Giuseppe Lorizio
Prendo spunto da due notizie, che mi hanno raggiunto mentre mi apprestavo a scrivere questa riflessione. La prima riguarda la pubblicazione dei dati ISTAT circa la denatalità, che si configura come una vera e propria emergenza, poiché, in Italia, su 100 persone che lasciano questa vita, solo 67 vengono messe al mondo. Sintomatica l’eccezione dell’Egitto a questo riguardo, Paese che vive una crisi demografica all’incontrario rispetto all’Occidente. Molto opportunamente Massimo Calvi, su Avvenire del 12 febbraio scorso, ha sottolineato che bisogna rendersi conto del fatto «che l’emergenza non riguarda tanto il fatto che oggi vengono al mondo pochi bambini, ma che ovunque non nascono abbastanza genitori: la fine della famiglia è anche la crisi della capacità di essere per qualcun altro, non solo per se stessi». L’indebolimento della capacità di generare nuove vite, mentre mette in luce la crisi dell’essere adulti oggi, interpella anche la Chiesa, chiamata a interrogarsi sulla sua capacità di generare credenti.
La seconda notizia, mi porta a meditare sul quarantesimo anniversario dell’assassinio da parte delle brigate rosse di Vittorio Bachelet e sulla testimonianza offerta dai suoi figli, in occasione delle esequie: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza togliere nulla alla giustizia, che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri». Ma, sempre in data 12 febbraio, il figlio Giovanni, in una intervista al GR3, dichiarava che il fatto che gli assassini abbiano scontato la pena e siano in libertà, è una vittoria del diritto e in particolare dell’articolo 27 della Costituzione, che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte». La maturità dell’adulto rifugge dal giustizialismo sovranista (spesso garantista solo per sé) e dal risentimento che genera vendetta e morte.
I sintomi di una profonda crisi del mondo adulto sono sotto gli occhi di tutti, anche perché siamo di fronte a una sorta di «terra di mezzo», assediata da un lato dal sempre crescente numero degli anziani e dall’altro da adolescenti e giovani, che fanno sentire la loro voce nelle piazze, in difesa dell’ambiente e della democrazia. Si tratta di fatto di una crisi che si nutre di precarietà, non solo lavorativa, ma strutturale, e mostra una progressiva perdita di credibilità degli adulti/genitori soprattutto nei confronti dei figli. Da un punto di vista semplicemente umano, l’essere adulto si caratterizza per la capacità di assumere delle responsabilità, nelle quali siano coinvolte in pari misura la conoscenza/intelligenza della realtà e la volontà, chiamata a scelte scomode, che i più non sono né disposti, né in grado di porre in essere. La fuga dalla genitorialità è rivelativa dell’assenza di assunzione di responsabilità, forse ancor più della tendenza a non instaurare vincoli stabili e duratori, quale quello che il matrimonio esige.
Nella prospettiva credente, non mancano i richiami della Chiesa, anche nel nostro Paese alla necessità di educare a una fede adulta. Nel documento Comunicare il vangelo in un mondo che cambia (2001), i vescovi ritenevano che la comunità cristiana dovesse essere «coraggiosamente aiutata a maturare una fede adulta, “pensata”, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo» (CVMC, n. 50). Ma, già nel documento base per il rinnovamento della catechesi, di cui ricordiamo i 50 anni (pubblicato nel 1970 e riconsegnato nel 1988), leggevamo: «Gli adulti sono in senso più pieno i destinatari del messaggio cristiano, perché essi possono conoscere meglio la ricchezza della fede, rimasta implicita o non approfondita nell’insegnamento anteriore. Essi, poi, sono gli educatori e i catechisti delle nuove generazioni cristiane. Nel mondo contemporaneo, pluralista e secolarizzato, la Chiesa può dare ragione della sua speranza, in proporzione alla maturità di fede degli adulti» (Rdc, n. 124). Un passaggio della lettera di riconsegna, infatti, recita: «In un tempo di trapasso culturale, la comunità ecclesiale potrà dare ragione della sua fede, in ogni ambito di vita comunitaria e sociale, solo attraverso la presenza missionaria di cristiani maturi, consapevoli del ricchissimo patrimonio di verità di cui sono portatori e della necessità di dare sempre fedele testimonianza alla propria identità cristiana. Anche la catechesi delle nuove generazioni ha assoluto bisogno di riferirsi a modelli adulti e credibili di vita cristiana, se vuole avere presa nel cuore e nell’esistenza dei giovani» (n.12).
