e vero giudice dell’uomo, trasmette a tutti i colpevoli anche la speranza in un futuro migliore, mira alla riabilitazione completa, chiede loro di non ripetere l’errore e di risarcire il male compiuto con gesti positivi di giustizia e di bontà. E se Dio non lo fa perché dovremmo farlo noi?
Ciò significa che dobbiamo tentare strade nuove, come la strada della riconciliazione: non c’è solo il carcere come pena.
Fuori la comunità ecclesiale quale pastorale per i nostri ragazzi?
Quale pastorale per quelli che non vengono ai campi scuola, quelli che stazionano sulle porte dell’oratorio, che rimangono sulla porta con il messaggio abbastanza esplicito di sentire l’oratorio anche casa propria con il diritto d’ingresso? Dobbiamo interrogarci − preti, collaboratori, operatori pastorali – sul livello di conoscenza di quelli che noi sovente, esagerando chiamiamo «i nostri ragazzi», quanto tempo trascorriamo con loro; interrogarci con onestà e verità se stiamo operando un’autentica pedagogia della presenza con i ragazzi. Sovente le loro storie di vita sembrano piatte, normali, ma a volte nascondono stati di disagio. Bisogna, come operatori sociali − perché siamo anche quello − credere fondamentalmente che laddove nascono forme di disagio, quello è il luogo e il territorio su cui bisogna intervenire, affinché ci sia un’azione corale, per estirpare le cause delle divisioni. Altro elemento è il sostegno alle famiglie. Quanti genitori si rivolgono a noi chiedendoci: «Reverendo, dove abbiamo sbagliato?»?[2] Credo che il nostro compito sia quello di sostenere le famiglie, specie quelle che fanno fatica con le loro storie. E penso alle mamme sole – il marito magari se n’è andato – che devono gestire i figli adolescenti, che hanno mille pretese, che vogliono tutto. Adulti che hanno la piena coscienza della loro inadeguatezza educativa, ma non trovano modalità appropriate per intervenire.
«Ho denunciato mio figlio»[3]
Questa è la storia di Ivana, Torino. Ivana ha denunciato suo figlio, 15 anni e mezzo. Alla fine di una lunga e dolorosa serie di tentativi per «evitare che si perdesse, perché si stava perdendo» non ha visto altra strada che chiamare i carabinieri. Lui la picchiava, racconta: chiedeva soldi per comprare droga e se la madre non glieli dava la minacciava con un coltello, la prendeva a calci e pugni. Ivana ha 39 anni, vive alla periferia di Torino, è separata da dieci. Lavora come impiegata. Ha avuto il bambino a 24 anni, mi ha mandato una foto: «Ero così felice, lui così bello. Quando guardo l’album piango pensando alla felicità di ogni madre con un figlio neonato in braccio, e poi 15 anni dopo eccomi a chiedere dove ho sbagliato. E anche adesso mi chiedo con angoscia se ho fatto la cosa giusta − mi dice al telefono − vedo dal balcone i ragazzi giocare per strada e penso che gli ho tolto la libertà, non mi do pace. Non riesco più ad andare neppure a mangiare una pizza con un’amica, se esco e penso che lui è dentro mi sento in colpa perché lui è in carcere. Come si sente una madre che fa queste scelte? Avevo la casa distrutta, rientrava alle sette del mattino. Con la morte nel cuore e nell’anima tutto il giorno mi chiedo: ho fatto bene? Sono una madre non degna di questo nome? Poi penso come vedevo il mio amato figlio, senza nessuno scopo, rabbioso, rovinarsi. Non avevo scelta. Ero sicura che fosse entrato in un giro terribile, che facesse uso di droghe: lo ero anche quando nessuno mi credeva. Il padre con lui sempre indulgente, toccava a me dire no». E chiude: «Ora l’unica speranza è che questo carcere − suo e mio − possa servire. L’unica cosa che mi dà forza è sperare, portandomi dentro un’angoscia, un vuoto incolmabile, un senso di colpa che ogni giorno va gestito; sperare di ritrovare il bambino di quella foto, il mio meraviglioso figlio neonato, e dargli di nuovo la speranza e la fiducia nella vita che vedevo nei suoi grandi occhi bruni. Grazie per aver letto tra queste poche righe il mio dolore». Credo quindi che alla fine, come diceva don Bosco, l’importante è amare i ragazzi, e come si legge sulla cosiddetta lettera dei castighi: «Uno sguardo di carità, una parola di incoraggiamento e con qualche rimprovero. Amarli e accettarli come sono, spendere del tempo con loro, manifestare voglia e piacere di condividere i loro gusti»; questo era il pensiero di don Bosco, che continua così: «Tutti i giovani hanno i loro giorni pericolosi, e voi anche li avete. Guai se non ci studieremo di aiutarli a passarli in fretta e senza rimprovero».[4]
E per chiudere, sempre il santo dei giovani: «Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna se Dio non ce insegna l’arte, e non ce ne mette in mano le chiavi».
(estratto di D. Ricca, “Il dentro diventa fuori”, in 67ª Settimana di Aggiornamento Pastorale del COP, Orientamenti Pastorali 10/2017, EDB, Bologna 2017. Tutti i diritti riservati)
[1] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Nascita della prigione. Einaudi, Torino 1976.
[2] M. Lomunno, op. cit.
[3] C. De Gregorio, La Repubblica, 12 maggio 2017.
[4] G.B. Lemoyne Memorie biografiche di don (del beato… di san) Giovanni Bosco, vol. XVI, 444, 445.