Alessio Albertini
«Molte persone entreranno e usciranno dalla tua vita,
ma soltanto i veri amici lasceranno impronte nel tuo cuore»
Eleanor Roosevelt
«L’amicizia è accompagnare la vita dell’altro». Invece, a volte, «mi sono sentito usato da persone che si sono presentate come amiche e che forse avevo visto una o due volte nella mia vita, e hanno usato questo fatto a loro vantaggio». Così, qualche anno fa, papa Francesco parlava del senso dell’amicizia in un’intervista a un’emittente argentina. «L’amicizia interessata è un’esperienza per la quale passiamo tutti. Amicizia è accompagnare la vita dell’altro a partire da un tacito presupposto. In generale le vere amicizie non si esplicitano, nascono e si coltivano. Al punto che l’altra persona entra nella mia vita come preoccupazione, come buon desiderio, come sana curiosità di sapere come sta lei, la sua famiglia, i suoi figli». «Io stesso», dice il papa, «non ho mai avuto tanti amici, tra virgolette, come ora. Tutti sono amici del papa». Ma «l’amicizia è qualcosa di molto sacro», spiega: «con un amico, che magari non vedi da molto tempo, senti come se fosse stato ieri l’ultimo incontro. Questa è una caratteristica molto umana dell’amicizia». Il tema è ripreso e approfondito nell’esortazione apostolica «Christus vivit»[1] come elemento importante della vita di un giovane. Il papa scrive che, grazie agli amici, il Signore ci aiuta a maturare: la loro presenza al nostro fianco nei momenti difficili è un riflesso dell’affetto del Signore, della sua consolazione e della sua presenza gentile. Avere amici ci insegna ad aprirci, a lasciare il nostro isolamento, a condividere la nostra vita.
Due è meglio di uno
Amicizia è una di quelle parole che tanti usano e che tutti diamo per scontato di sapere cosa sia ma definirla è difficile. Bisogna viverla per rispondere. Basta digitare il vocabolo su Google e appaiono più di 43 milioni di risultati. Un concetto molto chiaro anche nella sapienza antica che, con Aristotele, considerava l’amicizia come «una cosa non soltanto necessaria ma anche bella» dal momento che «nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se fosse provvisto in abbondanza di tutti gli altri beni». L’amicizia ha trovato il suo posto anche nei grandi pensatori contemporanei come Albert Camus, che invitava a «non camminare dietro me, potrei non condurti. Non camminarmi davanti, potrei non seguirti. Cammina soltanto accanto a me e sii mio amico». Anche la musica ha voluto offrire il suo contributo per approfondire il tema: «Ci vorrebbe un amico / per poterti dimenticare / ci vorrebbe un amico per dimenticare il male / ci vorrebbe un amico / qui per sempre al mio fianco / ci vorrebbe un amico nel dolore e nel rimpianto» (Antonello Venditti).
L’amicizia aveva un ruolo fondamentale già nella sapienza biblica, che ha dato istruzioni a suo riguardo: «Due valgono più di uno solo, perché sono ben ricompensati dalle loro fatiche. Infatti, se uno cade, l’altro rialza il suo compagno; ma guai a chi è solo e cade senza avere un altro che lo rialzi» (Sir 4,9-10). Così è successo all’atleta neozelandese Nikki Hamblin che, durante la gara dei 5000 metri alle Olimpiadi di Rio, ha coinvolto in una rovinosa caduta l’americana Abbey D’Agostino. Si rialza, si volta e la vede a terra. Senza esitare va ad aiutare l’avversaria: prima l’aiuta a rialzarsi, poi la incita a proseguire. Si aspettano e poi riprendono a correre sorreggendosi a vicenda: una spalla per alleviare il dolore e un’amica per appoggiare il cuore. Il vero amico si ferma di fronte alla sofferenza dell’altro e affronta con lui ogni difficoltà e problema. Per un amico del genere vale ciò che dice il libro del Siracide: «Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è pegno per il suo valore» (Sir 6,14-15). L’amicizia è guardare, toccare, abbracciare. È immettere nei rapporti umani di questa società, dominata dalla logica del mercato e della competizione, il dinamismo della gratuità e della fiducia. L’amicizia esige un rapporto di piena fiducia e confidenza, dove l’uno sa di poter contare e di potersi fidare completamente dell’altro. È quello che ricorda Tony D’Amato, coach degli Sharks, una squadra di football in crisi di risultati. Nello spogliatoio, prima di affrontare la partita decisiva della stagione, ricorda che nel football è tutta questione di centimetri: «In questa squadra si combatte per un centimetro… ma io non posso obbligarvi a lottare. Dovete guardare il compagno che avete accanto, guardarlo negli occhi, io scommetto che vedrete un uomo determinato a guadagnare terreno con voi, che vi troverete un uomo che si sacrificherà volentieri per questa squadra, consapevole del fatto che quando sarà il momento voi farete lo stesso per lui».
