Adriano Fabris
Due, soprattutto, sono le novità che gli sviluppi della rete, e più specificamente quelli delle ICTs, hanno comportato e stanno comportando su di un piano antropologico, incidendo non solo sul modo in cui l’essere umano viene pensato in generale, ma anche, e più precisamente, sul modo in cui è pensato il suo rapporto con Dio. Si tratta, in primo luogo, del fatto che la comunicazione oggi si stia trasformando sempre più da trasmissione di messaggi e di informazioni, in un vero e proprio ambiente di vita. Essa coinvolge più distintamente una serie di ambienti ulteriori e paralleli a quello in cui comunemente ci troviamo a vivere. Si discute di ambienti online, cioè di una realtà virtuale che spesso non è meno reale di quella che sperimentiamo offline. A tali ambienti danno l’accesso apparecchi portatili (computer, smartphone, ecc.) sempre più integrati con il nostro agire quotidiano e sempre più massicciamente capaci d’incidere su di esso.
In secondo luogo, poi, l’altra novità nell’ambito delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è data dal fatto che proprio questi apparecchi stanno acquisendo una sempre maggiore autonomia e agiscono in una maniera spesso indipendente dal nostro diretto controllo. Pensiamo ai sistemi automatizzati del cosiddetto «internet delle cose», che è all’opera ad esempio nei dispositivi in grado di regolare il traffico nelle grandi città o di garantire la sicurezza e il funzionamento di certe abitazioni. Pensiamo al progetto, ormai in avanzata fase di sperimentazione, delle automobili a guida autonoma. In tutti questi casi sono gli apparati tecnologici, e non solo più gli esseri umani, a prendere in certo modo l’iniziativa e a realizzare determinati effetti. Di conseguenza, non siamo più noi coloro che agiscono per mezzo di tali apparati, ma – proprio per il fatto che essi sono in parte fuori dal nostro controllo – con essi ci troviamo a interagire.
Analizziamo un poco più a fondo questi due aspetti. Gli esseri umani – lo sappiamo bene – hanno sempre fatto leva sulla loro capacità comunicativa per intendersi reciprocamente e per creare uno spazio comune nel quale ciascuno, proprio grazie al fatto di potersi esprimere e di poter essere ascoltato, si trova a casa. A questa caratteristica sociale del comunicare si è poi aggiunta, sempre più marcatamente nel corso del Novecento, l’idea che l’atto del comunicare s’identifica con una trasmissione di dati e di informazioni. Considerato in questo modo, si parla di un atto che può essere compiuto in maniera indifferenziata sia da un essere umano che da una macchina. A questa trattazione ingegneristica, che aveva il vantaggio di rendere calcolabili i processi comunicativi, si affiancò nel secondo dopoguerra il progetto di una disciplina, la cibernetica, che considerava tale trasmissione il modo proprio in cui funzionavano tutti gli esseri, naturali o artificiali che fossero, nonché la forma delle loro relazioni.
Tale progetto, a ben vedere, ha trovato piena e concreta realizzazione nel mondo digitale in cui ci troviamo oggi a vivere: sia per come sono costruiti gli apparati tecnologici, sia nel modo in cui essi si collegano fra loro nelle varie reti comunicative, sia, soprattutto, riguardo alla possibilità di reinterpretare il ruolo e la funzione dell’essere umano all’interno di questi processi. La conseguenza sul piano antropologico dell’idea del comunicare come trasmissione di dati è infatti molto significativa. L’essere umano stesso – se i suoi comportamenti vengono intesi semplicemente come procedure e se queste procedure sono caratterizzate da una trasmissione di dati – finisce per essere assimilato a una macchina. I suoi organi finiscono per essere concepiti come pezzi di ricambio, le sue stesse relazioni basta che funzionino, più o meno. Lo stesso rapporto tra uomo e Dio – come mostra in un suo libro Norbert Wiener, il fondatore della cibernetica – è analogo a quello che lega il costruttore di una macchina al suo prodotto, o il programmatore ai suoi programmi. L’essere umano, così, si trasforma in una sorta di Golem: l’entità artificiale miticamente costruita da rabbi Loew nel ghetto di Praga. E questo Golem, a sua volta, sarebbe in grado di creare a sua volta altre entità artificiali, altri Golem.
