Vincenzo Rosito – professore ordinario di Storia e cultura delle istituzioni familiari presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia
Sotto diversi aspetti il territorio può essere considerato una creazione politica e amministrativa della modernità. Il potere dello Stato sarebbe impensabile senza un territorio circoscritto, così come l’amministrazione pubblica diventerebbe inoperosa senza un campo territoriale che ne definisca i limiti e le competenze applicative. Michel Foucault, nella sua ricostruzione genealogica delle istituzioni amministrative, spiega come la necessità di delimitare un territorio sia funzionale alla garanzia della sicurezza e al controllo della popolazione che lo abita.[1]
Il territorio, tuttavia, non è solo una costruzione amministrativa, ma anche un luogo comune, ovvero uno spazio di vita e di pratiche vitali. Il territorio ha il volto di chi lo attraversa, di chi lo pratica, di chi assume la forma delle imprese cooperative o delle opere collettive che ne rappresentano la socialità in movimento. Nel contesto italiano la parrocchia non si è quasi mai imposta quale presidio territoriale, essa non ha sovrapposto la propria missione o ragion d’essere ecclesiale con la ragione amministrativa e gestionale di un quartiere, di una contrada o di una fetta di popolazione. Per definizione la parrocchia include e accoglie molteplici realtà collettive e collaborative; è una sorta di spazio comune che favorisce la differenziazione dei modi di praticare la fraternità e di vivere la socialità. La parrocchia quale realtà comunitaria e istituzionale è ancora in grado di prospettare una visione alternativa del territorio e dell’appartenenza territoriale. Nella parrocchia è ancora iscritto un potenziale sovversivo e critico verso la colonizzazione economica dei territori e l’espropriazione culturale del comune.
È mia intenzione prospettare un principio orientativo nella ridefinizione del territorio da parte delle comunità cristiane. Tale principio può essere riassunto nell’idea che i territori muoiono soprattutto per saturazione. Lottare contro la saturazione del comune è il compito culturale più urgente e impegnativo per la Chiesa nel tempo presente.
Nel linguaggio ordinario diciamo che un ambiente è saturo quando viene materialmente occupato in ogni sua parte. In questo modo l’abitato non è più abitabile; nel luogo in cui si sperimentavano forme diverse di convivenza non è più possibile trovare un solo «spazio vuoto». Il principio di saturazione agisce esattamente secondo la prospettiva dell’eliminazione sistematica e inesorabile degli spazi vuoti, dei campi liberi o ancora disponibili ad accogliere nuove proposte creative. Se il campo di azione della comunità credente è presidiato in ogni sua parte, se gli spazi ecclesiali sono normativamente vincolati alla precomprensione o alla cattura normativa della vita, la saturazione del comune avanza prepotente anche nel quotidiano del corpo ecclesiale. Consapevole di questo rischio, Francesco sposa e promuove l’esercizio di un magistero incompleto che non pretende di occupare o presidiare l’intera scena del discernimento ecclesiale, ma che riesce altresì a liberare spazi condivisi per la maturazione delle coscienze. Facendosi convintamente e consapevolmente incompleta, la voce dell’autorità pastorale fa spazio alle voci molteplici e talvolta corali del popolo di Dio, ne favorisce così la maturazione responsabile e la crescita nella fede. Il pastore scopre un nuovo modo di abbassarsi in favore delle pecore, evitando di saturare le stanze creative e sperimentali che il popolo di Dio deve ancora rinvenire. D’altronde «Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle».[2]
La saturazione è un principio strategico pericolosamente all’opera nella colonizzazione degli spazi comuni. La turisticizzazione dei luoghi della vita è l’esempio più evidente del riduzionismo economico-progettuale che, in Italia in modo particolare, sta lentamente erodendo gli spazi della prossimità geografica, culturale e popolare. Capita sempre più spesso che un territorio si scopra improvvisamente saturato da logiche gestionali e manageriali. Molti beni condivisi e informali come gli usi civici e popolari non vengono rimossi, ma stravolti nella loro destinazione d’uso, piegati cioè al mercato del turismo di massa. Un luogo quando viene economicisticamente saturato diventa una località, perde cioè il reale ancoramento dei gesti quotidiani alla vita di una comunità o di un popolo.
La saturazione economico-capitalistica di un territorio si accompagna quasi sempre a forme di saturazione ideologica. Anche gli usi vernacolari (dalla lingua, alla cucina, alle abitudini domestiche o di vicinato) diventano marcatori di una tipicità territoriale che viene spesso svenduta o scimmiottata quando la si offre al turista avventore e consumatore. Questi elementi sono alla base delle nuove retoriche territoriali o delle forme di arroccamento identitario e localistico che rischiano di compromettere anche la vocazione inclusiva e missionaria della parrocchia.