Dove c’è l’amicizia c’è casa
Nell’amicizia si trova un riparo che protegge e lì ci si sente a casa, al sicuro, come protetti dal sole troppo intenso o dal freddo della notte. Nella fatica del vivere e nei conflitti della società è facile sentirsi soli e soltanto nella cerchia degli amici ci si sente veramente a casa. Anche Gesù era solito scendere la valle del Cedron e risalire il monte degli Ulivi per superarlo e raggiungere il piccolo villaggio di Betania dove ritrovarsi con l’amico Lazzaro e le sue sorelle, Marta e Maria. Per lui quel luogo rappresentava una pausa di normalità, una sosta, un refrigerio. Lasciati indietro anche gli apostoli, forse Gesù ritrovava in quella casa di campagna gli odori e le luci di una piccola Nazareth, la sua patria. Forse a Betania, davanti a una focaccia cotta in casa (non esisteva ancora l’happy hour!), Gesù, dimenticata la tensione che provava nella Gerusalemme che uccide i profeti, riusciva ad allontanare il dolore sordo che gli stava crescendo nel cuore vedendo la sua missione duramente contrastata. A Betania Gesù poteva parlare liberamente, sentirsi accolto, svestiva il ruolo di rabbì, abbandonava i panni dell’accusato ritrovando, per qualche momento, il piacere dell’amicizia. Come Gesù anche altri hanno trovato una patria nell’amicizia. Rainer Maria Rilke afferma: «Ciò che chiamo patria si trova, sparso in molti luoghi, nella consapevolezza dell’amicizia». La patria è proprio là dove si trovano gli amici. Lo scrittore svizzero Heinrick Zshokke descrive la stessa esperienza in questo modo: «Chi non ha amici vaga come uno straniero in una terra che non appartiene a nessuno». Nel bellissimo film «Le vite degli altri», quando le Germanie erano due e un muro lungo 46 chilometri attraversava le strade e il cuore dei tedeschi, per i protagonisti schiacciati dall’ideologia l’amicizia diventava lo spazio in cui ritrovarsi con persone affini per vivere la pienezza della propria esistenza. Si rifugiavano nell’amicizia «con il cuore colmo in un mondo vuoto». L’amicizia era il luogo ideale per sentirsi a casa. Quell’esperienza è sentita come vera anche dai giovani del nostro tempo a cui bisogna offrire «luoghi appropriati, che essi possano gestire a loro piacimento e dove possano entrare e uscire liberamente, luoghi che li accolgano e dove possano recarsi spontaneamente con fiducia per incontrare altri giovani sia nei momenti di sofferenza o di noia, sia quando desiderano festeggiare le loro gioie» (218). Proprio nell’anonimato dei nostri tempi c’è bisogno di luoghi dove potersi sentire a casa e creare legami che sanno di nuova patria.
