Franca Feliziani Kannheiser
Ogni bambino deve sondare l’immensità e l’infinito. Lasciamo che li chiami come vuole: acqua, fuoco, morte, Dio, mondi, stelle. E in un modo e in un altro deve distribuire la sua curiosità e il suo stupore prima di aver articolato molte risposte consolidate.
I bambini nascono per essere artisti ricchi di inventiva: danno vita a eventi belli e significativi, condividendo con altre persone, a cui sono legati da un rapporto intimo e di affetto, l’immaginazione e le sensazioni derivanti dall’esperienza…
Le prime manifestazioni di arte drammatica e di inventiva musicale e poetica nell’infanzia – attraverso espressioni vocali, gestualità, espressività e postura dell’intero corpo – sono osservabili nei discorsi affettuosi tra un padre e una madre e un bimbo di pochi giorni.[1]
Popa, tre anni, entra con la mamma nello spazio giochi del mio studio ed esplora con lo sguardo le sabbie colorate, i giochi e i pupazzi di peluche. Attenta, sfiora con dita leggere oggetti nuovi e oggetti già visti: ai suoi occhi spalancati tutto è fonte di meraviglia, anche perché tutto si può trasformare, diventare altro. La sabbia diventa un castello, le matite colorate creano il sole e le montagne, il gattino di peluche si trasforma in un folletto dispettoso. Popa, la sua mamma ed io diventiamo personaggi di questo mondo incantato e nuove storie hanno inizio. Spesso sono storie che rispondono a domande profonde, ma anche storie che curano, quando il laborioso sviluppo del bambino incontra qualche ostacolo.
Osservando bambini come Popa e anche più piccoli, ci accorgiamo come la loro mente sia un complesso strumento d’indagine, un radar sensibilissimo e un’inesauribile fucina d’immagini e di pensieri. Il bambino «gioca con la realtà», come ben esprime lo psicanalista per l’Infanzia Fonegy, e compito dell’adulto è rendere questo «gioco» possibile, trasformativo e creativo.
Il bambino scopre e domanda
Il primo approccio del bambino con il mondo non è, ovviamente, concettuale o tantomeno «scientifico», ma sensoriale, intuitivo e globale, improntato allo stupore e alla meraviglia. Il bambino scopre il mondo attraverso il suo corpo: i sensi lo mettono in relazione con l’ambiente e veicolano sensazioni che producono benessere o malessere. Emergono emozioni a volte violente, che hanno bisogno della reverie materna per essere tollerate e decodificate. La mente della madre nutre la mente del bambino; nasce così il pensiero e la capacità di conoscere, riconoscere, ma anche di immaginare e di fantasticare. Tutto questo verrà potenziato dallo sviluppo del linguaggio. Man mano che cresce, il bambino impara a descrivere, classificare, dare un nome ai fenomeni che cadono sotto i suoi occhi: diventa un piccolo scienziato, mai stanco di smontare e rimontare, provare, costruire. Si ampliano anche le sue competenze sociali. Egli entra in contatto con sempre nuove esperienze familiari ed extrafamiliari ed esperimenta la gioia e le difficoltà del vivere insieme. Con lo sviluppo del linguaggio aumenta anche la sua capacità di riflessione, da cui cominciano a emergere le prime domande di senso: sull’origine e il termine della vita, ma soprattutto sulla natura e la tenuta dei legami senza i quali avverte oscuramente di non poter vivere.
