Doriano Locatelli
La nuova traduzione italiana del Messale romano costituisce un’occasione preziosa per riflettere sul senso del libro liturgico. In questo contributo sarà focalizzato il nesso tra libro liturgico e celebrazione, ponendo particolare attenzione al ministero di chi presiede. Nella prima parte dell’articolo saranno enumerati, in termini generali, i principi liturgici che regolano il rapporto tra libro e celebrazione; nella seconda parte – a mo’ di applicazione – si offriranno alcune indicazioni per favorire una significativa ars celebrandi soprattutto per i presbiteri, chiamati ordinariamente a presiedere la santa eucaristia.
Libro liturgico e celebrazione
La tradizione liturgica, ormai da molti secoli, prevede che le celebrazioni siano «regolate» dai rispettivi libri liturgici. In essi troviamo i riti da eseguire, le preghiere da recitare, le rubriche da rispettare. Per qualcuno questo insieme di norme appare un freno alla creatività e lo considerano, nella migliore delle ipotesi, un canovaccio da interpretare. Per altri il libro liturgico non è altro che una somma di leggi da applicare tout court, col rischio però di scivolare in un freddo formalismo. Quale allora il giusto approccio al libro liturgico – e al Messale in particolare – per evitare gli estremi dell’anarchia o della rigidità? Di seguito, consapevoli della limitatezza dell’analisi, tre caratteristiche del Messale da ritenersi come fondamentali, seppure differenti in riferimento all’oggetto proprio di ciascuna.
Custode e testimone della fede ricevuta
Spesso si dimentica che la messa è un’actio che vede il concorso di più soggetti operativi. Vi è anzitutto la santissima Trinità che, mediante la presenza vivificante dello Spirito Santo, agisce con assoluta gratuità e creatività e rende «nuova» ogni celebrazione sebbene, ritualmente parlando, essa si svolga sempre nello stesso modo. Vi è poi l’assemblea dei battezzati, rinati dall’acqua e dallo Spirito, divenuti sacerdoti in virtù del dono di grazia ricevuto: è la Chiesa, sposa di Cristo, che egli associa a sé nell’offrire al Padre il sacrificio di lode. All’interno dell’ecclesia, radunata in assemblea, emerge la varietà dei ministeri, espressioni di altrettanti carismi: colui che presiede, il lettore, l’accolito, il cantore, ecc. Tra essi un’attenzione del tutto speciale va riservata al presbitero che, in forza del sacramento dell’ordine, agisce in persona Christi et Ecclesiae ed è a servizio dell’intero popolo di Dio.
Affinché l’actio liturgica sia autentica è necessario che la Chiesa, nell’unità dell’assemblea e nella pluralità dei ministeri, compia il comando del Salvatore: fate questo in memoria di me. Cosa garantisce l’obbedienza alla volontà di Cristo? Il magistero stabilisce alcuni elementi necessari affinché la celebrazione sia da considerarsi «valida» (non nel senso meramente giuridico, bensì teologico-sacramentale), come ad esempio la materia del pane e del vino, la presenza di un presbitero validamente ordinato, il pronunciare le parole del Signore nell’Ultima cena, ecc. In altri termini occorre agire secondo la fede ricevuta, come ricorda l’apostolo Paolo ai Corinzi: vi ho trasmesso quello che, a mia volta, ho ricevuto. Si tratta, per usare un’espressione cara alla teologia liturgica, della lex credendi, la legge della fede. Tutta la celebrazione eucaristica deve quindi, in virtù della volontà stessa del Signore, corrispondere alla fede ricevuta: ogni parola, ogni gesto, ogni preghiera, ogni ministerialità non sono lasciati all’arbitrio del singolo – fosse anche presbitero – ma sono vincolati alla lex credendi. «La Chiesa non ha alcuna potestà rispetto a ciò che è stato stabilito da Cristo e che costituisce parte immutabile della liturgia. Se fosse, infatti, spezzato il legame che i sacramenti hanno con Cristo stesso, che li ha istituiti, e con gli eventi su cui la Chiesa è fondata, ciò non sarebbe di nessun giovamento per i fedeli, ma nuocerebbe a loro gravemente. La sacra liturgia, infatti, è intimamente collegata con i principi della dottrina e l’uso di testi e riti non approvati comporta, di conseguenza, che si affievolisca o si perda il nesso necessario tra la lex orandi e la lex credendi».