Gli ingredienti dell’amicizia
L’amicizia è qualcosa di sorprendente e gratuito che precede ogni decisione. Essa si offre all’animo umano come un dono che non è conquistato grazie alle proprie qualità e ai propri meriti, ma semplicemente capita. Tutti restano un po’ sorpresi e ammirati di fronte al bene dell’amicizia che si palesa in questa dimensione di eccedenza, di gratuità. Quando una persona sperimenta l’amicizia avverte insieme che la vita è buona, sensata, meritevole di apprezzamento. C’è un’espressione efficace nel libro del Siracide quando paragona l’amicizia al vino: «Che vita è quella di chi non ha vino? Questo fu creato per la gioia degli uomini» (Sir 31,27). Certamente senza vino si può vivere, ma non si può fare festa. L’amico è proprio come il vino per la vita, poiché la rende più briosa, lieta, capace di uno sguardo ricco di speranza: «Vino nuovo, amico nuovo; quando sarà invecchiato, lo berrai con piacere» (Sir 9,10). Questa parola mette in rilievo la costanza e la necessità della prova del tempo. Perché l’amicizia non sia semplicemente in balia dei sentimenti, spesso propensi alla ricerca dell’interesse immediato, è necessario attraversare varie prove, restando fedeli e attenti all’amico. A questo proposito ricorda papa Francesco: «L’amicizia non è una relazione fugace e passeggera, ma stabile, salda, fedele, che matura col passare del tempo. È un rapporto di affetto che ci fa sentire uniti, e nello stesso tempo è un amore generoso che ci porta a cercare il bene dell’amico» (152). Il dovere principale è la fedeltà soprattutto nei momenti difficili, con la quale sta o cade la verità dell’amicizia. Certamente quando le cose vanno bene, quando un’amicizia assicura vantaggi o gratificazioni, non è facile riconoscerne l’autenticità; ma quando l’amico è oggetto di calunnia e testimoniare a suo favore può essere compromettente, oppure quando l’amico è malato e l’avvicinarsi a lui obbliga a guardare in faccia la malattia e la morte, spesso fa paura e accade che gli amici si dileguino. Quando le cose si complicano e la vita si fa difficile allora diventa possibile il discernimento della vera amicizia: «Se vuoi un amico, sceglilo al momento della prova, e non dargli fiducia troppo presto. Uno infatti può esserti amico quando gli fa comodo, ma non lo sarà quando le cose ti vanno male» (Sir 6,7-8). Con la costanza è necessaria anche la lealtà, la sincerità del rapporto. L’amicizia richiede che si sottragga la relazione alla volubilità delle decisioni impulsive, ai risentimenti dovuti alla permalosità, alla simpatia istantanea ma poco durevole e ancor più ai calcoli interessati. L’amicizia si nutre anche di fiducia, rifuggendo da scelte avventate e respingendo ogni insinuazione. Nella crescita, il primo ostacolo è imparare a fidarsi delle persone che ci circondano. Come potrebbe, infatti, una persona rivelare i propri pensieri e sentimenti profondi se temesse di essere rifiutata o tradita? La fiducia e l’amicizia vanno di pari passo quando si crede nella relazione. Ciò significa concedere davvero all’amico quel credito che gli dà la possibilità di parlare, di giustificarsi, perfino di chiedere scusa nel caso riconosca il proprio torto. Per questo la fiducia riconosce un rimedio che aiuta a ricostruire rapporti di amicizia, sempre che si creda ancora nel suo valore: il perdono dell’amico che ha sbagliato. È chiaro pertanto che l’amicizia non può essere confinata nello spontaneismo del sentimento, pur non negando la necessaria componente emotiva e la reciprocità, ma interpella la libertà. L’amicizia chiede l’esercizio della propria libertà, perché solo così diventa amore. Un amore che può regnare tra persone che si stimano e che avvertono la bellezza della preziosità di una certa comunanza di interessi e di ideali esistenziali, pur in una diversità di ambiti di vita.
