Cara parrocchia,
ho letto di te, un poco ti conosco perché da ragazzo ti ho frequentato, ho sentito dire che papa Francesco apprezza le parrocchie italiane per la loro popolarità, capillarità, tenuta del tessuto sociale; io invece sono impelagato tra ferite, solitudini, rabbie, sofferenze in una di quelle che voi da un po’ di tempo chiamate periferie. Ve l’ha suggerito papa Francesco questo nome e so che continua a intimarvi di uscire e di andare nelle periferie. Io un po’ di nostalgia di te ce l’ho, ma non venirmi a costringere a ritornare in chiesa, risparmiami i tuoi predicozzi, soprattutto non metterti in testa di venirmi a salvare. Per ora mi basta scriverti questa lettera, poi si vedrà.
Qui, sulla strada, la vita è grama; ci sono capitato dopo una brutta avventura che la vita ha scagliato contro di me. Non oso, e nemmeno potrei, tornare a casa, perché non ce l’ho più: affetti non ne ho, emozioni tante soprattutto di paura, di scarto, di solitudine; mi piace però stare a pensare, a guardare, a vedere, a fotografare con i miei occhi che sembrano due scanner. E mi resta dentro tutto senza poterlo cancellare mai.
Da qui vedo tante cose che fate, ogni tanto leggo titoloni di giornale, qui su questa panchina, che d’estate è la mia casa, si siedono ragazzotti, neri, bianchi, olivastri appena scappati da un campo per immigrati, altre volte arriva chi non ha lavoro e gira tutto il giorno in cerca di avventure. L’altro giorno si è seduto a farmi un poco di compagnia un ragazzotto appena uscito dal carcere. Finiva la sua prigione a mezzanotte, all’una di notte era già qui, contento di essere libero, con tanta euforia, ma non sapeva che fare il giorno dopo. Mi ha raccontato del suo rodersi per il male che ha fatto, non è capace di perdonarsi niente. La mia storia si mescola a quelle di tutti, non ne posso scartare nessuna. Vedo giovani che si fanno canne e bombe di droga, bar compiacenti, che ne approfittano; la gente lo sa, li schiva e si chiude in casa, ma va a messa tutte le domeniche e ne esce contenta, sorridente. Ecco, a noi manca questa gioia, questo sguardo d’amore, questa amicizia contro la solitudine. Perché non venite anche voi su questa panchina a guardare la vita che passa e che si schianta nello sfruttamento compiacente e nella morte?
Il mio non è un balcone da cui posso stare a guardare, la mia storia viene cambiata a contatto con quella di tutti; è una soglia che non mi permette di badare solo a me stesso, ma sono del tutto impotente. Se abitaste anche voi in qualche modo questa soglia perdereste pregiudizi, idee false, risvegliereste le vostre coscienze, ne fareste nascere decisioni controcorrente di spendere l’esistenza in modo diverso, pieno, dedicato, anche pericoloso magari, potreste stanare forze impensabili da tutti, aprirci a qualcosa che sta oltre come dite sempre voi, perché di Dio spesso sento una grande nostalgia. Non vi aspettiamo per fare selfie, ma per offrirvi il nostro punto di vista che vi farebbe bene, vi aiuterebbe a uscire come vi dice papa Francesco. Allora forse anche la mia vita di scarto potrebbe essere utile a qualcuno.
Ciao vi aspetto, non per consolarmi, ma per volerci bene.
La panchina di fronte