I testi rischiano di esprimere improbabili utopie e certamente non sono sufficienti, per quanto suggestivi, perché comunque prodotti a tavolino, a incidere sulla mentalità, sulla cultura e sulla vita della società e della Chiesa. In occasione di uno dei convegni ecclesiali nazionali della Chiesa italiana, un interprete titolava il suo articolo, apparso in un importante quotidiano nazionale: «E il verbo si fece carta!». La consapevolezza dei limiti dei documenti veniva affermata con grande chiarezza dallo stesso documento di base e veniva ribadito nella lettera del 1988: «Resta tuttavia un traguardo da perseguire con decisione l’orientamento fondamentale sotteso a tutto il DB: “Prima sono i catechisti, poi i catechismi, anzi prima ancora le comunità ecclesiali”; perché “come non è concepibile una comunità cristiana senza una buona catechesi, così non è pensabile una buona catechesi, senza la partecipazione dell’intera comunità”» (n. 2).
Vale la pena allora cercare di disegnare l’identikit del credente adulto, in modo da poter orientare la prassi pastorale verso scelte precise e coraggiose. Indicherei tre caratteristiche fondamentali della «fede adulta».
Una fede adulta è una «fede sentita»
Se è vero che si assiste a una deriva emozionale della fede cristiana e dell’esperienza religiosa in genere, bisogna tuttavia anche sottolineare che raramente l’emozione si tramuta in autentico sentimento, nell’orizzonte di quel sentire cum ecclesia, caro a Ignazio di Loyola. Una pagina della Simbolica (1832) del grande teologo della prima generazione della Katholische Tübinger Schule, Johann Adam Möhler mi sembra particolarmente significativa a questo proposito. Prima di riflettere su alcuni passaggi di questo fondamentale testo, mi preme sottolineare, con A. P. Kustermann, come i teologi cattolici di Tubinga avevano piena coscienza di essere e di dover essere, proprio in quanto docenti universitari, «maestri pubblici e non sagrestani di una chiesa». Qui si aprirebbe un importante capitolo sull’essere adulto del teologo, laddove tale stato comporta il non essere più sotto tutela, senza nulla togliere all’ecclesialità del sapere della fede, che è una delle strutture portanti della sua scientificità. Di tutto la Chiesa e il mondo hanno bisogno, tranne che di teologi sacrestani!
Veniamo al testo, in cui si esprime la «fede sentita», che il credente adulto deve far propria: «Il cattolico circonda perciò la Chiesa d’una venerazione, d’un amore e d’una dedizione profonda; l’idea di opporsi a lei e di combatterla ripugna a tutto il suo intimo, alla sua essenza più profonda, e la provocazione di una separazione, che dissolve l’unità, è per lui un delitto, davanti alla cui gravità il suo cuore vacilla e la sua anima trema» (§ 37). Il credente adulto è dunque, in primo luogo, operatore di pace e di unità della Chiesa, non solo non crea divisione e conflitto, ma neppure considera Chiesa il proprio gruppo, o, peggio, ritiene che il gruppo, movimento, associazione, congregazione, istituto… sia la Chiesa, anzi l’unica Chiesa autentica. Ne consegue che il «sentire» non si esprime in primo luogo rispetto a un’appartenenza particolare, ma all’interno della comunità «cattolica», considerata nella sua struttura visibile, territoriale, concreta e universale allo stesso tempo. E qui il «sentire» si accompagna all’«immaginare», per cui essere cattolico è «fantastico»: «La fantasia del cattolico – scrive Möhler – non immagina niente di più bello, e niente risulta più gradevole ai suoi sentimenti dell’idea di una compenetrazione armonica di innumerevoli spiriti, i quali, sparsi in tutta la superficie della terra, liberi in sé e capaci di andare a destra e a sinistra, costituiscono tuttavia – salvaguardando ognuno le proprie peculiarità – una grande associazione fraterna, che favorisce reciprocamente la loro vita e rappresenta un’idea, cioè l’idea della riconciliazione degli uomini con Dio, uomini che appunto per questo si sono riconciliati e sono divenuti una sola cosa anche tra loro (Ef 4,11-16)» (ib.). Il «sentire» del cristiano adulto dunque si rivolge alla Chiesa in sé, non a questo o quel gruppo, a questo o quel prete, a questo o quel papa. Si tratta quindi di sentirsi cattolici, ma dove sono più i cristiani che si sentono tali? L’affievolirsi o la scomparsa del sentirsi cattolici da parte dei fedeli laici richiede che si ponga seriamente la domanda circa le responsabilità del clero (preti e vescovi) nel determinarsi di tale situazione. E non si tratta solo delle punte di iceberg degli scandali sessuali ed economici che affliggono la Chiesa cattolica. Finché i piani pastorali non vengono sottoposti a rigorose verifiche anche in questo senso, resteranno lettera morta.