Contro le contraffazioni dell’amicizia
Non è detto che l’amicizia funzioni e sono molti i pericoli che la minacciano. A volte è necessario distinguere tra il vero amico e i numerosi falsi amici, opportunisti e calcolatori, che si aggirano attorno all’amico con la pretesa di sfruttarlo. Allo stesso modo è bene vegliare su se stessi perché le qualità dell’amicizia richieste al proprio amico facciano parte anche della propria vita così che questa si presenti come un’esperienza autentica. Una sua grave falsificazione è la complicità. È sempre in agguato il pericolo di scambiare per amico colui che è invece connivente con le proprie debolezze, o addirittura complice e fautore. Certamente la tendenza naturale porta a trovare appoggi e conferme alle proprie scelte ma non può esserci vera amicizia senza quella giustizia che si esprime come amore per la verità, che rende gli amici disponibili alla correzione reciproca, anche se può risultare scomoda. Non sempre i rimproveri e le correzioni vengono da un cuore ostile e avverso, anzi l’amicizia autentica è un amore coraggioso e sincero, disposto a tutto, pur di salvaguardare la verità. Correggere un amico non significa far venir meno l’amicizia nei suoi confronti quando sbaglia o nel momento in cui, magari a causa delle vicende della vita, sembra rinunciare agli ideali comuni ma significa rimanergli accanto senza diventarne complici, senza rinunciare alle proprie convinzioni, insieme senza neppure vergognarsi di lui, nella fiduciosa speranza che proprio il bene dell’amicizia potrà aiutarlo a rialzarsi, a riprendersi. Un’altra falsificazione dell’amicizia la possiamo riscontrare nella sensazione (illusoria) che offrono oggi i vari social di essere circondati da amici. Eppure, buona parte dei contatti che abbiamo non possono essere considerati amici ma piuttosto conoscenti, che non hanno necessità di cura. I legami di amicizia hanno bisogno di essere creati e mantenuti, non possono essere confusi con un piacevole intrattenimento, vissuto di tanto in tanto. L’amicizia non è qualcosa che ha a che fare soltanto con la spensieratezza di un’uscita oggi o di una serata al pub, non può considerarsi semplice evasione dalla propria routine e neppure ridursi unicamente a un momento di leggerezza, tanto per ridere e scherzare. Va coltivata. Per fare questo è necessario un tempo di condivisione per vedersi e sentirsi, per vivere esperienze e scambiarsi valori, quel tempo che nelle giornate sembra sempre più mancare alle persone. I social aiutano a non perdersi di vista ma non a condividere qualcosa insieme; si parla solo di quello che si è fatto, di quello che si ha da fare ma non si parla mai di se stessi: il vero nutrimento si trova nell’intimità, nello spazio dove poter esprimere i propri sentimenti e le esperienze personali. Se questo spazio non c’è, i rapporti si inaridiscono; senza la condivisione e il confronto nel recinto dell’affettività e dell’assoluta libertà l’amicizia si arena. Viene a mancare il desiderio di mettersi in gioco e perfino di scontrarsi, di capire il punto di vista dell’altro e di volerlo ascoltare. L’amicizia necessita dell’apertura all’altro con i propri limiti e le proprie debolezze come ricordava Goethe: «Solo a noi poveri, che possediamo poco o nulla, è concesso godere pienamente della gioia dell’amicizia. Non abbiamo altro che noi stessi. Ed è questo io che dobbiamo donare completamente».
Vi ho chiamato amici
Se accettiamo la definizione dell’amicizia che ci dà Timothy Radcliffe[2] descrivendola come «il rischio immenso di lasciarsi guardare dall’altro, in tutta la nostra vulnerabilità, consegnandosi nelle nostre mani», dobbiamo riconoscere che a Gesù spetta, meglio che a nessun altro, la designazione di amico. Ciò che viene descritto nei vangeli non lascia margine a equivoci: Gesù ha avuto amici, l’amicizia è stata una pietra miliare nella sua vita; la si ritrova nei rapporti di fiducia e di solidarietà che egli matura con i suoi discepoli e con le persone che incontra. Anzitutto Giovanni Battista, che si definisce «l’amico dello sposo» (Gv 3,29). Altro rapporto di intenso affetto è quello con Lazzaro e le sue sorelle, Marta e Maria, che comunicano la malattia del fratello con queste parole: «Signore, ecco il tuo amico è malato» (Gv 11,3). Un’altra figura è quella di Simon Pietro, che vuole bene al suo maestro con sincerità e trova il suo vertice nella famosa domanda: «Mi ami tu?» (in altre parole: mi vuoi come amico?) e nella celebre risposta: «Lo sai che ti voglio bene». Sempre nel Vangelo di Giovanni è presente «il discepolo amato», tutto rivolto verso Gesù, con il capo reclinato sul suo petto a indicare un’intimità tutta particolare con il suo Signore, una speciale amicizia. È bene però ricordare anche l’indignazione di coloro che accusavano Gesù di essere amico dei pubblicani e dei peccatori perché condivideva con loro la tavola (Lc 7,34), segnale inequivocabile del suo modo di agire, fuori dal comune. Mentre la cultura religiosa del tempo difende la separazione, Gesù si presenta come un profeta della relazione e dell’amicizia. D’ora in avanti solo la parola «amico» diventerà valida per descrivere qualcuno che segue Gesù: «Non vi chiamo più servi perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). A quel tempo l’essere servi definiva il rapporto dell’uomo con Dio, in piena sudditanza nei confronti del Signore che era chiamato a servire. Gesù, il Dio a servizio degli uomini, con il suo lavare i piedi dei discepoli all’inizio dell’ultima cena si è fatto loro servo affinché quelli che si consideravano servi potessero sentirsi signori (Gv 13,1-15). Gesù non ha bisogno di servi ma di amici e ha fatto vedere loro in cosa consiste l’essenza dell’amicizia: ha fatto conoscere loro tutto quello che ha udito dal Padre; ha condiviso con loro i suoi sentimenti, le sue esperienze, il suo sapere, il suo amore; ha familiarizzato con loro; ha aperto il suo cuore. Gesù non offre semplicemente ai discepoli la sua amicizia ma li rende suoi amici attraverso il suo amore: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Morire per un amico esprime il mistero dell’amicizia tra Gesù e i suoi discepoli e il mistero della morte di Gesù: «Cristo, per amore, ha dato se stesso fino alla fine per salvarti. Le sue braccia aperte sulla croce sono il segno più prezioso di un amico capace di arrivare fino all’estremo» (118). Sulla croce Gesù ha dato la vita per i suoi amici così che anch’essi possano vivere di questo amore e diventare a loro volta suoi amici, legati dall’amore che fluisce in loro e tra di loro: «I discepoli hanno ascoltato la chiamata di Gesù all’amicizia con lui. È stato un invito che non li ha costretti, ma si è proposto delicatamente alla loro libertà» (CV 153) e «la cosa fondamentale è discernere e scoprire che ciò che vuole Gesù dai giovani è la loro amicizia» (CV 250). L’essenza dell’amicizia giunge al suo vero compimento nell’essere amici di Gesù, nel fatto che possiamo parlare con lui come con un amico, che egli ci accompagna lungo il nostro cammino e ci ama di un amore indissolubile, che non abbandona mai: «Con l’amico parliamo, condividiamo le cose più segrete. Con Gesù pure conversiamo. La preghiera è una sfida e un’avventura» (155). Da qui l’invito di papa Francesco a ogni giovane: «Non privare la tua giovinezza di quest’amicizia. Potrai sentirlo al tuo fianco non solo quando preghi. Riconoscerai che cammina con te in ogni momento. Cerca di scoprirlo e vivrai la bella esperienza di saperti sempre accompagnato» (156).