[1]
Il Messale quindi si colloca dentro tale prospettiva, quasi come una sorta di «custode» della fede ed è da ritenersi, a pieno titolo, testo magisteriale. In altri termini, la Chiesa impegna solennemente il suo munus docendi, assistita dallo Spirito Santo, nel dichiarare che quanto è contenuto nel Messale corrisponde alla fede ricevuta. Lex orandi lex credendi![2]
Fonte per la crescita dei fedeli
A un primo sguardo il Messale sembra essere un libro a disposizione esclusiva di colui che presiede. Sebbene il presbitero – come vedremo in seguito – abbia un ruolo determinante in riferimento all’uso del libro liturgico, il Messale appartiene alla comunità in quanto celebrante. Il fatto che il libro sia custode della fede determina che sia da ritenersi offerto a tutti. Affinché tale convinzione si rafforzi nei chierici e nei laici è necessario ancora compiere molta strada, sia a livello celebrativo che semplicemente formativo. Tale fatica dipende dal fatto che, sotto certi aspetti, la liturgia è ancora ritenuta un’azione esclusiva del presbitero e tutto ciò che la riguarda è di sua competenza.
Cosa comporta, a livello formativo, evidenziare che il Messale appartiene a tutti? In primo luogo introdurre la conoscenza della liturgia, anche a riguardo delle fonti rituali, nel normale itinerario di catechesi. Mentre la sacra Scrittura, giustamente, è diventata sempre più oggetto di studio, approfondimento, catechesi, non così è stato per la liturgia. Rimane ancora materia per esperti, per cultori del genere, per addetti ai lavori. Difficilmente nutre la mente ed il cuore dei fedeli, alimenta la spiritualità, costituisce una via privilegiata per accedere alla lex credendi. Facendo alcuni esempi, ci si potrebbe chiedere: quanti fedeli pregano con le parole della liturgia? C’è forse qualcuno che riprende, anche personalmente, il testo di una colletta, di un prefazio, di un’antifona? Quanti conoscono la struttura della preghiera eucaristica, il suo contenuto centrale, l’ermeneutica del mistero pasquale che essa veicola? È un dato, pressoché universale, il rilevare come l’assemblea non abbia modo di approfondire e di gustare la ricchezza di quanto ordinariamente affiora sulle sue labbra in termini di preghiera. I tesori della liturgia rimangono, per la maggioranza, ancora sigillati ed inaccessibili.
Se vi è, di fatto, una carenza a livello formativo occorre riconoscere che anche sul piano celebrativo non sempre la realtà è rosea. La poca conoscenza del Messale contribuisce a creare celebrazioni vissute distrattamente oppure come se si stesse assistendo ad una realtà oscura, misteriosa. Fermo restando che la conoscenza non è l’unico mezzo per favorire la partecipazione attiva e che la disposizione interiore ad entrare nei santi misteri è frutto di un’esperienza credente coltivata, rimane vero che l’ignoranza del rito riveste un peso determinante. San Girolamo giungeva a dire che ignorare le Scritture è ignorare Cristo; potremmo dire la medesima cosa per la liturgia? La partecipazione attiva non può sorvolare la necessità che sia anche cosciente, intelligente, consapevole.