Papa Francesco spesso insiste sulla necessità del coinvolgimento affettivo nell’atto di fede. Nella catechesi all’udienza generale del 12 febbraio scorso, commentando Mt 5,4, diceva: «Si può amare in maniera fredda? Si può amare per funzione, per dovere? Certamente no. Ci sono degli afflitti da consolare, ma talvolta ci sono pure dei consolati da affliggere, da risvegliare, che hanno un cuore di pietra e hanno disimparato a piangere. C’è pure da risvegliare la gente che non sa commuoversi del dolore altrui». A monte della commozione per il dolore altrui c’è la commozione della fede, in cui è coinvolta in maniera non marginale l’affettività del credente.
Una fede adulta è una «fede pensata»
Una volta suscitata l’emozione, trasformata in sentimento credente e risvegliata la commozione, il diventare adulto credente richiede l’uso dell’intelligenza e della ragione, ovvero l’esercizio del pensiero. Qui si tratta del sapere della fede, ossia della teologia e della necessità di evitare le due forme di clericalismo che la affliggono e dalle quali prendere le distanze per giungere (chissà se alla mia generazione sarà dato di parteciparvi!) a un’autentica laicità della teologia. La prima, direi più ovvia e immediata, forma di clericalismo consiste nel ritenere il sapere teologico riservato a quanti sono chiamati nella Chiesa a esercitare il ministero ordinato o, ma non sempre, vocati alla vita religiosa. In questa prospettiva la teologia viene (come ancora oggi accade) considerata come l’insieme di discipline deputate a fornire l’armamentario concettuale all’esercizio del cosiddetto munus docendi proprio del clero. Al laicato si offrono percorsi che, con dicitura ambigua e a mio avviso del tutto fuorviante, si denominano di «scienze religiose». La seconda forma di clericalismo intende il termine in senso lato e si riferisce alla tentazione di rinchiudere il sapere teologico nelle istituzioni accademiche, isolandolo così dalla vita della Chiesa e del mondo, perpetrando una pericolosa frattura tra sapere teorico ed esercizio pratico, fra la fede pensata e la fede vissuta nella carità pastorale. La teologia chiamata a declericalizzarsi rispetto alla prima forma di clericalismo è interpellata e provocata a riflettere sul proprio carattere autenticamente «scientifico» e non solo in sede preliminare, laddove dicesi scienza una forma del sapere pubblico e strutturato, che sia in grado di esibire il proprio modello interpretativo del reale. Rispetto alla seconda forma di clericalismo, la teologia, pur col proprio imprescindibile radicamento accademico, è chiamata a uscire dal proprio castello culturale per aprirsi alle altre discipline (vedi Veritatis gaudium) e alla città, ovvero al mondo, luoghi in cui esercitare la diaconia che le è propria, quella della verità (vedi Fides et ratio). Nel primo orizzonte è chiamata in causa la dimensione scientifica della teologia, nel secondo l’orizzonte sapienziale, cui deve tendere per non cedere alla sempre incombente tentazione dell’intellettualismo.
Quanto possa nuocere l’esercizio, pur generoso, di una fede non pensata viene alla ribalta nel film di Alice Rohrwacher, Corpo celeste (2011), dove la tredicenne Marta, rientrata a Reggio Calabria dalla Svizzera, si ritrova catapultata in una parrocchia, nella quale dovrà ricevere il sacramento della confermazione, alle prese con una catechista, Santa (interpretata da un’attrice non professionista), che scambia il catechismo per un concorso a quiz o un talk show e propone improbabili canti pop per la liturgia, e un prete, don Mario, vorace carrierista e procacciatore di voti alla politica locale. Interessante notare come il percorso dell’adolescente incroci il suo menarca e che Marta incontrerà il volto autentico del Cristo nelle parole di un anziano prete, don Lorenzo, relegato in una chiesa diroccata. Sarà questo incontro a determinare la critica radicale al parroco e la messa in discussione del suo cattolicesimo convenzionale e tutt’altro che interessato alla fede autentica. Troppo facile liquidare il messaggio di questo lavoro cinematografico, che raggiunge punte poetiche di gran valore, come una pura e semplice parodia del cattolicesimo meridionale e/o calabrese; credo invece che vescovi, preti e catechisti abbiano molto da imparare da questa denuncia e dal suo esito.
