Giuseppe Alcamo – docente stabile di catechetica e di introduzione al cristianesimo, Facoltà Teologica di Sicilia
L’esortazione «Gaudete et exsultate», per esplicito volere del suo autore, non è un trattato sulla santità, ma un invito a porre davanti a sé questa via che conduce a pienezza la vita. La santità è vivere l’ordinario in modo straordinario, cioè nella gioia e nell’amore. La gioia e l’amore, come frutti dello Spirito, rendono saporita questa vita in tutte le sue espressioni, anche nelle sue realtà non facili e a volte dolorose.
Francesco, citando il cardinale vietnamita Francesco Saverio Nguyên Van Thuân, che ha passato molti anni della sua vita in carcere, scrive: «“Vivo il momento presente, colmandolo di amore”; e il modo con il quale si concretizzava questo era: “Afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario”» (GeE 17). L’ordinario, la vita semplice e quotidiana vista come spazio che Dio offre per rendere visibile lo straordinario, cioè, l’amore di Dio concreto e storico, che va incontro all’uomo per dare un senso a tutto quello che, senza di Lui, non ha senso. Nel caso del cardinale vietnamita, il carcere come luogo teologico dove vivere l’amore di Dio e rendere testimonianza della bellezza della vita. Per noi, il nostro lavoro, la nostra casa, il nostro ambiente concreto dentro cui scorrono le ore del nostro tempo.
La via della santità non omologa e non è riciclabile, è sempre una via originale e inedita, anche quando traccia un sentiero che è percorso da molti altri. Santità è una parola antica, che trova la sua radice, per noi cristiani ma anche per gli ebrei, nel desiderio di Dio stesso: «Siate santi perché io il signore sono santo» (Lev 11,44). Scrive Francesco: «Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente.» (Gen 17,1)» (GeE 1).
Parlare di santità per affrontare il male di vivere, il non senso dell’esistenza. Santità come forma e stile di una vita all’insegna della fedeltà; come direzione da dare alla totalità della propria vita. Tutto questo però senza credere che la santità sia frutto di una sapienza umana o ubbidienza a tutte le regole. La santità per il Papa è l’esperienza cristiana in quanto tale, in ogni sua espressione e forma. I cristiani, sin dai primi tempi, sono chiamati e si reputano «i santi», senza per questo millantare né davanti agli uomini né al cospetto di Dio una propria rettitudine morale, anzi riconoscendosi pubblicamente e con insistenza deboli e peccatori.
Il papa, ricollegandosi al NT, ci ricorda sommessamente che i veri santi non sono persone che rivendicano la perfezione, ma uomini e donne che hanno fatto esperienza del perdono di Dio, e, in forza di questo perdono sono stati resi capaci di misericordia, di ascolto, di assumersi la responsabilità verso chi è debole e bisognoso. Una santità «feriale», «della porta accanto», «della classe media», che si realizza attraverso gesti quotidiani che fanno gustare il dolce sapore del vangelo. I cristiani hanno la consapevolezza di essere, più che santi da noi stessi, «santi per vocazione»”.
Per noi cristiani, con le diverse vocazioni che ci caratterizzano, questa è una prima provocazione: tutti ci guardano, anche coloro che si considerano lontani e senza fede e si attendono dalla Chiesa e dai singoli cristiani coerenza e fedeltà. Anche coloro che affermano di non far parte delle nostre comunità, cercano in noi adulti nella fede un punto di riferimento sicuro, pretendono e hanno diritto di trovare una maggiore coerenza e fedeltà.
Lo sappiamo, perché purtroppo è sotto gli occhi di tutti, il nostro peccato, la nostra mediocrità, i nostri scandali hanno una risonanza maggiore e indignano tutti, credenti e non credenti; molto disorientamento esistenziale, tra tutte le generazioni, è anche causa di una nostra fedeltà non sempre limpida e facilmente identificabile.
Lo stile con cui trascorriamo le nostre giornate, il nostro linguaggio corrente, le nostre relazioni, i nostri discorsi informali, l’uso che facciamo delle nostre risorse economiche, il modo come trattiamo i nostri dipendenti o colleghi, tutto questo e altro ancora ha una incidenza non solo sulla qualità della nostra vita di fede, ma anche sulla vita di tutti coloro che interagiscono, direttamente o indirettamente, con noi; la trasmissione della fede, l’evangelizzazione passa anche attraverso questi canali; di tutto questo non possiamo far finta di non essere responsabili. A questa responsabilità la santità ci richiama.
Il concilio Vaticano II ha recuperato questa antica consapevolezza, insegnando nel n. 40 della Lumen gentium che tutti i cristiani, di ogni condizione e stato, per il fatto stesso che sono battezzati, sono chiamati a essere santi. Una santità legata al dono del battesimo.
La santità del popolo di Dio
L’appartenenza al popolo santo di Dio, per accogliere la santità come dono di Dio, è un vincolo di cui non possiamo fare a meno, non è qualcosa di marginale bensì costitutivo. Il cammino di santità non può essere pensato in termini individualistici o in conflitto con gli altri. È un cammino di popolo, dentro cui si trovano le singole persone. L’habitat della santità a cui Gesù Cristo ci ha dato accesso è la vita del popolo.