«Il primo compito dei celebranti è quello di conoscere il libro liturgico, il suo valore, la sua struttura e funzione; senza questa previa azione conoscitiva si rischia di tradire ciò per cui è stato redatto il libro liturgico e non arrivare a raggiungere la sua propria finalità. L’ignoranza testuale può portare a mettere in atto una celebrazione semplicemente formale, che non diventa fonte di spiritualità. Per mettere in atto una celebrazione è necessario che ciascuno dei celebranti acquisisca delle competenze specifiche relative al proprio particolare servizio nella celebrazione (presidente, lettore …) e al codice linguistico che utilizza nel far passare il libro liturgico dallo stato chirografico a quello orale, canoro, gestuale … In particolare, è necessario affinarsi nell’agire rituale, nell’esprimersi simbolicamente, in modo che quanto si compie non sappia di meccanicità o formalismo esteriore ma diventi espressione del mistero che si celebra e della propria individuale e viva partecipazione.[3]
Il movimento liturgico che ha preceduto ed in parte accompagnato la riforma liturgica post conciliare insisteva molto sulla necessità di ritornare ad fontes, rimettendole nuovamente nelle mani dei fedeli. Dobbiamo constatare, a più di cinquant’anni da Sacrosanctum concilium, che molto resta ancora da compiere e che le fonti liturgiche, in primis il Messale, è sovente sostituito da sussidi di valore non sempre apprezzabile. La speranza è che, l’occasione della nuova traduzione, possa risvegliare in tutti la convinzione che il Messale essendo libro «della fede» alimenti e sostenga la fede di ciascuno.
A servizio della celebrazione
Quanto detto fin qui evidenzia il valore del Messale in ordine alla custodia-trasmissione della fede ed alla formazione catechetica, spirituale e liturgica dell’assemblea articolata nei vari ministeri. Tutto converge, come è evidente, nella celebrazione in atto. Senza ripetere quanto è già stato sottolineato, è importante soffermarsi su un aspetto solo apparentemente marginale, ossia la preparazione non solo remota ma anche prossima della celebrazione. In altri termini, la Messa non dev’essere improvvisata o ripetuta meccanicamente, bensì tutto andrebbe predisposto al fine di promuovere le condizioni più favorevoli all’accoglienza della grazia di Dio. In questa prospettiva, il Messale è «strumento» necessario. Se l’assemblea nei suoi diversi ministeri raramente «consulta» il libro liturgico prima della celebrazione, purtroppo accade che anche il presbitero stesso, talvolta, si trovi a sfogliare rapidamente le pagine del libro «in diretta». Ciò non dovrebbe costituire un’abitudine perché, a lungo andare, trascina la celebrazione in un vortice di annoiata fiacchezza. Si assiste ad un impoverimento, in certi casi cronico, nella scelta dei testi, nella significatività dei gesti, nella capacità di offrire ad ogni celebrazione il suo particolare carattere dettato per esempio dal tempo liturgico, dal «tipo» di assemblea, dalla situazione concreta in cui versa la Chiesa (a livello sia universale che diocesano-locale) o la società umana.
«Spesso le celebrazioni risultano pesanti e distaccate dal vissuto dell’uomo in quanto non vengono preparate in modo adeguato. Le opportunità offerte dal libro liturgico sono occasioni per rendere le celebrazioni veramente evangelizzanti e aderenti alla vita. Non ci si può, dunque, accontentare di utilizzare sempre le medesime preghiere o le stesse pericopi bibliche: questo sarebbe un mortificare la ricchezza stessa della celebrazione e l’ampiezza della grazia salvifica che si attua nell’actio liturgica.[4]
La fede della Chiesa, custodita nel testo liturgico, interpella il credente hic et nunc; se così non fosse essa si ridurrebbe all’adesione sterile e formale ad un sistema veritativo che poco o nulla incide nell’esistenza. Il Messale, nella sua articolazione, offre non pochi spunti affinché si tenga conto delle «diverse necessità». L’assemblea celebrante poi, sebbene spesso non presenti variazioni sostanziali nel numero dei componenti, non dev’essere pensata come un monolite sempre identico. I credenti, singolarmente e comunitariamente intesi, sono popolo di Dio «in cammino» e la liturgia è chiamata a mantenere sempre vigile lo sguardo sulle profondità dell’umano perché sappia parlare «al cuore». Troppo spesso, invece, si assiste a messe che sembrano prodotte «con lo stampino» e quindi incapaci di intercettare le vibrazioni dei cuori in movimento. Ciò dipende certamente da molti fattori che ora non è possibile sviscerare nella loro completezza. Rimane vero, all’interno di questo studio, che l’uso sapiente, creativo ed illuminato del Messale può contribuire – per quello che è relativo alla sua parte – al miglioramento della qualità delle celebrazioni.