La diffidenza dei pastori, ai diversi livelli, verso il sapere della fede, con la conseguente rincorsa a libri facili e fruibili, ma di scarso contenuto speculativo e scientifico, fanno sì che risulti di grande attualità la denuncia che Antonio Rosmini rivolgeva all’insufficiente istruzione del clero, nella II delle sue cinque piaghe (quella della mano destra del crocifisso). Del resto, il Roveretano doveva constatare che «i chierici nostri sono tali, quali sono i nostri fedeli». E, a proposito della loro formazione, aggiungeva: «Certo, solo de’ grandi uomini possono formare degli altri grandi uomini: e questo è appunto un altro pregio dell’educazione antica de’ sacerdoti, che venia condotta dalle mani de’ maggiori uomini che la Chiesa si avesse». Ma quella qui espressa non è solo nostalgia dei tempi antichi e in particolare dell’età patristica. La denuncia, infatti, si carica di sorprendente attualità, allorché osa sostenere: «Furono inventati i Seminarj per provvedere alla decaduta educazione del clero, come furono inventati i catechismi per provvedere alla decaduta istruzione del popolo. Non si ebbe coraggio (e non era sperabile che lo si avesse) di ritornare allo stile antico che il vescovo personalmente formasse il suo popolo e il suo clero: si ritenne la massima di lasciare questi travagli al clero inferiore: pure ne’ vescovi si destò la vigilanza, la disciplina ne guadagnò immensamente, furono riformati i costumi, si vide risplendere uno zelo proprio di quella sfera limitata e in gran parte materiale di attività, dove il clero inferiore da qualche secolo è circoscritto; ma non si trovò più l’arte di dare alla Chiesa de’ grandi uomini (benché Iddio ne desse da sé di quando in quando alla Chiesa), de’ sacerdoti che conoscessero la vastità della loro missione, che riguardassero la Chiesa nella sublime sua università e grandezza, e che apparissero interiormente posseduti, dominati da quel sentimento del Verbo che formava il carattere de’ sacerdoti primitivi; da quel sentimento, che assorbendo tutta l’anima, la toglie al mondo transitorio, la fa vivere nell’eterno, e dalle magioni eterne appunto le insegna a rapire un fuoco che è atto di ardere la terra tutta». La conclusione è davvero sconfortante: «Solo i grandi uomini, lo ripeto, valgono a formare uomini grandi; e per giudicare qual differenza v’abbia fra’ discepoli, basta paragonare insieme i maestri. Ahimè! da una parte stanno gli antichi vescovi, o certo uomini i più insigni della Chiesa, e dall’altra i giovani maestri de’ nostri Seminarj! qual confronto!» (§ 34).
Né manca la denuncia verso le pubblicazioni, facili e insulse, che hanno successo fra il clero e i laici, anche oggi, e sulle quali gli editori cattolici speculano alla grande, abbassando il livello culturale e teologico, che invece i tempi chiedono di tenere più che alto: «Or se a così piccoli uomini si affida l’ammaestramento del clero, non è maraviglia che questi, rimossi gli scritti de’ santi e de’ sapienti, adoperino a testo di loro lezioni de’ piccoli libri, concinnati, come dicono ne’ frontispizj, in uso della gioventù, da testicciuole loro pari. Imperocchè tutto vuole essere proporzionato, tutto si chiama; e un difetto ne produce un altro: e cotesta magrezza e vanezza de’ libri è appunto cagione dell’insufficienza di loro educazione. V’hanno due maniere di libri. Alcuni sono libri classici, solenni, che contengono la sapienza del genere umano, scritti da’ rappresentanti di questa sapienza: libri dove non è nulla d’arbitrario e di sterile, né nel metodo, né nello stile, né nella dottrina: dove non sono registrati solamente de’ veri particolari, in una parola, dell’erudizione; ma sono date le universali verità, le dottrine feconde, salutari, dove l’umanità ha trasfuso se stessa co’ suoi sentimenti, co’ suoi bisogni, colle sue speranze. Vi sono all’incontro degli altri libri minuti e parziali, opere individuali, dove tutto è povero, freddo; dove l’immensa verità non comparisce che minuzzata, e in quella forma, in che una menticina l’ha potuta abbracciare; e dove all’autore spossato nella fatica del partorirla, non è restato vigore d’imprimere al libro altro sentimento che quello del suo travaglio, altra vita che quella di uno che sviene» (§§ 36-37).
