Erio Castellucci – arcivescovo-abate di Modena-Nonantola e amministratore apostolico di Carpi

La parentela tra parrocchia, casa e famiglia è stretta: è incisa addirittura nell’etimologia. «Parrocchia» proviene dal greco paroikìa, termine formato da parà, che significa vicino/presso e oikìa, che significa casa o famiglia. «Parrocchia» e «parroco», sono parole segnate da una certa nostalgia della casa e della famiglia, che risulta almeno momentaneamente distante e inaccessibile, ma per questo ancor più desiderata; una vicinanza alla casa coltivata nel cuore, in attesa di poterci tornare definitivamente.

Quando papa Francesco in Evangelii gaudium n. 28 parla della parrocchia, riecheggia il linguaggio domestico, evocando figli/e, casa, famiglia…: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. […] La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. […] Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione».

La parrocchia rischia dunque di sedersi, sistemarsi, fermarsi. Papa Francesco ne riafferma la validità, a patto che sia «capace di riformarsi e adattarsi costantemente», capace di «revisione e rinnovamento», orientata «completamente verso la missione».

Forme dell’esperienza cristiana

La presenza della Chiesa sul territorio, quindi, deve essere dinamica: e tale è stata lungo i due millenni della sua storia, che registra una grande pluralità di forme comunitarie cristiane.

La stessa impressione si ottiene gettando uno sguardo geografico alle comunità cristiane nel mondo di oggi. Secondo le dimensioni, possono essere grandi, medie o piccole, con ovvie ripercussioni sulle relazioni tra clero, religiosi e laici. Stando alla struttura territoriale, le parrocchie possono essere accorpate, isolate o unite in vario modo, in diverse forme di unità pastorali. Guardando il tipo di attività che vi si svolge, alcune si possono definire prevalentemente legate al culto, altre di impronta missionaria, altre ancora più attente alla carità e all’assistenza. Il livello dell’interazione con il territorio le caratterizza come più aperte ai problemi sociali oppure più concentrate su loro stesse.

Di fronte all’eterogeneità storica e geografica delle forme e strutture ecclesiali, ha senso oggi il legame tra parrocchia e famiglia? Fino a un anno fa, il richiamo alla famiglia come «Chiesa domestica» e alla parrocchia come «famiglia», pur essendo ben fondato e insistente, non era mai diventato esperienza diffusa. La pandemia, tra innumerevoli lutti e sofferenze, rappresenta un’opportunità per recuperare questo legame. Nelle fasi di lockdown la parrocchia si è trasferita nelle case e le famiglie hanno pregato e celebrato, hanno vissuto la prossimità e l’ascolto reciproco.

L’esperienza inedita del lockdown

L’attività pastorale delle parrocchie, nel periodo del lockdown, è stata sulle prime bloccata, poi si è subito reimpostata, come un navigatore quando deve ricalcolare il percorso. Ed è emersa, in mezzo a enormi fatiche, una grande creatività insieme a una diffusa pratica di prossimità: molte famiglie hanno riscoperto la preghiera comune, l’ascolto, il desiderio di approfondire la parola di Dio. Per i suoi primi tre secoli di vita, del resto, la fede cristiana è stata trasmessa, celebrata e vissuta nelle case; e ancora oggi, specialmente dove la pratica pubblica delle fede è vietata o le comunità sono «piccolo gregge», la domus è lo spazio vitale della Ecclesia. Si può dire che l’esperienza ecclesiale dei primi secoli si è plasmata, in modo costitutivo, all’interno delle case, attraverso le relazioni dirette che si vivono nelle famiglie.