E tuttavia, con gli sviluppi della rete, il modello per cui la comunicazione s’identificava con un invio di dati e con la loro ricezione viene a essere ulteriormente trasformato. Ci si accorge, infatti, che il comunicare, proprio nel suo carattere di trasmissione, produce un sovrappiù: uno simbolico, relazionale. Si tratta più precisamente del fatto che gli stessi scambi di informazioni hanno un significato per chi ne è coinvolto e possono a loro volta produrre nuovi significati. Le trasmissioni in rete finiscono per creare allora dei veri e propri ambienti, capaci di coinvolgerci appunto perché risultano pregni di significato. In essi abitiamo, attraverso di essi entriamo in contatto gli uni con gli altri, con essi interagiamo. Pensiamo non solo al World wide web, ma soprattutto alla seconda fase dell’internet, quella che è propria delle reti sociali: ai contenuti che immettiamo grazie all’uso di determinate piattaforme e che sono in grado, grazie alle narrazioni in cui sono inseriti, d’incidere sulla nostra mentalità e sulle nostre scelte. E pensiamo ancora all’internet delle cose, cioè a quell’ambiente creato dall’interazione fra apparati tecnologici e al quale ho già accennato.
La comunicazione si trasforma dunque in un ambiente e ne apre sempre di nuovi. Accanto al mondo reale abbiamo la possibilità di vivere in altri mondi che sono al di là della nostra esperienza ordinaria e che chiamiamo, appunto, «virtuali». Essi hanno una loro specifica realtà, una loro attrattiva, un loro potere sulla nostra immaginazione e sui nostri comportamenti. Si tratta certamente di una realtà che è diversa da quella del mondo offline, ma che comunque non è meno reale di essa. Anzi: a volte ci appare addirittura più vera. Almeno fino a quando l’esperienza che possiamo fare di ciò che ci appare in carne e ossa, in tutta la sua durezza, non smentisce quest’impressione.
A tali ambienti danno accesso specifici apparati tecnologici. È appunto in relazione a questi ultimi che emerge il secondo aspetto a cui ho accennato, relativamente alle mutazioni antropologiche operate dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e sul quale voglio ora ritornare. Esso consiste nel fatto che gli apparati tecnologici, proprio perché non sono semplici strumenti tecnici, possono agire con un certo grado di autonomia. E se sono in grado di agire in tal modo, allora con essi noi ci troviamo a dover fare i conti: in altre parole, a dover interagire.
Il mondo dei dispositivi tecnologici, infatti, non è solo composto da strumenti che sono sotto il nostro controllo e che non funzionano se non siamo noi a metterli in movimento: i dispositivi tecnologici, invece, sono programmati per agire a loro volta, e addirittura, in alcuni casi, per «imparare» dalle interazioni con l’ambiente, correggendo i loro errori e realizzando i loro obbiettivi in modi sempre più efficienti. Oggi, insomma, l’azione autonoma non è più solamente una prerogativa di entità naturali, ma anche di certi apparati artificiali. Di conseguenza, mentre nel passato gli esseri umani si trovavano a interagire unicamente con i loro simili, con gli altri esseri viventi e con l’ambiente naturale, o immediatamente o anche facendo uso di mezzi tecnici, ora l’interazione con cui dobbiamo fare i conti è anche, anzi soprattutto, quella con l’agire che è proprio dei dispositivi artificiali.
I problemi che ne derivano sono di grande significato. Vi è, per l’essere umano, l’idea di un incremento della sua potenza, vista la capacità di tali apparati, da noi creati e programmati, d’incidere in maniera sempre più forte sul mondo e sulle relazioni interumane. Ma s’annuncia anche, simmetricamente, un crescente senso d’impotenza, visto che molti dei processi messi in opera dalla tecnologia sfuggono ormai al nostro controllo. Ne consegue un cambiamento strutturale riguardo a quella stessa idea di etica che è stata finora elaborata nella storia del pensiero. Se in precedenza l’etica – cioè il modo in cui, in generale, l’essere umano ha definito i criteri e i principî universali del suo agire e ha motivato le proprie decisioni – concerneva unicamente la nostra attività, esercitata direttamente o con l’ausilio di mezzi da noi dipendenti, è chiaro che nel nuovo scenario, nel quale sono all’opera anche agenti artificiali, una riflessione così concepita non basti più. Siamo dunque giunti alla necessità di approfondire, nell’ambito più circoscritto della nostra trattazione, il modo in cui nella rete e rispetto alla stessa possiamo comportarci eticamente.