Una fede adulta è una «fede vissuta»
Il luogo in cui va vissuta la fede non è la chiesa, tantomeno la parrocchia, il movimento, l’associazione, ma il mondo: la città, la famiglia, il quartiere, il condominio, il paese, il posto di lavoro, il tempo libero. È infatti nel mondo che il cristiano è chiamato a testimoniare la propria fede. Sottolineo solo un aspetto e una delle fondamentali modalità di tale testimonianza. Con particolare riferimento al mondo del lavoro, credo sia oltremodo istruttivo riprendere, tra le altre, la lezione di Vittorio Bachelet, che evocavo all’inizio. La stessa «scelta religiosa» dell’Azione cattolica, di cui fu protagonista, non doveva, né poteva essere interpretata e vissuta come una fuga mundi o un disimpegno sociale e civile, al contrario, veniva invocata per qualificarne il senso e la presenza. In particolare, diventa motivo di riflessione per l’oggi la necessità di interpretare la propria professione e professionalità come luogo in cui santificarsi. E ciò non può essere demandato o delegato a qualche organizzazione ecclesiale particolare, ma deve riguardare tutti i battezzati. A tale luogo di santificazione, va aggiunto l’impegno nella polis, col coinvolgimento diretto nelle sue diverse strutture ed espressioni, perché la res publica non sia in balia soltanto di corrotti e arrivisti, ma veda i credenti esporsi in prima fila, facendo tesoro anche del bagaglio culturale e teologico su cui si sono formati. Né le nostre comunità, i nostri vescovi e il clero possono esimersi dal chiedersi come mai in un Paese in cui, dall’infanzia alla maturità, molti partecipano all’ora di religione, in cui diverse persone ascoltano le omelie (non solo la domenica, ma per esempio in occasioni particolari) o partecipano ad attività di catechesi (specie in occasione dei sacramenti per i loro figli, spesso costretti da preti e catechisti zelanti) si debba registrare un diffuso analfabetismo religioso. Con quali criteri e percorsi formativi si scelgono catechisti e insegnanti di religione? Siamo di fronte a gravi responsabilità, che vescovi e clero non possono ignorare né delegare.
La maturità di una comunità credente si esprime nella sua capacità generativa. In fondo la Chiesa oggi è chiamata a «custodire l’umano» e a «generare la fede». Né può escludere uno di questi due fondamentali suoi compiti. Nel discorso alla curia romana del 21 dicembre 2019, papa Francesco è stato oltremodo chiaro sui binari che dovrà percorrere la riforma della curia: evangelizzazione e promozione umana (diremmo coi termini del Convegno ecclesiale italiano del 1976, restato lettera morta). Ma quella che dovrà essere la riforma delle strutture centrali non può non riguardare le singole comunità ecclesiali. E a proposito della ri-generazione cui è chiamata la madre Chiesa, mi torna spesso in mente una scena particolarmente suggestiva del bel film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone (2012), quando il vecchio prete, interpretato magistralmente da Michael Lonsdale (ma perché a interpellare sono quasi sempre gli anziani presbiteri?) depone sull’altare il piccolo neonato, dato alla luce dalla giovane immigrata. Queste chiese diroccate o da diroccare (con Olmi siamo in Puglia), come quelle trasformate in musei, nelle quali si paga per entrare, ci ripetono, con papa Francesco alla curia, che «Non siamo più nella cristianità, non più», ma forse proprio questa non-più-cristianità può costituire il tempo e lo spazio per il cristianesimo autentico e favorire una fede adulta: sentita, pensata e vissuta.
Giuseppe Lorizio, docente di teologia fondamentale Pontificia Università Lateranense
(tratto da Orientamenti Pastorali, 3/2020 – Edizioni Dehoniane Bologna. Tutti i diritti riservati)