Sarebbe un’occasione sprecata, se attendessimo semplicemente il ritorno agli stili precedenti, come una sorta di «vaccino pastorale», senza lasciarci provocare da questa esperienza; non dovremmo archiviare questa fase come emergenziale, ma cercare di ricavarne qualche elemento strutturale. La casa non può certo sostituire, ma può integrare le proposte di evangelizzazione, attraverso i social media interattivi e i gruppi domestici di preghiera o lettura del vangelo; e può diventare il primo laboratorio della carità, promuovendo una sorta di volontariato familiare o «di vicinato», specialmente nei giovani. Una terza dimensione, invece, risulta piuttosto nuova: quella celebrativa. È augurabile che si diffondano prassi di vera e propria liturgia domestica, nell’esercizio attivo del sacerdozio battesimale, e non solo nel ruolo di spettatori delle liturgie trasmesse attraverso il video.

Consideriamo ora quattro note «domestiche» di cui la parrocchia può beneficiare a partire dall’esperienza delle famiglie. Le raccogliamo attorno a queste parole: mobilità, essenzialità. prossimità, accoglienza.

Mobilità

In periodi normali – cioè non pandemici – la famiglia è di per sé dinamica: la presenza di figli, genitori, nonni, la rendono «mobile», la mettono in contatto attivo e costante con tutti gli ambiti della vita sociale: scolastico, sportivo, ecclesiale, lavorativo, professionale, artistico, assistenziale, ludico, medico, burocratico e così via. La parrocchia rischia, invece, di stabilizzarsi e quasi fossilizzarsi, negli ambiti che le sono propri e che vengono talvolta proposti in modo fisso e ripetitivo: è il famoso «si è fatto sempre così», biasimato anche dalla Evangelii gaudium (n. 33). Una trasfusione di mobilità dalla famiglia al centro parrocchiale non può che giovare all’incisività dell’annuncio. Si dovrebbe osare una pastorale meglio plasmata sulla famiglia, che la valorizzi come tale, ne rispetti i ritmi e favorisca l’annuncio, la celebrazione e la fraternità anche nelle case.

Inoltre, le attività parrocchiali si rivolgono quasi solo alle varie «fasce d’età», bambini, ragazzi, giovani, universitari, lavoratori, sposi, anziani. È utile però integrare questa con un’altra prospettiva, che eviti di smembrare sistematicamente la famiglia e che la coinvolga il più possibile in quanto tale: nella liturgia, nella catechesi, nelle attività ricreative e assistenziali; la parrocchia diventa in questo modo più chiaramente «famiglia di famiglie» e meno «famiglia di singles».

Essenzialità

Qual è l’essenziale delle comunità parrocchiali? Il punto di paragone è la Chiesa di Gerusalemme negli Atti degli Apostoli, nei cui sommari emergono: il radunarsi attorno all’insegnamento degli apostoli, allo spezzare il pane, alla preghiera e alla fraternità, che diventa attenzione anche ai più bisognosi (cf. At 2,42-47 e 4,32-35). Questo quadro va collocato proprio all’interno di una dimensione «domestica» della comunità, che era, come si è accennato, la forma normale nella Chiesa apostolica e in quella dei due secoli successivi.

Per recuperare l’esperienza parrocchiale come «forma domestica» dell’annuncio è utile, anche sulla scorta di quanto vissuto nel lockdown, attualizzare l’esperienza dei primi secoli: i cristiani erano pochi, i mezzi scarsi, ma la forza missionaria enorme; ed è ciò che accade ancora oggi nei territori «di missione», dove le giovani comunità dispongono di pochissime strutture, ma si organizzano capillarmente in piccoli gruppi guidati, nei villaggi e nelle case, e portano avanti con gioia l’annuncio del vangelo e gli incontri di preghiera.

Prossimità

Molte persone, anche credenti, si sentono ai margini della comunità cristiana: indifferenti, arrabbiate, deluse, «estranee» anche a causa di situazioni personali ferite e compromesse. Il fenomeno è in crescita, tanto da avere determinato nella pastorale un neologismo: i «ricomincianti». Esistono situazioni che si possono definire correttamente un «nuovo inizio», come: le conversioni improvvise, il riaccostamento delle coppie in occasione del percorso di preparazione al matrimonio, il riavvicinamento in occasione di battesimo, cresima e prima comunione dei figli; la riscoperta della fede attraverso gruppi, movimenti e cammini che si presentano più dinamici e capaci di intercettare «i lontani» rispetto alla vita parrocchiale ordinaria; nuove disponibilità in seguito a malattia o età avanzata o altre fragilità.