Ma chi è questo popolo che, a volte con molta enfasi, chiamiamo santo? È la mia famiglia, sono i miei vicini, i miei colleghi, gli amici del calcetto, quelli del muretto o del circolo, coloro con cui condivido la mia vita quotidiana. Il popolo di Dio, santo per vocazione, sono tutti coloro che mi circondano e che consapevolmente o inconsapevolmente mi mostrano il volto di Cristo risorto. Non si sta parlando di una santità al ribasso, ma di una santità che si abbassa, che diventa concreta e accessibile a tutti, che contagia, che seduce, che provoca e invita all’imitazione. Una santità fatta di buone azioni, di buon umore, di rispetto, di attenzione, di ripresa del dialogo, di attesa amorosa, di vita concreta. Papa Francesco riflette non su una santità da immaginetta, ma di vita virile e storica, quella che è accessibile a tutti.
Non si diventa santi da soli: il marito e la moglie sono chiamati a diventare santi insieme e a introdurre i propri figli dentro la loro vita santa; il presbitero è chiamato a diventare santo dentro la comunità che è chiamato a presiedere e non nonostante la comunità, la stessa cosa vale per i religiosi; il vescovo è chiamato a diventare santo dentro il presbiterio che gli è stato affidato e non senza i suoi presbiteri. Siamo il corpo di Cristo, come Chiesa, perché tutti insieme siamo chiamati a vivere della stessa santità di Cristo. Dentro questa Chiesa, ortodossia e ortoprassi non sono due cose separabili, si complicano e si esplicitano reciprocamente.
Il primo segno della vera santità è sentire il bisogno di non poter fare a meno degli altri; l’individualismo e la pretesa di autosufficienza non possono essere percorribili alla luce del vangelo; abbiamo bisogno gli uni degli altri, di sentire che la nostra vita è inserita in quella del popolo di Dio, dentro cui lo Spirito aleggia.
I mali antichi ma sempre presenti
La santità noi viviamo è sempre nella linea e nella logica del dono che riceviamo, «nonostante» la nostra vita non sia uno splendore. La fede ci dice che la Chiesa è il luogo storico, ma non esclusivo, dove agisce lo Spirito di Dio. In riferimento alla Chiesa, la dimensione della santità e del peccato coesistono; essa è santa e peccatrice. La santità della Chiesa sta in quel potere di santificazione che Dio esercita in essa malgrado la peccaminosità umana. La santità della Chiesa è espressione dell’amore di Dio che non si lascia vincere dall’incapacità dell’uomo. Dio continua, nonostante tutto, a essere buono con l’uomo, non cessa di accoglierlo proprio in quanto peccatore, si rivolge verso di lui, lo santifica e lo ama. La santità della Chiesa si realizza nella situazione paradossale, nella quale il divino si rende accessibile attraverso mani indegne. Sin dai tempi del Gesù storico, la sua santità si mescola con il peccato degli uomini; riecheggiando il vangelo possiamo dire che grano e zizzania crescono insieme, il fuoco dal cielo non viene invocato quando sono allontanati dalla Samaria, Gesù non scenderà dalla croce per punire i suoi crocifissori; Gesù si fa peccato, si mescola con i peccatori, prende su di sé il peccato di tutti, mostrando cosa sia la santità.
Nella santità della Chiesa, ben poco santa rispetto all’aspettativa umana di assoluta purezza, non si svela forse la vera santità di Dio che è amore? Un amore che non si allontana dalle situazioni concrete, ma si sporca della sporcizia umana. Tenendo presente questo, la santità della Chiesa può mai essere qualcosa di diverso dal portare gli uni i pesi degli altri? La santità della Chiesa comincia con il sopportare le difficoltà degli altri e si sviluppa nel sorreggere gli altri; qualora, però viene meno il sopportare, cessa anche il sorreggere, e l’esistenza priva del sostegno precipita nel vuoto.
I cristiani vivono di ciò che la Chiesa è; se si vuole saper cosa è la Chiesa bisogna accostare coloro che vivono di Chiesa. La Chiesa, infatti non è per lo più dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede che diviene per loro fonte di vita. Per vivere una vita santa, il cristiano non si fa forte né della propria intelligenza né della propria capacità eroica, ma si abbandona, si affida, confida, lascia fare quello che Dio stesso vuole operare in lui e con lui. La santità come disponibilità, senza calcolo e senza ricerca di convenienze, a mettersi nelle mani di Dio: «La sua amicizia ci supera infinitamente, non può essere comprata da noi con le nostre opere e può solo essere un dono della sua iniziativa d’amore. Questo ci invita a vivere con gioiosa gratitudine per tale dono che mai meriteremo, dal momento che “quando uno è in grazia, la grazia che ha già ricevuto non può essere meritata”. I santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni» (GeE 54).
Per concludere
Francesco ribadisce che la santità è a portata di mano per tutti, ma non è una scelta banale, nessuno la può vivere da solo, non nasce da una vita tiepida, accomodata, né da una vita ideale e inesistente, ma da una vita che conosce cadute e rialzate. Per poterci rialzare, tutte le volte che cadiamo abbiamo «le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione della parola di Dio, la celebrazione della messa, l’adorazione eucaristica, la riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria, l’impegno missionario» (GeE 162).
Se guardiamo la santità dalla parte di Dio, è vicinanza e accoglienza della sua stessa vita; se la guardiamo dalla parte dell’uomo, la santità è conversione, discernimento, ascolto, servizio, condivisione; se la guardiamo dalla parte della Chiesa, la santità è comunione sacramentale, è liturgia, lode, ringraziamento, ma anche profezia e martirio; se la guardiamo dalla parte del mondo, la santità è stoltezza che rende felici coloro che la vivono. Prospettive diverse che permettono di cogliere la globalità della vita santa della Chiesa e del cristiano, dentro un mondo che cammina verso il Signore.