Paolo Boschini – docente stabile di filosofia nella Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

Davanti al «cambiamento d’epoca» non ci dividiamo in conservatori e innovatori, ma in fautori dell’ordine istituzionalizzato e in amanti del disordine creativo. I primi sono gli uomini dell’imperativo («tu devi!»); i secondi quelli dell’ottativo («sarebbe bello se…»). Ma tutti costoro sono – sarebbe meglio dire, siamo – quelli del vangelo della cura: sentiamo che, dalla parabola del buon samaritano o dalle pericopi dell’emorroissa e dell’adultera, dobbiamo assolutamente tirare fuori qualcosa da fare, o almeno qualcosa da proporre. E così ci infiliamo in un vicolo cieco fatto di efficienza più che di dedizione, di volontarismo più che di sapienza, di performance più che di dono, di autorefenzialità più che di ospitalità. L’esito è abbastanza scontato: riproporre in varie salse un vangelo precettistico, una fede ecclesiocratica e talvolta un in-credibile clericalismo. Davanti al «cambiamento d’epoca» si imbocca così la deriva del cambiare le parole, ma non i cuori, i pensieri e gli sguardi. Ovvero, mettere vino nuovo in otri vecchi. Il nostro annuncio cristiano ha bisogno di cura, nel duplice senso di necessitare di una terapia perché malaticcio, anemico; e di esigere di essere curato, preso sul serio, perché non si tratta di un discorso, ma di un evento che può cambiare la vita, e non solo a livello personale. La maternità della Chiesa si manifesta oggi nello stile affettivo, nella sua capacità di riconoscere e valorizzare l’agire di Dio nei cuori e nelle comunità; nell’attitudine all’ascolto del cuore del popolo. La cura del vangelo richiede di amare e promuovere il pluralismo culturale, con cui la chiesa mostra la bellezza del suo «volto pluriforme». Non si tratta solo di porre attenzione alle dinamiche di una società sempre più multietnica e multiculturale, ma di mettere in atto quella forza di convergenza e di armonia, che è azione dello Spirito Santo e che papa Giovanni XXIII aveva efficacemente sintetizzato nel motto: «cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte quello che ci può tenere un po’ in difficoltà». Occorre costruire luoghi fisici, in cui educarsi all’arte del dialogo e praticare la comprensione delle ragioni altrui; in una parola, in cui dare spazio alla «cultura dell’incontro». La cura del vangelo implica un’attitudine al discernimento: «Saper leggere negli avvenimenti il messaggio di Dio». La rivelazione cristiana è però paradossale: è la voce del Totalmente Altro che si fa totalmente storico. Perciò chi si mette in ascolto di Dio «deve anche porsi in ascolto del popolo», scoprendone le esigenze e le speranze più profonde e annunciando a esso il vangelo con i codici comunicativi del popolo stesso. La cura del vangelo non è una proclamazione dottrinale, ma è un annuncio testimoniale, e la testimonianza collega la parola biblica con ciò che le persone vivono, cioè con un’esperienza umana che ha bisogno di essere illuminata e risanata dalla Parola di Dio. La cura del vangelo restituisce alla Chiesa la fiducia perduta nell’umano, riapre il fortino in cui essa si era asserragliata in difesa di se stessa e le spalanca davanti una strada lungo la quale ritrovare la gioia della cura. Non possiamo nasconderci dietro a un dito: molte nostre chiese locali stanno vivendo un processo – neanche troppo lento e sotterraneo – di desertificazione. Se ci poniamo nella prospettiva di cura del vangelo, non ci interessa stabilire di chi è la colpa. Si tratta piuttosto di vedere se ci sono le condizioni per «reinventare il cristianesimo». Papa Francesco sta offrendo un contributo importante al rinnovamento del linguaggio ecclesiale, perché ha dilatato lo spazio della cura, superando l’antropocentrismo dell’umanesimo moderno: nel suo magistero e nel suo ministero il concetto di cura coincide di fatto con quello di vita. Nell’aver cura la chiesa si apre alla totalità della vita: la riconosce, la serve, la ama. E così annuncia «il vangelo della creazione», che è la parola del Dio della cura: siamo tutti chiamati a essere partners del suo continuo operare nel mondo e attraverso il mondo.

 

(l’intero articolo in Orientamenti Pastorali n.4/2022 – tutti i diritti riservati)