La rete, in quanto tale, non è né buona né cattiva. Muoversi in essa, vivere in questo nuovo ambiente, comporta, però, un cambio di paradigma per quanto riguarda la comprensione del nostro agire e delle forme di relazione che possiamo mettere in atto. Su questo hanno insistito da tempo, e con grande lungimiranza, alcuni documenti del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali: soprattutto Etica in internet e La Chiesa e internet, entrambi del 2002. E su ciò hanno dato indicazioni specifiche anche alcuni recenti messaggi per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali, sia di papa Benedetto, sia di papa Francesco: come ad esempio l’ultimo (2019), che mostra la necessità di passare «dalle social network communities alla comunità umana».
Il punto che ora dobbiamo approfondire, però, è quello per cui ad agire, oggi, non sono solamente gli esseri umani, o comunque gli esseri viventi, ma anche alcune entità artificiali. Per prima cosa, in relazione a questo fattore, dobbiamo rilevare che l’azione di queste ultime, allo stato attuale dello sviluppo tecnologico, dipende ancora, per il suo avvio – vale a dire per la progettazione, la costruzione e la programmazione di tali apparati – da un’attività precedente dell’uomo. Siamo noi, in altre parole, che rendiamo possibile tale azione: anche se poi essa può sfuggire al nostro controllo.
Si ottiene, quindi, un aumento di responsabilità per l’essere umano, che è compito dell’etica segnalare e regolamentare. Non si tratta più, infatti, solo di farsi carico delle conseguenze che direttamente dipendono dalle nostre scelte e dalle nostre azioni, nella misura in cui essa è mediata e implementata dall’utilizzo delle tecnologie. Si tratta soprattutto del fatto che possiamo dare l’avvio a processi imprevisti, e in forme fino a oggi sconosciute.
È sempre stato un mito, certo, quello che assegnava all’essere umano un pieno controllo delle conseguenze delle sue azioni. L’intreccio con gli effetti dell’agire altrui, e il derivato emergere di imprevisti o di effetti collaterali, hanno sempre, e di molto, limitato questa pretesa di onnipotenza. Ma oggi, in un contesto in cui gli agenti artificiali giocano un ruolo sempre più importante, la nostra capacità di previsione e di controllo è ulteriormente diminuita, senza che con ciò, tuttavia, risulti diminuita la nostra responsabilità. Questo accade perché siamo noi esseri umani a trovarci pur sempre all’origine – in quanto progettatori, costruttori, programmatori dei dispositivi tecnologici – di quanto i dispositivi tecnologici possono fare, anche se il concreto esercizio di questo fare, e soprattutto le specifiche conseguenze di esso, non dipendono completamente da noi.
Appunto tenendo conto di questi aspetti possiamo definire in maniera più precisa le condizioni e le caratteristiche di un’etica per la civiltà tecnologica. Lo possiamo fare distinguendo, distintamente in relazione alla rete, due livelli dell’azione umana, e quindi due modi in cui l’etica può essere chiamata in causa. Se infatti consideriamo l’ambiente di internet, è possibile distinguere un’etica della rete, da un lato, e un’etica che si occupa di regolamentare i nostri comportamenti nell’ambito della rete stessa, dall’altro. Analizziamo in breve questi due approcci.
L’etica della rete intende studiare le caratteristiche della rete stessa e i modi in cui quest’ambiente comunicativo modifica i nostri comportamenti, aprendo nuovi scenari per le scelte e le valutazioni che dobbiamo compiere. Si tratta di quella stessa analisi che, per certi versi, è stata svolta nelle pagine precedenti. Ora però bisogna essere più concreti e mostrare quali sono le questioni che, per quanto riguarda la comunicazione online, debbono essere urgentemente affrontate su di un piano etico. Posso limitarmi, qui, solo ad alcuni esempi. Ne sceglierò tre. Essi riguardano, nell’ordine, l’esigenza di una giustizia globale; la necessità di favorire un orientamento fra i vari ambienti, reali e virtuali, in cui oggi possiamo muoverci; l’urgenza di confrontarci con i valori, per dir così, «incorporati» nelle strutture e nei programmi che usiamo: ad esempio nei motori di ricerca e nelle piattaforme a cui dobbiamo gran parte delle nostre relazioni sociali.