Queste e altre situazioni portano alcuni a riprendere con interesse il cammino ecclesiale, ponendo un problema pastorale fondamentale: come può una comunità cristiana accogliere, accompagnare e far crescere questa rinnovata disponibilità al percorso della fede? Una risposta sembra proprio data dalla metafora familiare della Chiesa: una parrocchia che si presenti come «famiglia» può attrarre e interessare anche quelli che ne sono stati lontani per i motivi più disparati. Più una parrocchia vive le relazioni in modo familiare e più sarà capace di accogliere nel suo grembo anche coloro che normalmente sono chiamati «lontani», perché in una famiglia non ci sono lontani o vicini, ma tutti meritano attenzione; e le componenti più deboli, fragili e malati richiedono un’attenzione ancora maggiore rispetto a quelle più forti e sane.

Accoglienza

Il modello su cui si è plasmata la Chiesa delle origini, quello della famiglia e della casa, evoca in modo particolare l’accoglienza. L’accoglienza è come la porta esterna della casa: se è aperta, le persone possono entrare nelle stanze, visitare la casa, parlare e ascoltare, partecipare alla mensa, rilassarsi; se è chiusa, la casa può essere anche bellissima, arredata magnificamente e ben pulita, ma diventa inaccessibile. Meglio una casa modesta ma aperta che una casa lussuosa ma sigillata.

Lo stile dell’accoglienza e dell’accompagnamento, proprio della famiglia, deve contaminare tutti gli ambiti della vita parrocchiale: dall’evangelizzazione all’amministrazione dei sacramenti, incrociando i soggetti della vita pastorale: bambini, giovani, famiglie, anziani, lavoratori, studenti, poveri, malati, emarginati, carcerati, fratelli di altre confessioni cristiane o di altre religioni, profughi e cattolici di provenienza estera.

Il cantiere dei gruppi del vangelo nelle case

Concludo accennando brevemente a una iniziativa, «i gruppi del vangelo nelle case», sorta nella diocesi di Modena-Nonantola, sulla scia di esperienze già esistenti e in seguito a un prolungato confronto sulla forma domestica e missionaria della parrocchia.

L’iniziativa intende rispondere alla duplice esigenza di valorizzare la casa come luogo di testimonianza e comunicazione della fede e di favorire la forma domestica dell’annuncio nelle parrocchie. L’incontro periodico nelle case, attorno al vangelo, rende evidente come parrocchia non si identifichi con la canonica, la chiesa e il teatrino, ma con le persone che abitano il territorio.

I riscontri sono abbastanza incoraggianti: si coinvolgono in qualche caso anche persone non praticanti – amici di famiglia o abitanti del condominio – e si realizza una certa comunicazione intergenerazionale. Emergono riflessioni e commenti filtrati dall’esperienza quotidiana, senza la preoccupazione di dover dire ciò che gli animatori vorrebbero sentirsi dire; sono interessati anche anziani e ammalati, che diversamente avrebbero poche occasioni per incontrare una comunità che ascolta e trasmette la parola di Dio.

Pur essendo una goccia nell’oceano, rispetto agli orizzonti dell’evangelizzazione, questa esperienza rappresenta un metodo promettente di annuncio e catechesi degli adulti. La caduta della «cristianità» in Occidente può costituire un pungolo a rimettere al primo posto la relazione diretta rispetto all’organizzazione, a integrare meglio la casa con il centro parrocchiale, a ridare slancio al kerygma come cuore della catechesi.

(Tratto da Orientamenti Pastorali 11/2021. EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati)