Franco Pittau – coordinatore scientifico del Rapporto sugli italiani nel mondo
L’immigrazione estera in Italia, essendo iniziata tra la fine degli anni ’60 del secolo scorso, è relativamente recente rispetto all’emigrazione italiana in altri Paesi, perdurata fino ad oggi fin dalla fine del secolo XIX.
Analizzando le statistiche, ricostruendo le storie, evidenziando le discriminazioni e le buone prassi di accoglienza, costatando il mantenimento delle radici con il proprio Paese (ma altre volte il loro oblio), un credente riesce a percepire quale significato religioso possa avere questo impetuoso svolgimento di persone e di eventi, mortificante e promettente, tragico e aperto alla speranza, spesso non voluto alla partenza ma poi accettato con coraggio.
La ricerca del significato delle migrazioni è ancora più importante nella fase storica attuale, a condizione di non affrontare il tema trattato con parole di circostanza o subordinandolo esclusivamente a interessi sganciati dai valori.
Aiuta a riflettere in una chiave cristiana sulle implicazioni del fenomeno migratorio parabola del seminatore.
Il seminatore è Dio stesso attraverso la storia del mondo, caratterizzata da un’ineguale aspirazione al benessere nei vari Paesi (e anche all’interno di uno stesso paese), sia per cause naturali (come la posizione geografica e la desertificazione), sia anche per manchevolezze delle classi dirigenti (come il malgoverno, i conflitti interni, le persecuzioni razziali e religiose, le guerre esterne). Molti affrontano i sacrifici dell’emigrazione per cercare all’estero un’opportunità di miglioramento, nonostante le distanze, e le barriere linguistiche, culturali e religiose e le difficoltà di chi inizia da capo.
Il seme sparso sono i migranti. Gesù, nella sua parabola, per seme intende la buona novella del suo annuncio, il regno di Dio, la salvezza spirituale. Ma anche le persone in situazione di disagio, come i migranti, sono una parte fondamentale di tale annuncio, basato sulla necessità di giustizia, di amore e di pace, che si accetta pienamente quando l’esperienza terrena viene completata con un orizzonte superiore.
Il terreno in cui il seme è sparso sono i Paesi nei quali si recano i migranti. La fertilità, di cui parla la parabola, consiste nella loro accoglienza: a volte così restia fino a sfiorare il rifiuto, altre volte aperta, ma con posizioni differenziate che vanno dall’assegnare loro solo uno spazio marginale fino all’offerta delle pari opportunità con gli autoctoni, considerando tutti cittadini con la stessa dignità. I Paesi d’accoglienza, quindi, possono essere sterili, produrre poco, mediamente o molto.
A questo punto, per non arricchire la riflessione, è necessario ricorrere agli esempi, che possono essere trovati nella storia quasi bisecolare dell’esodo di massa degli italiani, congiungendo così passato e presente e proiettandosi verso il futuro.
L’emigrazione italiana è stata un’esperienza significativa, con 30 milioni di partenze verso Paesi di tutti i continenti e attualmente con una comunità italiana di 60-70 milioni di membri, tra cittadini e oriundi.
Sono differenziate le strategie attuate nei confronti dei connazionali, che spesso hanno rappresentato sul posto le principali o una delle principali collettività straniere. Già dalla fine dell’Ottocento in Argentina e in Brasile contribuirono come coraggiosi coloni a porre le basi dell’Argentina e del Brasile come stati moderni, protesi verso il superamento del passato coloniale, mentre negli Stati Uniti furono una componente importante della loro capacità produttiva. Dopo la Seconda guerra mondiale in Canada e in Australia furono protagonisti nel processo di adozione ufficiale di una politica multiculturale e, in diversi Paesi europei, con la loro capacità di adattamento e la loro tenacia lavorativa, sono stati il simbolo del superamento delle frontiere, sfociato poi nel processo d’integrazione continuale e nell’Unione Europea. Le aperture hanno consentito ai nuovi arrivati di affermarsi a livello economico, politico, sociale, culturale e, in parte, politico.
Al termine di questo percorso si arriva, auspicabilmente, a convalidare le ipotesi che hanno ispirato questo breve approfondimento.
- Se quella cristiana è una chiamata al nostro continuo miglioramento nell’amore a Dio e al prossimo, ne consegue che l’omelia domenicale e, più in generale, ogni altra occasione di informazione religiosa, dovrebbe concretamente immedesimarsi con le vicende della storia umana e, nel nostro caso, della storia dei migranti per lavoro e dei rifugiati e dei profughi (da ultimo con quelli ucraini). È quanto Papa Francesco ci ricorda continuamente, che la venuta del “regno di Dio” non può essere una mera invocazione formale.
- A distanza di tempo, si possono riconoscere gli errori commessi, anche a livello individuale, per la chiusura attuata nei confronti delle persone venute dagli altri Paesi con la riserva “Io non sono contro gli stranieri”; solo se ispirati a una maggiore apertura nei loro comportamenti, i cristiani riusciranno a essere una forza di pressione sulle strutture per praticare una politica di solidarietà. Ciascuno di noi, per tornare alla parabola, è un terreno che può essere sterile o improduttivo.
- Anche i singoli migranti rappresentano il protagonismo diffuso. Sono ancora pochi in Italia quelli che riescono ad affermarsi a un livello apprezzabile nel loro campo. Ciò nonostante, vi è una massa di persone che, spinte dal bisogno, animate dalla speranza di un miglioramento, spesso lontano dai loro cari, accettano lavori al di sotto del loro livello formativo e svolgono mansioni non più gradite agli italiani: in questo modo ripagano l’accoglienza offerta dall’Italia. Nei libri di storia non si troveranno i loro nomi e, comunque, essi non sono assenti nelle statistiche economiche e non mancano di influire sull’andamento del Prodotto Interno Lordo. Questi ignoti garanti del nostro benessere hanno bisogno del lavoro, delle tutele giuridiche e, specialmente del riconoscimento sociale e dell’affetto degli italiani. Questo è il vero discrimine per il cristiano, per il quale l’amore di Dio e l’amore del prossimo devono andare di pari passo: ne dovremo rendere conto a Gesù nel giorno del giudizio.
Con la parabola del seminatore si impara a capire che il fenomeno migratorio è senz’altro un fenomeno oggetto di tante scienze, dall’economia alla psicologia e alla sociologia, ma anche sostanzialmente intrinseco alla vita di fede.