Per quanto riguarda il primo esempio, è indubbio che oggi viviamo in un’epoca in cui la «fame e sete di giustizia» è sempre meno appagata. Ciò perché alle diseguaglianze provocate dall’agire umano si aggiungono quelle dovute alla disparità di accesso, nelle varie parti del mondo, alle opportunità offerte dalle tecnologie, e soprattutto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Si parla da tempo di «divario digitale» e di «divario culturale». Ci si riferisce, con la prima espressione, al fatto che non a tutti, e non alle stesse condizioni, è concessa la possibilità di connettersi alla rete, dal momento che le infrastrutture e le piattaforme sono nelle mani di pochi soggetti, in molti casi privati. Ciò comporta pesanti ripercussioni sull’accesso alle conoscenze e ai servizi che l’uso delle tecnologie renderebbe possibile. L’espressione «divario culturale» indica, invece, le diseguaglianze di mentalità e di cultura provocate da una carenza di educazione all’uso della rete: intesa sia nell’accezione di quella competenza tecnica che la rete richiede per il suo utilizzo, sia nel senso di una comprensione del significato e delle conseguenze che di essa sono proprie. Ne deriva per l’etica il compito non solo di spingere al superamento di tali differenze, su di un piano sociale e politico, ma soprattutto di motivare a farlo, mostrando che il permanere di esse o, addirittura, un loro aggravio, comporta uno squilibrio nelle relazioni interumane a livello globale: squilibrio di cui tutti, in ultima istanza, finiscono per pagare le ripercussioni.
Il tema, poi, del proliferare, da un punto di vista comunicativo, di vari ambienti nei quali possiamo vivere e fra i quali possiamo muoverci, comporta la necessità di stabilire le condizioni per orientarci fra di essi, per valutarli, ed eventualmente, per rifiutarli. Non è la stessa cosa vivere in un ambiente online piuttosto che nella realtà offline. Non è la stessa cosa ciò che viene offerto da un social network per un gruppo di genitori che hanno i figli nella stessa classe rispetto a quanto è proposto da un sito negazionista. Eppure, possiamo passare senza fatica dall’uno all’altro di tali contesti, indifferentemente. La conclusione è un rischio di confusione, omologazione, di messa sullo stesso piano di ciò che è bene e di ciò che è male. L’etica è chiamata, in tali situazioni, a ristabilire le differenze e a fornire quell’orientamento che ci consente di fare le scelte giuste.
Infine, una questione fondamentale dell’etica della rete è quella che riguarda il nostro modo d’interagire e di confrontarci con la struttura della rete stessa, nelle sue varie articolazioni. Mi riferisco per esempio, come dicevo, al modo in cui sono realizzate le piattaforme, o a come funziona un motore di ricerca. La loro strutturazione è certamente il risultato di un’attività umana, e dunque di essa siamo in grado di conoscere e di ricostruire i meccanismi. Soprattutto siamo capaci di conoscere e ricostruire i principi valoriali che stanno alla base del lavoro di chi ha progettato e realizzato certi programmi.
Di solito essi rispondono al criterio dell’efficienza e dell’utilità. Tuttavia, nel momento in cui usiamo tali prodotti, non sempre pensiamo a ciò che sta alla loro base. Il più delle volte ne accettiamo la logica acriticamente. Finiamo per subordinarci a essi e alle loro procedure, diveniamo schiavi dell’algoritmo e del suo modo di funzionare, rinunciando magari ai nostri principi e ai nostri valori. Ecco perché il recupero di una coscienza etica può aiutarci a essere fedeli alle nostre convinzioni e a utilizzare al meglio le opportunità offerte dalle tecnologie della comunicazione. Altrimenti il rischio è che il nostro atteggiamento nei confronti della rete divenga quello di una «servitù volontaria» (per usare l’espressione di Etienne de la Boëtie).
In ultimo va detto qualcosa riguardo all’etica nella rete, vale a dire al modo in cui possiamo individuare criteri e principi condivisi per quanto riguarda il nostro navigare nel web, l’interagire con altri soggetti, ad esempio, all’interno delle reti sociali, e il confrontarci con le conseguenze di queste interazioni.
Ci sono soprattutto tre modalità in cui si esercita questa forma di etica: l’etichetta, o più precisamente la netiquette; la deontologia, che riguarda tanto i professionisti quanto, più in generale, i fruitori del web; e l’etica propriamente detta, cioè il riferimento a quei principi morali che sono assunti dall’essere umano in quanto tale e che valgono anche per i suoi comportamenti in rete.