«Dove ero prima di essere qui?»; «Quando sono nato, tu c’eri?». E poi il mistero oscuro e inquietante della morte: «Tu, nonno dove andrai quando io sarò grande?»; «Mamma, io non voglio morire!». La riflessione si sposta anche su se stesso «Ma io mamma sono intelligente?». Alcune domande riguardano anche Dio: «Questo lo ha fatto Dio?»; «Che fa Dio tutto il giorno?»; «Dove abita?». Queste domande non nascono dal nulla ma, come ogni forma di pensiero, hanno una matrice relazionale: esse prendono forma nei rapporti che il bambino stabilisce, prima con il corpo della madre, poi con le sue emozioni e i suoi pensieri, nella relazione con la figura paterna ed altre figure parentali. Anche le domande su Dio nascono dal fertile terreno delle relazioni primarie, dense di sensazioni ed emozioni. Ecco perché il pensiero religioso del bambino è concreto, corposo, ricco d’immagini e la sua concezione di Dio è fortemente condizionato dai rapporti con gli adulti di riferimento. Ma anche quando il bambino non esplicita domande dirette su Dio, non significa che nella sua esplorazione della realtà, non faccia esperienza di lui. Non ne conosce ancora il nome, non è ancora in grado di apprendere e di concettualizzare contenuti di fede, ma sta già toccando «l’orlo del suo mantello», quando fa l’esperienza di essere «tenuto», di potersi fidare di se stesso e degli altri, di essere circondato di bellezza, di essere protetto nelle paure e nelle difficoltà. Un bambino sufficientemente amato si apre come un fiore alle cure dell’ambiente e come un fiore che gode della luce del sole senza sapere da dove venga, percepisce la forza di Colui che tutto muove e che più tardi imparerà a conoscere dalle narrazioni, prima della famiglia, e poi della Chiesa.
La riflessione di un teologo tedesco illumina questo aspetto. Eugen Drewermann riporta un colloquio con una mamma: «“Come posso parlare di Dio alla mia bambina, se non credo in lui?”, fu la sua obiezione. “Io non credo”, con ciò intendeva che già da tempo le era diventato estraneo quello che la Chiesa insegnava di Dio. Ma poi raccontò che tutte le sere accompagnava la sua bambina “dentro” la notte. La mamma non vuole che la sua piccola abbia paura, e così ogni sera si siede sul suo lettino e le legge una fiaba, le accarezza la fronte, le dà un bacio e le sussurra all’orecchio: “Sono qui con te!”. Con queste parole vuole rassicurare la bambina che non sarà mai sola, che sarà accompagnata e custodita e che, quindi, può dormire tranquilla. In realtà, questa mamma fa una promessa che, pur con tutte le sue migliori intenzioni, non potrà garantire: anche stanotte potrebbe accaderle qualcosa che potrebbe toglierle la possibilità di stare a fianco della sua creatura. Al tempo stesso, ha ragione di farle questa promessa, perché ogni creatura che viene al mondo ha il diritto di sentirsi protetta. Tra ciò che dovrebbe essere e ciò che potrebbe essere si spalanca, però, uno iato senza fine. A portare questa donna oltre tale iato, c’è un sentimento di fiducia che lei stessa non può giustificare, anzi, per la quale non esiste affatto un fondamento razionale. La mamma promette alla sua bambina qualcosa di assoluto che non può mantenere personalmente, ma verso cui la conducono il suo amore e il suo desiderio di protezione per la piccola e, non da ultimo, per se stessa. Questa mamma, che aveva appena detto di non credere in Dio e di non sapere neppure parlare di lui, in realtà lo comunica e lo annuncia, col suo amore».
Spiritualità e linguaggio
Lo sviluppo del pensiero è fortemente correlato allo sviluppo del linguaggio. Così la ricerca spirituale del bambino si nutre e si esprime attraverso il linguaggio simbolico. Otto Betz, catecheta tedesco scrive: «Impariamo a respirare senza dover andare a scuola, a succhiare il latte dal seno materno senza bisogno di un maestro. E, ben presto, le orecchie imparano ad ascoltare, gli occhi imparano a guardare, le mani ad afferrare… E, dopo appena un anno, si tentano i primi passi e si articolano le prime parole. Anche il simbolismo appartiene a quel mondo che può essere scoperto, anche il simbolo è un linguaggio con il quale il bambino può crescere. Se il modo di parlare delle persone tra cui egli vive é plastico e ricco di immagini simboliche, allora egli impara con grande facilità a esprimersi in immagini e simboli. Se nel corso degli anni successivi potrà ascoltare fiabe e leggende allora le sue immagini interiori si risveglieranno e la sua fantasia inizierà a fiorire».[2] Attraverso il gioco, la narrazione, il contatto sensoriale con la realtà (ascolto- osservo- tocco- gusto- odoro) il bambino prende contatto, non solo con la realtà esterna, ma anche con le energie interiori che zampillano come acqua viva dentro di lui. Citando ancora una volta O. Betz: «Parlando dal punto di vista psicologico, l’uomo deve imparare a conoscere le sue profondità con la loro abbondanza d’immagini. È sempre un viaggio di esplorazione avventurosa, quando si scoprono le proprie zone sconosciute. Questo viaggio di esplorazione è il presupposto per conoscere in modo nuovo anche il mondo esterno…Senza la conoscenza di sé, non è possibile la comprensione del mondo».[3]
Accompagnare il bambino, in modo ludico e stimolante, alla scoperta della dimensione spirituale della realtà, quella dimensione da cui le «cose» traggono senso e spessore e della quale le persone e gli avvenimenti diventano richiamo e presagio, è uno dei grandi compiti dell’educazione religiosa. Riteniamo, infatti, che prima ancora di conoscere le risposte sul senso della vita che, in forme diverse, ogni religione propone, sia necessario favorire nel bambino il bisogno della domanda, la curiosità della ricerca, l’intuizione che dietro i fenomeni, apparentemente quantificabili e misurabili, si nasconda «qualcosa di più». Parlare al bambino di cristianesimo o di qualsiasi altra religione istituzionalizzata, prima di aver stimolato in lui il bisogno della ricerca e della domanda di senso, sarebbe come parlare di colori a un cieco.
Sulle orme dell’infinito
Guardiamo allora più da vicino quali sono le grandi domande che nascono spontaneamente nel bambino come presagio del grande mistero di cui si sente avvolto.
Chi ha fatto tutte queste cose? Perché?
Di fronte al problema dell’origine della vita il bambino, come ampiamente dimostrato da Piaget, mette in atto una modalità d’interpretazione nota come artificialismo. Tutto ciò che esiste è fabbricato da qualcuno. Anche la creazione viene intesa come una sorta di fabbricazione artigianale, per cui il bambino non riesce a capire in che cosa si differenzi l’opera di Dio da quella dell’uomo. Muovendosi su questo livello, appare, dunque, impossibile superare i limiti imposti dalle stesse leggi che regolano il pensiero infantile. L’approccio del bambino piccolo al mondo è, però, prima di tutto contemplativo: egli è affascinato dalla bellezza e dalla maestosità che lo circonda. Proprio questo atteggiamento rende il contatto con la natura un’esperienza spirituale. Significativo a questo riguardo è il ricordo di un adulto riportato da B. Grom: «Dove vivevano i miei nonni fiorivano cespugli di biancospino ai margini di un prato di anemoni blu. Il sabato pomeriggio feci una passeggiata accompagnato dall’amica di mia madre. Quel giorno il cielo era coperto e noi entrammo nel bosco. Improvvisamente giungemmo a un pendio, costellato da centinaia di anemoni blu. Eccitato corsi verso il pendio e vidi, oltre il rosseggiare delle foglie d’autunno, quel “cielo azzurro” disteso ai miei piedi. Danzando di gioia colsi alcuni anemoni. I pistilli bianchi in mezzo ai petali blu mi apparvero come stelle nel firmamento. La sensazione di giubilo che mi avvolse era come un calore benefico; da questo momento seppi, non so come ma con incrollabile certezza, che in questo “azzurro” fondamentalmente tutto è buono, e provai un sentimento di fiducia che non mi abbandonò mai, nemmeno nei momenti più difficili. Insieme a questa esperienza fondamentale ebbi in dono il desiderio di comunicare ad altri un po’ di questa bellezza».[4] L’esperienza della bellezza del mondo si fonde con la percezione della sua bontà e porta il bambino a un’accoglienza fiduciosa della vita: egli non solo si sente accolto e amato, come parte di tutto questo, ma si apre anche al riconoscimento di un valore che supera il proprio corpo e il proprio io e che suscita in lui sentimenti di apprezzamento, di amore, di interesse e di gratitudine. La natura nella sua bellezza e ricchezza inizia ad acquisire carattere di segno: dietro il dono c’è un donatore. È importante ricordare che la questione vitale che pongono le domande sull’origine della vita non è il come, ma il perché, non chi ha fatto il mondo, ma che cosa c’entro io in tutto questo. Qualcuno lo ha voluto per me? Qualcuno mi ha pensato? Nessuna spiegazione scientifica sarebbe in grado di rispondere a questa domanda che è fondamentalmente, domanda di senso. Ciò che il bambino cerca veramente attraverso le indagini sull’origine della sua vita è la conferma di non essere stato gettato ‘per caso’ nell’esistenza, ma di essere stato chiamato alla vita con un gesto d’amore. Quindi, ancora una volta, l’educatore attento sarà colui che indicherà al bambino, nel mistero che avvolge l’origine della nostra vita, i «segni» che rivelano in esso un «Tu» amico dell’uomo. I gesti d’amore del papà e della mamma che lo hanno atteso e accolto, il riconoscimento di cui è fatto oggetto da parte di educatori, parenti e amici, sono le esperienze che renderanno plausibile l’esistenza di un «creatore», cioè di un essere trascendente in cui ogni possibilità e forma di vita trova origine e compimento. In questa sua ricerca, il bambino s’imbatte nella struttura profonda della realtà che è rapporto di relazione e d’interdipendenza. Da qui scaturisce un sentimento di ammirazione per ciò che è altro da lui ma da cui dipende e un senso profondo di gratitudine per quanto può godere senza averlo meritato. Proprio qui la domanda sull’origine delle cose si apre all’esperienza religiosa: non è infatti il riconoscimento di una causa ultima che costituisce la fede nel Dio creatore, ma piuttosto il desiderio di entrare in relazione con colui da cui tutto ha origine. Per questo motivo i racconti biblici della creazione non hanno l’obiettivo di dimostrare attraverso un procedimento scientifico come hanno avuto origine l’Universo e l’uomo, ma piuttosto quello di introdurre nel significato di ciò che esiste. La Bibbia illumina l’oscuro mistero della vita dichiarando che è «buono», anzi «molto buono» (cf. Gen. 1) tutto ciò che esce dalla mano di Dio. Proprio questo messaggio di speranza diventa per il bambino fattore di crescita, perché suscita la sua fiducia nella vita e nelle sue potenzialità e lo incoraggia a prendersi cura del creato.
«Perché si muore?» «E poi dove andiamo?»
Isacco (5 anni): «Il mio papà Gernaldo è morto tre mesi fa». Davide (il fratellino di 4 anni): «Il mio papà Carlo Macco è morto tredici anni fa». Grazie a Dio il papà di entrambi gode di ottima salute! Davide: «Mio nonno è morto, poi è andato in cielo. È morto in guerra, era un guerriero con l’arco e le frecce, le pistole e i fucili. Poi Gesù veloce veloce l’ha preso per un piede e lo ha riportato giù. Ora è a casa e sta un po’ male!». Anita (la mia nipotina di 5 anni): «Mamma, quando sono morta, divento una gallina?». Le domande dei bambini sulla morte sono imprevedibili, acute, spiazzanti. Nella loro apparente stranezza, esse rivelano quale lavorio mentale c’è dietro. Quale curiosità e inquietudine le provocano e come il bambino cerchi di trasformare in immagini le sue paure e i suoi dubbi. Il bambino si accosta alla morte con naturalezza, sente il bisogno di spiegarsela e di parlarne così come accade per tutti gli eventi che esperimenta giorno, dopo giorno, nella sua vita. Anche in questo caso, l’educatore è chiamato a camminare con il bambino, senza forzare i suoi passi, ma anche senza impedire la ricerca. Si forzano i passi del bambino e si violenta la sua sensibilità quando, ad esempio, lo si espone a scene crude e brutali come quelle di cronaca o di alcuni film, partendo dal concetto errato: «È piccolo, non può capire». Si impedisce la sua ricerca quando non si risponde alle sue domande sulla morte e non gli si permette in qualche modo di «prendere congedo» da un animale amato o da una persona cara, nascondendo l’evento della morte dietro parole come: «Non c’è più…è partito…ecc». Il bambino ha bisogno di rendersi conto di ciò che accade nella sua vita ed ha bisogno di rielaborare con calma e pazienza il lutto e la separazione. Per fare questo, gli è indispensabile l’accompagnamento di un adulto competente che sappia ascoltare i suoi sfoghi e i suoi tentativi di spiegazione e che, attraverso storie e racconti, lo aiuti a comprendere che la vita è più potente della morte e che ciò che abbiamo vissuto con le persone care non è perduto ma diventa parte di noi, continua a vivere attraverso noi.