Due indicazioni per favorire l’ars celebrandi dei presbiteri
Questo ultimo breve affondo si colloca come conseguenza di quanto affermato nei paragrafi precedenti. Il Messale, tesoro per la Chiesa, si colloca a servizio della liturgia affinché sia realmente «fede celebrata» e non vuoto ritualismo o esibizione, più o meno riuscita, delle capacità dei celebranti. Tra i ministri spicca, come già accennato, il presbitero. Egli, pastore della comunità cristiana, ha ricevuto il dono inestimabile di presiedere le celebrazioni eucaristiche e di agire in persona Christi per il bene della santa Chiesa. In virtù di tale ministero egli è chiamato ad immergersi, in modo del tutto speciale, nella liturgia accogliendola come realtà fondante la propria vita. Senza questa premessa, il ministero diventa un «mestiere» e la presidenza liturgica un compito da svolgere, un ruolo da assumere con tutti i rischi di sciatteria o protagonismo che ciò comporta. In fondo, sia chi presiede per «inerzia» e sia chi diventa show man è espressione dello stesso errore, ossia il non rendersi conto del tesoro prezioso che è l’eucaristia, banalizzandola o riducendola ad occasione per esaltare se stessi. Ecco perché è urgente riscoprire un’autentica ars celebrandi[5] che non scada nell’estetismo ma trovi nell’ordinazione sacramentale ricevuta la ragione ultima della sua importanza.
Riprendendo un interessante contributo di Corrado Maggioni, apparso qualche anno fa su Rivista Liturgica,[6] è opportuno ribadire due concrete attenzioni utili per ogni presbitero.
Studiare il Messale
Se è vero che il Messale è anzitutto libro per la celebrazione e poi, di conseguenza, per il nutrimento spirituale di ogni fedele, per il presbitero esso dev’essere anche oggetto di approfondito studio. Ciò è ovviamente auspicabile per tutti i battezzati ma – sia consentito affermarlo – è necessario per i presbiteri. Non è infatti pensabile per chi è chiamato a presiedere, in obbedienza alla vocazione ricevuta, accontentarsi di una conoscenza sommaria e grossolana del Messale. Sovente gli stessi Praenotanda risultano sconosciuti o solo superficialmente acquisiti; l’abbondanza eucologica presente nel Messale ignorata; le molteplici possibilità di scelta di testi o di «adattamento» dei riti poco valorizzate. In sintesi, la formazione del presbitero è ferma ai tempi del seminario e non sempre la formazione permanente del clero ha saputo valorizzare e proporre un’adeguata crescita a riguardo. In alcuni casi, forse mossi dalla paura di sembrare «preti da sacrestia», lontani dal vissuto del popolo di Dio, si è guardato con diffidenza un serio studio del libro liturgico finendo però, a lungo andare col ritenerlo non così rilevante nella pastorale ordinaria della comunità cristiana. In altri casi, riducendo la liturgia ad una seppur valida «spiritualità liturgica» si è finito per misconoscere il valore normativo degli ordines, promuovendo così un approccio alla celebrazione molto individualista e poco ecclesiale. Nei casi peggiori, in forza di un errato modo di percepire il ministero della presidenza, il presbitero ha ritenuto sua competenza modificare testi e gesti – talvolta anche in maniera significativa – mostrando così di non cogliere e rispettare la normatività del Messale in riferimento alla lex credendi. Ognuna di queste forme appare, spesso sotto mentite spoglie ma non per questo meno insidiosa, un’espressione di clericalismo.
In positivo, lo studio del testo permette di assimilarne il contenuto in maniera critica ed intelligente, interpellandolo in riferimento al vissuto concreto delle comunità cristiane. Anche nel caso del Messale, lo studio apre la mente ed è in grado di cogliere la forza di quanto la Chiesa in modo materno ed autorevole a tutti consegna.
Preparare il Messale
Il titoletto, volutamente provocatorio, intende in verità la necessità di preparare in senso lato la celebrazione. Di ciò si è già trattato nelle pagine precedenti. Lo studio e la conoscenza approfondita del Messale impongono poi la scelta di saper concretamente utilizzare il libro liturgico e ciò comporta il «prepararlo» prima dell’inizio della messa. Non si legga questa nota come un banale suggerimento. Sebbene si tratti di un’attenzione «piccola», essa denota quasi sempre una predisposizione d’animo positiva del presbitero che si accinge a presiedere i divini misteri. Chi prepara il Messale, tendenzialmente non arriva allo scoccare dell’ora, mostra di conoscere la varietà e la ricchezza dei testi, si distingue per finezza e cura dei dettagli. In fondo, per incontri o riunioni meno importanti della santa Eucaristia spesso si dedica molto tempo alla preparazione perché nulla sia fuori posto o lasciato al caso. È chiaro che non si tratta di cadere in una maniacale ricerca della perfezione e tutti sanno che ogni celebrazione è efficace in forza dell’agire di Dio e non è la diretta conseguenza dell’aver tutto predisposto al meglio. Tuttavia, la cura delle «cose di Dio» esprime in ultima istanza l’amore per lui e il desiderio che anche gli altri ne colgano la centralità e la bellezza nell’esistenza.
Doriano Locatelli, direttore Ufficio liturgico di Bergamo
(tratto da Orientamenti Pastorali, 1-2/2020 – Edizioni Dehoniane Bologna. Tutti i diritti riservati)
[1] Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, istruzione Redemptionis sacramentum (25 Marzo 2004), n.10.
[2] «I libri liturgici sono un veicolo della tradizione in quanto manifestano la fede della Chiesa, secondo il noto adagio lex orandi – lex credendi […]. In tal senso il libro liturgico manifesta il contenuto perenne della rivelazione e della prassi della vita di fede della Chiesa. Come tale, esso appare come un compendio di teologia in atto che attinge il suo contenuto al patrimonio dottrinale della Chiesa realizzandolo nella celebrazione liturgica in vista della crescita spirituale del credente»: M. Barba, «Il libro liturgico: struttura e funzione», in Rivista liturgica 98(2011), 388.
[3] G. Venturi, «Dal libro liturgico alla celebrazione», in Rivista liturgica 98(2011), 435.
[4] M. Barba, «Il libro liturgico: struttura e funzione», op. cit., 392.
[5] A tal proposito sono illuminanti le parole di Benedetto XVI nel descrivere l’ars celebrandi che ogni fedele, ed il presbitero in particolare, è chiamato a riscoprire. «Il primo modo con cui si favorisce la partecipazione del popolo di Dio al rito sacro è la celebrazione adeguata del rito stesso. L’ars celebrandi è la migliore condizione per l’actuosa participatio. L’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, perché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto popolo di Dio, sacerdozio regale, nazione santa (cf. 1Pt 2,4-5.9)»: Benedetto XVI, esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), n. 38.
[6] C. Maggioni, «Valore e significato del libro liturgico», in Rivista liturgica 98(2011), 396-414.