Lo stare in etichetta nell’uso del web, ovvero il rispettare la netiquette, è il grado zero di un approccio etico. Riguarda quei comportamenti più o meno formali che devono essere fatti propri per mantenere e consolidare buone relazioni anche online. È il modo in cui si contiene, di norma, la persona educata, ed è perciò che questi modi di agire e queste buone pratiche rimandano al concetto di «etichetta». Nel concreto l’etichetta stabilisce criteri di comportamento perloppiù ovvi. Essi regolano il modo di rivolgersi ai propri interlocutori online, cercano di evitare che le proprie comunicazioni siano considerate moleste, e mirano in generale a un’interazione corretta e rispettosa.
Non sempre, però, questi vincoli formali sono accettati. La rete sembra anzi offrire spazio per una libertà senza limiti. I social network, per esempio, possono dar luogo a esibizioni narcisistiche, al superamento dell’obbligo di dire sempre la verità, alla persecuzione dei soggetti più deboli. Il generico richiamo all’etichetta, dunque non basta. È necessario che s’impongano norme di comportamento ben precise. Ecco ciò che fornisce l’approccio deontologico.
La deontologia concerne i doveri che devono essere rispettati quando si compiono determinate azioni. Più nello specifico si parla di «deontologia professionale» quando questi doveri riguardano certe categorie di professionisti ‒ come i medici, gli avvocati, i giornalisti ‒. Per quanto concerne la rete sono chiamati a rispettare tali doveri non solo coloro che vi operano professionalmente, ma anche quelli che la usano per scopi non professionali. Nel primo caso i doveri da rispettare sono elencati in vari codici: da quello, citandone uno, degli ingegneri elettronici americani (www.ieee.org) a quello stabilito dall’Ordine italiano dei giornalisti nel recente Testo unico, per quanto riguarda la parte relativa alle testate online. Nel secondo caso i principi da non trasgredire sono quelli accolti da chiunque abbia accesso a una piattaforma, e dunque si trovi preliminarmente a sottoscrivere, per usufruire di tali servizi, una sorta di contratto.
La deontologia funziona però solo se vi è la possibilità di far seguire una sanzione alla trasgressione di ciò che è prescritto dal codice. Ma è proprio questo ciò che, nell’ecosistema di internet, non può essere efficacemente garantito. In tale ambiente, infatti, è spesso possibile trasgredire senza esiti negativi, visto che non esiste un’autorità in grado di esercitare un effettivo controllo sui comportamenti di chi lo abita. E anche l’eventuale blocco o cancellazione di contenuti condivisi si rivela spesso inefficace, oltre che non tempestivo, dal momento che il rispetto di certi divieti è demandato al controllo di un programma che agisce automaticamente, e che dunque, con un po’ di creatività, può essere aggirato.
Anche nel caso dell’etica nella rete, dunque, siamo rinviati in ultima analisi ai criteri e ai principi di quel soggetto che nella rete agisce: non già, semplicemente, alla sua buona educazione o a norme spesso poco efficaci, bensì a ciò che ciascuno crede e pensa convintamente. Si tratta del riferimento a quei criteri e principi di fondo che valgono anche al di fuori della rete. Essi, tuttavia, non sono il portato di un’opinione individuale, ma offrono quell’orientamento complessivo che è condivisibile da tutti esseri umani. L’etica, infatti, o individua criteri e concetti universali, oppure si autodistrugge.
A questo proposito ritornano temi che ho già toccato: anzitutto la necessità di risvegliare una motivazione etica anche per i nostri comportamenti all’interno del web, ma si ripropone in particolare il riferimento alla struttura antropologica dell’essere umano: la quale, sia online che offline, è una struttura relazionale. E quindi solo attingendo a questa struttura e riferendosi a essa potremo fondare un’etica universale ed efficace.
Per il cristiano poi, il riferimento teologico – vale a dire quello che si richiama primariamente a una specifica relazione, ovvero quella fra essere umano e Dio – si ripresenta come decisivo anche nei contesti tecnologici. Anzi: uno dei compiti della pastorale del futuro sarà di far comprendere che i principi di comportamento del cristianesimo, primo fra tutti il comandamento dell’amore, valgono e sono motivanti anche nell’ambiente della rete. Dio, non dimentichiamolo, è Signore sia dell’offline che dell’online.
Adriano Fabris, professore ordinario di filosofia morale e di etica della comunicazione all’Università di Pisa
(tratto da Orientamenti Pastorali, 7/8-2019)