Virginio Colmegna – Presidente Fondazione Casa della carità Angelo Abriani – Milano
Come il vino delle nozze di Cana, che arriva inaspettato quando tutti sono «un po’ brilli» e non sono in grado di valutarne la bontà, è la “carità eccedente”, che può non avere riconoscimenti, davvero in perdita se il rendiconto deve essere un bilanciamento tra profitti e perdite, cioè un criterio meramente economico. «La Chiesa non è una ONG», ha richiamato spesso papa Francesco, non dimenticando la necessaria fatica organizzativa e anche di sussidiarietà vera, ma evidenziando nel contempo che devono essere trasparenti le finalità profonde che ci mettono quotidianamente a servizio. E non basta il titolo di volontari o operatori dedicati, ma si richiede di avvertire che vi è una relazione profondissima con coloro che si vorrebbero incontrate e la Parola, che ci evidenzia che in quel volto vi sta l’incontro con il Signore Gesù.
Dobbiamo situarci, come credenti e come Chiesa, proprio là dove si condividono quelle che il Papa Francesco ha chiamato «le periferie esistenziali», i confini, gli incontri di chi ha sete, fame, è in carcere, povero, bisognoso di cura. La carità non è primariamente un’azione di aiuto, ciò che la fa vivere è questa «follia sapiente» della croce, questo stabilirci ai piedi della croce per guardare da lì il mondo e la passione sconfinata di alleanza e riconciliazione che l’incontro con Gesù morto e risorto ci consegna come mistero che rivela la volontà salvifica.
Mi sovviene richiamare quanto il Beato Charles de Foucault ci ha testimoniato: la sua conversione alla fede non può essere raccontata come la vittoria dell’apologetica sul dubbio, ma l’ingresso improvviso di un amico in una vita affondata nella solitudine. La fede non appare in lui nel suo contenuto dogmatico, ma come storia di amicizia con l’Altro; questo Altro lo porta con i piedi sulla terra ferma. Diceva «bisogna passare per il deserto e abitarvici per ricevere la grazia di Dio. È là che svuotiamo completamente la nostra anima per lasciare tutto il posto a Dio solo. Non è mai possibile essere povero se non attraverso una vera amicizia con Gesù povero: essere ricco, agiato, vivere dolcemente nei miei beni quando tu sei stato povero nel bisogno, vivendo penosamente di un duro lavoro, io non ne sono capace, mio Dio … non posso amare così». È questa la profezia della povertà come condizione di vita.
Dire e vivere la carità significa testimoniare l’amicizia con Gesù, questo Gesù che ci chiede di camminare con Lui, di sentirci anche emotivamente mossi da questa spiritualità, inaugurata da Gesù a Nazareth e vissuta senza vacanza, senza interruzioni sulla strada della Palestina. È Lui che agisce in noi e per questo bisogna abbandonarci a Lui. Charles diceva: «Farsi immagine dell’amico vivendo».
La carità operosa, espressione dell’incontro con la Parola scritta e accolta
La carità operosa, la prassi di carità non è altro che la via che il Signore ci consegna per ritrovare e custodire l’amicizia con Lui. «I poveri li avrete sempre con voi»: non è un richiamo sociologico, ma la modalità affidata a noi per incontrare, per stare con Gesù. Ecco allora che la prassi di carità è animata da questa amicizia, ma può essere anche il luogo dove la bellezza del vangelo seduce, come quel cuore che ardeva dei discepoli di Emmaus, in cammino da pellegrini affaticati e appesantiti dal dolore, dalla apparente delusione. Insomma, bisogna avvertire che la fede, il fascino avventuroso del fidarsi di Gesù, nasce se il clima esistenziale che ci avvolge è respiro di fraternità, di condivisione, se non ci si occupa di noi stessi chiudendosi, ma dilatando il cuore. Francesco smette di adorare se stesso quando incontra il Signore, quando scopre che Dio agisce per amore nella sua vita. «Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza: quando ero nei peccati mi appariva molto amaro vedere i lebbrosi. E il Signore mi condusse tra di essi e feci misericordia con essi». Bisogna vivere questo itinerario di esperienza viva, raccontata e ascoltata. La comunità cristiana degli Atti era comunione di vita vera. Il diaconato della carità diventa ministero perché gli apostoli erano sommersi da questa condivisione e si correva il rischio di non avvertire e meditare la Parola, di essere sommersi dall’operosità che non è in discussione, ma che non può non essere alimentata dalla contemplazione e ascolto della Parola che ci permettono di stare in comunione e di essere presenti e testimoni della buona notizia del vangelo. È in questo dinamismo che sta l’incontro tra Parola e prassi di carità. La prassi di carità non è in discussione, ma va avvertita come espressione di un’anima, di un cuore che è l’incontro con il Signore Gesù, con la Parola scritta e accolta.