Alla domanda: «C’è una vita oltre la morte?», i bambini rispondono per lo più affermativamente, mediando concetti e immagini soprattutto dall’educazione religiosa, l’unica che si occupa di confrontare il bambino con questa problematica. I bambini parlano dunque di «paradiso», immaginato come luogo materiale dove i morti continuano a vivere in maniera misteriosa, ma decisamente antropomorfica. Invece di cercare (invano!) di rispondere a domande come dov’è il paradiso o come è fatta l’anima, dove si trova ecc, l’educatore si preoccuperà di seguire il bambino nelle sue ricerche, aiutandolo a esplicitare le attese, le speranze, i sentimenti che egli lega a questa o a quella immagine e giungendo infine, insieme a lui alla scoperta che tanti aspetti della nostra vita e di quella del mondo ci sfuggono, sono più grandi di noi, sono un mistero a cui accostarsi con rispetto. Questo atteggiamento di fondo è la base indispensabile per accogliere poi le varie interpretazioni, religiose e non, sulla vita e sulla morte che il bambino conoscerà nel corso del suo iter educativo.
«Mamma, ma io chi sono?»
Tra tutte le domande che il bambino pone, questa racchiude tutte le altre perché riguarda il mistero della propria identità. Nello sguardo della mamma che ha incontrato appena nato, egli ha letto una prima fondamentale risposta. Se in quello sguardo/specchio si è scoperto vivo, riconosciuto, festeggiato, inizierà a sviluppare un sentimento di fiducia in se stesso e nella vita. Crescendo, ricercherà nello sguardo di chi lo circonda la conferma del suo valore. Simon Weil traduce il senso del proprio valore con queste splendide parole: «Dalla prima infanzia fino alla tomba in fondo al cuore di ogni essere umano vi è qualcosa che istantaneamente si aspetta che gli si faccia del bene e non del male. Questo prima di ogni altra cosa è ciò che è sacro in ogni essere umano».[5] Il bambino si aspetta di ricevere il bene dall’ambiente che lo circonda, ecco perché la violenza, l’incuria e l’abuso danneggiano spesso irrimediabilmente il suo vero Sé, quel nucleo sacro della sua identità che va invece custodito e protetto. L’esperienza di potersi fidare e di essere degno di fiducia produrrà un sentimento di vitalità e di gioia che in particolari momenti sfocerà in un senso di gratitudine esplicitamente religiosa. In modo intuitivo, ancora irriflettuto e confuso, egli saprà comprendere che esiste, oltre i suoi genitori e le altre persone, il donatore di ogni bene. Il suo atteggiamento positivo nei confronti della vita, dapprima indefinito e generalizzato, si orienterà verso un assenso religioso alla vita e all’autore di essa.
Desidero concludere questo contributo con le parole di un grande vescovo – mons. Aldo del Monte-, rivolte ad alcuni catechisti della Diocesi di Novara, pochi anni prima della sua morte. È una testimonianza del suo incontro personale con la catechesi, intesa come educazione del cuore. «Dio costruisce un laboratorio di bellezza e di bontà nel nostro cuore. È la bellezza del divino che apre il cuore della gente. Questo è il cuore della catechesi: non lezioni, ma prendere per mano per condurre dentro il cristianesimo senza artificiosità, per riposarsi con Dio, sentirlo amico, sapergli dire di sì, lasciarlo lavorare, far crescere fede, speranza e carità nel concreto della vita, immergersi nell’esperienza di Dio, nella presenza, bontà, dolcezza di Dio, misericordia, paternità. La mente è protesa al vero, ma è il cuore ad aprire le porte».[6]
Franca Feliziani Kannheiser, docente di pedagogia e psicologia applicata ISSR diocesi di Novara, psicoterapeuta a indirizzo psicoanalitico per bambini e adulti
(questo articolo è tratto da Orientamenti Pastorali, 6-2019)
[1] C. Trevarthen, «Valorizzare la creatività dei bambini» in I bambini e l’arte, ed. Junior, Bergamo 2008, 6
[2] O. Betz, I simboli. Per comunicare l’esperienza e la fede, ed. Paoline, Milano, 30.
[3] O. Betz, op.cit, 31.
[4] B. Grom, Religionspaedagogische Psychologie des Kleinkind-, Schul- und Jugendalters, Patmos Verlag, Dusseldorf, 120.
[5] S. Weil, La persona è sacra?, Castevecchi, Firenze 2017, 25.
[6] Mons. Aldo del Monte, S. Salvatore – Miasino (Vb), 17 novembre 2002.