La forza performativa delle pratiche credenti
Il principio di saturazione è all’opera negli spazi della società civile quando si pretende di offrire un quadro totalmente istituzionalizzato della società. L’errore in cui cadono molte realtà ecclesiali è quello di percepirsi esclusivamente come soggetti istituzionali. Ogni parrocchia, invece, dovrebbe promuovere occasioni di collaborazione e di cooperazione con i numerosi soggetti della società civile presenti sul territorio. Nel fare questo, tuttavia, le comunità cristiane non possono e non devono ignorare che in ogni territorio sono presenti anche realtà istituzionalmente nascenti, deboli o impotenti. Queste realtà, talvolta povere ma creative, esercitano un potere attrattivo nei riguardi delle comunità di fede che in questa stagione ecclesiale, in modo particolare, sono chiamate a intercettarne la vitalità inespressa e promettente.
Assumendo la postura della rabdomante missionaria (Christoph Theobald), la comunità cristiana fiuta i segni dell’acqua sorgiva, riconosce le falde nascoste di una socialità veniente, gli annunci indefiniti e precari di un comune che deve essere edificato. La comunità che i cristiani bramano con l’insistenza e la sagacia di chi osa riconoscere i segni dei tempi, ha le forme di un comune ancora tutto da costruire. Esso può assumere ad esempio la forma dei movimenti trasversali e inaspettati che avvicinano persone differenti per formazione, ceto e appartenenza culturale in nome dell’apprensione per la casa comune. Molti di questi movimenti hanno un carattere performativo, la loro forza non è quella delle istituzioni solide, ma del gesto creativo che incide e modifica la realtà sociale nel momento in cui viene compiuto. Riscoprire il valore performativo delle prassi cristiane all’interno di ogni tessuto territoriale rappresenta una delle sfide ecclesiali più urgenti e appassionanti.
La parrocchia potrebbe intraprendere un fecondo percorso di ricomprensione di sé alla luce delle pratiche culturali performative. Questo significa ridisegnare i contorni di una nuova presenza ecclesiale nel mondo della cultura, della politica e delle imprese collettive. La vitalità delle comunità cristiane non risiede nella capacità di possedere spazi, presidiando o rivendicando prerogative storicamente riconosciute. Al contrario, una comunità di sequela si riconosce dalla capacità di iniziare processi.[3]
La forza performativa dei gesti condivisi pervade la vita delle comunità cristiane, essa è operante nel corpo sacramentale dell’assemblea liturgica, ma fuoriesce costantemente dai compartimenti dell’istituzione per riversarsi nelle piazze delle culture e delle subculture urbane, per farsi voce di una Chiesa capace di intercettare le voci dei molti popoli che abitano sommessamente o chiassosamente la grande città. Per queste ragioni la parrocchia non snatura se stessa, ma recupera la vitalità performativa della carità e della fede quando riforma se stessa ricorrendo all’immagine del laboratorio culturale. Anche la parrocchia, così come le istituzioni dedite più specificatamente alla formazione del popolo di Dio, possono diventare «una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo».[4]
Quest’autentica impresa di riforma e di conversione può essere sintetizzata nella riscrittura culturale del territorio in ragione della vitalità performativa delle pratiche credenti. Bisogna convocare le migliori energie intellettuali per approntare un’ontologia sociale all’altezza delle pratiche performative che ridisegneranno il comune di una fraternità universale ancora da edificare. La società stessa non è una mera aggregazione di realtà sociali precostituite, ma un’impresa comune di assemblaggi creativi, in continuo divenire. Il sociale non è una sostanza o una qualità magicamente scaturita da azioni ben organizzate e coordinate. Il sociale non esiste come materiale, contesto o aggregazione, ma coincide piuttosto con il lavoro di una molteplice varietà di connettori, con lo spettro polivalente dei modi di addensare, di stirare o di dilatare i rapporti tra individui, popoli e comunità. Se dunque la realtà sociale è ciò che scaturisce dall’opera di connettori molteplici non si dovrebbe parlare di una «sociologia del sociale», ma di una «sociologia delle molteplicità delle associazioni».[5] Per questa ragione l’opera culturale che attende anche le comunità cristiane non è «questione di sapere, di credere, o di convincere; si tratta di scegliere, decidere, parteggiare – e dunque assemblare, comporre, istituire».[6]
(Tratto da Orientamenti Pastorali 11/2021, EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati)
[1] Cf. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2017.
[2] Francesco, Amoris laetitia. Esortazione apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia, 19 marzo 2016, 37. La voce dell’autorità si raccoglie e si condensa in pronunciamenti che abilitano al discernimento, poiché «mediante la coscienza e il discernimento sulla prassi di vita, l’uomo diventa in un certo senso soggetto nella genesi della dottrina e non solo il suo destinatario o l’applicatore circostanziato» A. Autiero, Amoris laetitia tra teologia pastorale e teologia morale, in Id. (a cura di), Per una nuova cultura pastorale. Il contributo di Amoris laetitia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2019, 36.
[3] EG, n. 223.
[4] Francesco, Veritatis gaudium. Costituzione apostolica circa le università e le facoltà ecclesiastiche, 29 gennaio 2018, n. 3.
[5] Cfr. B. Latour, Reassembling the Social. An Introduction to Actor-Network-Theory, Oxford University Press, New York 2005, 117-132.
[6] Id., Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, Rosenberg & Sellier, Torino 2029, 32.