Chiesa della carità e Chiesa contemplante, Marta e Maria non contrapposte, ma come modo di stare ai piedi di Gesù, di essere ammaestrati dalla sua Parola. E può essere anche la grande sorpresa dal gratuito che può inquietare e interrogare donne e uomini che sanno pensare e interrogarsi senza sicurezze, che nascondono i silenzi che accompagnano la vita di chi sa non chiudersi in individualismi esasperati e in deliri di onnipotenza. È il n. 21 dell’Evangelii nuntiandi. Immergersi nel gratuito, avvertire il vuoto a perdere, il chi ce lo fa fare a regalarci reciprocamente questo sentimento del non misurarsi solo sui risultati.
Prassi di carità e discernimento interrogante
È per questo che quando si vive questa condivisione si richiede, si vive come necessaria la sapienza, la competenza, se volete anche la professionalità, la politica come forma alta di carità, il fondamento della giustizia come ridistribuzione di beni, come lotta allo scandalo della povertà e della disuguaglianza opprimenti, ma poi ritorna sempre questa domanda del chi ce lo fa fare, soprattutto quando non si mercifica la prassi di carità, ma la si motiva o la si fa scorrere là dove è più difficile stare e essere presenti. Ecco perché dobbiamo ribaltare la nostra prospettiva. Pensare a partire da un ascolto profondo di quello che dice Dio nella storia, anziché da quello che noi abbiamo da dire sulla storia. Ecco, la Parola ci permette di osare, perché ci riporta su un territorio di senso che non è occupato da noi, de-istituzionalizza le nostre sicurezze. Quando si chiede che la Chiesa sia povera non si dà un messaggio retorico o demagogico, ma si richiama la condizione per accogliere il vangelo: «Non sono venuto per i sani ma per i malati», cioè i bisognosi della salvezza. A volte una cultura così diffusa continua a immaginare la prassi di carità come una bontà residuale, un accomodamento sussidiario all’ingiustizia, un estraniarsi dalla solidarietà. E ci ritorna addosso un’effusione di consensi operosi (e in un periodo di crisi), quasi osannati, che ci lasciano far carità, ma la anestetizzano nel suo valore culturale e di dialogo con tutti i viventi. Non può essere così e anzi, oggi il dinamismo, che la Parola ci infonde, ci rende avvertiti del rischio che stiamo subendo, diventando gestori di opere che spingono la prassi di carità a essere affaticata nella sopravvivenza e a non aver restituito quel fascino del gratuito che è stato il profumo di santità, il grande dono che ha suscitato vocazioni e consacrazioni. La carità chiede di consacrarsi, questa spiritualità non è un racconto solo del fare, ma un discernimento interrogante. La Parola si fa preghiera, spesso diventa «Dio, dove sei?». I salmi che accompagnano la preghiera quotidiana della Chiesa ci indicano questa traiettoria. La carità ci chiede, innova la mistica. Ora et labora diremmo noi. La carità chiede questa dedizione, vi è una contemporaneità da riscoprire della tradizione monastica; dobbiamo essere un po’ tutti «monaci della carità». Quando il vangelo dice: «Venite e riposatevi un po’, non affannatevi», non parla di un riposo promesso solo a noi, ma parla proprio di questa consapevolezza per tutti, anche per i gigli del campo e per gli uccelli del cielo. È questo tempo nuovo, questo osare nello sguardo contemplante che attende il futuro che si fa opera che dobbiamo vivere. I rabbini, quando spiegano i primi versetti della Genesi, dicono che Dio, creando, si rannicchiò, fece spazio perché tutto e tutti potessero avere il loro posto. Dobbiamo, in un certo senso, rannicchiarci (diremmo noi, accettare di essere Chiesa di minoranza) per fare spazio a più gente possibile all’interno di questa storia umana, che è segnata dalla primogenitura di Gesù, il primogenito amato.
Il salmo 42, «Come la cerva anela», ci segnala il desiderio di vedere il volto di Dio; si parla del tempio come luogo della realizzazione del tempo nuovo. La Parola contemplata imprime il desiderio del tempo nuovo, ci consegna il dono di scoprire le tracce della sua presenza. È il tempo di osare in noi stessi, in questa storia, in questa Chiesa. È la Parola capace di consegnarci la nostalgia che deve essere tipica dei credenti, cioè di coloro che non vogliono possedere niente, fin quando non è possesso di tutti.