L’amicizia come profezia
L’amicizia con Gesù diventa possibilità di vivere in un modo nuovo anche la relazione con gli amici: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato». La misura dell’amore non è più «me stesso» ma è Gesù stesso, l’orizzonte infinito di Dio. Vuol dire che se diventi capace di amare come ama Gesù allora puoi realizzare il sogno di Dio: «Di fronte a una realtà così piena di violenze, di egoismo, i giovani possono a volte correre il rischio di chiudersi in piccoli gruppi, privandosi così delle sfide della vita in società, di un mondo vasto, stimolante e con tanti bisogni. Sentono di vivere l’amore fraterno, ma forse il loro gruppo è diventato un semplice prolungamento del loro io» (168). L’amicizia deve diventare la manifestazione dell’azione di Dio e la dichiarazione, in azione concreta, di come sarebbe il mondo se i suoi figli e le sue figlie amassero come lui e di come cambierebbe il mondo se tutti si amassero gli uni gli altri. «Propongo ai giovani di andare oltre il gruppo di amici e costruire l’amicizia sociale, cercare il bene comune… gettare ponti, costruire una pace che sia buona per tutti, questo è il miracolo della cultura dell’incontro che i giovani possono avere il coraggio di vivere con passione» (169). Affinché questo avvenga è necessario il riconoscimento che anche l’altro ha la mia stessa dignità, è un uomo come me ed è membro della medesima comunità umana, amata e salvata da Dio. Insieme devo amare per l’amico le stesse cose buone che amo per me e agire in modo tale che anche lui possa godere delle cose buone di cui godo io. L’amicizia in Gesù non è solo un’amicizia di appartenenza, ereditata, ricevuta. È un’amicizia scelta, decisa, riconosciuta e quindi non può che essere offerta anche a tutti gli uomini. Pierre Claverie è un vescovo cattolico che, per la sua opera di dialogo e di incontro con i musulmani, viene assassinato in Algeria nel 1996. Nell’attentato muore anche il suo giovane autista e amico, musulmano. Di famiglia francese, trapiantato in Algeria, cioè un pied noir come vengono definiti i francesi d’Algeria, in gioventù avverte il contrasto tra la mentalità colonialista e la necessità di guardare anche i musulmani come fratelli: «Non eravamo razzisti, soltanto indifferenti, ignoravamo la maggioranza degli abitanti di questo Paese… ho potuto vivere 28 anni in quella che io adesso chiamo una bolla coloniale, senza neanche vedere gli altri… È stata necessaria una guerra perché la bolla scoppiasse». In occasione della sua ordinazione episcopale nella cattedrale di Algeri, il 2 ottobre 1981, avrà queste parole per i suoi amici algerini: «Fratelli e amici algerini devo anche a voi il fatto di essere ciò che sono. Anche voi mi avete accolto e sorretto con la vostra amicizia. Vi devo il fatto di avere scoperto l’Algeria, che oltretutto è il mio paese, ma dove ero vissuto da straniero per tutta la giovinezza. Con voi, imparando l’arabo, ho imparato soprattutto a parlare a capire il linguaggio del cuore, quello dell’amicizia fraterna in cui sono in comunione spirituale le razze e le religioni. Anche in questo caso ho la debolezza di credere che questa amicizia sia più profonda delle nostre differenze, che resiste al tempo, alla distanza e alla separazione. Poiché credo che questa amicizia venga da Dio e conduca a Dio». Alla sua morte, a causa di una bomba collocata nel cortile del vescovado, è l’amico che i suoi fratelli e le sue sorelle algerini piangeranno. Anche lo sport si presenta come un linguaggio di amicizia universale ma non così scontato, soprattutto nella Germania degli anni 30. Eppure, proprio alle olimpiadi di Berlino del 1936, ci fu un uomo che andò oltre le imposizioni e le barriere che il nazismo aveva creato, per contribuire a una delle leggende sportive più grandi di sempre, ma soprattutto a una delle amicizie più vere che lo sport abbia mai fatto nascere. Jesse Owens, nero e americano, vinse l’oro nel salto in lungo, ma ciò non sarebbe stato possibile senza il biondo tedesco Luz Long. Fu proprio lui a suggerire a Owens, a rischio di una clamorosa eliminazione a causa dei primi due salti nulli, di partire più indietro. L’americano seguì il consiglio raggiungendo la finale e vincendo l’oro proprio ai danni di Luz Long, che fu il primo ad abbracciarlo e a complimentarsi con lui. I due atleti proseguirono distanti le loro vite ma continuarono a coltivare un’intensa amicizia, che andava in controtendenza con gli eventi mondiali che contrapponevano i loro due popoli e trovò la sua più valida conferma in quella lettera che Luz spedì dal fronte di guerra poco prima di morire: «Dopo la guerra, va in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra. Tuo fratello Luz».
Alessio Albertini, consulente ecclesiastico del Centro sportivo italiano
(tratto da Orientamenti Pastorali n. 9-2019)
[1] Christus vivit – esortazione apostolica postsinodale di papa Francesco (da ora in poi, con il solo numero del paragrafo).
[2] Teologo domenicano, frate della Provincia d’Inghilterra