Tito Boeri, professore di economia presso l’Università Bocconi di Milano, già Presidente dell’Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS)

Serpeggia un sacro terrore tra i banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama quando si parla di leggi sulla cittadinanza. Chi deve farsi rieleggere traduce ius soli in terreno minato, ius culturae in un prodotto per élite dunque, di questi tempi, altamente urticante. Si teme per il solo fatto di parlare di cittadinanza di fare un regalo a chi ha costruito le proprie fortune elettorali sull’odio nei confronti degli immigrati. Ma è davvero così? Non è peggio il non dire che il dire, non informare che informare? I fatti sono sempre i migliori antidoti ai luoghi comuni.

Sono 1 milione e 300 mila i figli di immigrati che vivono nel nostro Paese. Tre su quattro sono nati in Italia. Più della metà hanno meno di otto anni, sono dei bambini. Parlano la nostra lingua, spesso i nostri dialetti e hanno le nostre stesse inflessioni. Basta lasciarli parlare per capire chi vive a Roma, chi a Brescia e chi a Catania. In 842.000 vanno a scuola e sono seduti sui banchi di fianco ai nostri figli o ai figli dei nostri figli. Molti, come i talenti under 17 di calcio che non sono potuti andare in Brasile a difendere i nostri colori, vorrebbero indossare la maglia azzurra nelle competizioni sportive, ma non possono farlo. Hanno legami molto labili con il Paese d’origine dei loro genitori.

Ha senso farli sentire apolidi a casa nostra? Ha senso presentarli ai nostri figli come degli estranei? Ha senso insegnare loro nella nostra scuola le nostre leggi, le nostre norme sociali, la nostra storia, impartire loro la nostra cultura per poi escluderli da tutto questo? Non corriamo il rischio di sviluppare in loro e nei nostri figli un sentimento di impotenza oppressa, di ingiustizia, di discriminazione, premessa di rancore, odio, diffidenza?

Da 30 anni aspettiamo una riforma di un diritto di cittadinanza che era stato pensato per un paese di emigrazione anziché di immigrazione come ormai da tempo siamo. È una legge che attribuisce diritto di voto a chi non paga né mai pagherà le tasse da noi e lo nega invece a chi ha sempre pagato le tasse contribuendo a finanziare le nostre pensioni, ma non ha genitori o antenati italiani.  Un bambino nato in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento ha risieduto in Italia «legalmente e ininterrottamente». Non c’è alcuna garanzia che il diritto venga concesso e si impedisce per 20 anni all’intera famiglia di passare periodi all’estero.

Non possiamo restare ancora a lungo senza una legge che favorisca l’integrazione. Sono già tantissimi gli immigrati che vivono da noi e questi, volenti o nolenti, rimarranno da noi. I minori di immigrati sono quasi il 15 per cento dei minori in Italia. Non possiamo permetterci di creare dei disadattati. È non solo profondamente ingiusto. È pericoloso. Chi ha a cuore la sicurezza degli italiani che vivono nelle aree ad alta densità di immigrati non può che puntare sull’integrazione della seconda generazione di immigrati.

I tassi di abbandono scolastico fra i minori di immigrati sono attorno al 35%, un’enormità, e sono ulteriormente aumentati durante la pandemia. Dare una prospettiva di cittadinanza a chi completa con successo il proprio curriculum, aiuterebbe moltissimo a ridurre questo spreco di capitale umano. Un ciclo scolastico significa 5000 ore di lezione sulla nostra cultura. Altro che le cinque ore di educazione civica previste per concedere il patto di integrazione!

L’intero articolo su Orientamenti Pastorali n.3(2022), EDB, Bologna.