Brunetto Salvarani – teologo, docente di teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna
Ben di rado, come nelle ultime settimane, si è discusso pubblicamente di ecumenismo. Lo si sta facendo, com’è noto, sull’onda della catastrofe ucraina: prese di posizione da più parti, articoli sui quotidiani, molti interventi in rete, in genere per denunciarne la profonda crisi. Talvolta, persino la conclamata inutilità o addirittura la dannosità, sullo sfondo del traumatico palcoscenico bellico.
E’ indispensabile, invece, ripartire dagli eventi di questi mesi, dal mancato incontro fra Kirill e papa Francesco a Gerusalemme, previsto per giugno e annullato per evidenti motivi, ma anche e soprattutto dalle ragioni della clamorosa rottura fra le chiese sorelle di Mosca e Costantinopoli, la Terza Roma e il Patriarcato ecumenico, che ha provocato una situazione drammatica, che ha il sapore amaro dello scisma interno e le cui radici vengono da lontano, per riflettere sulla necessità – agli occhi degli addetti ai lavori, sempre più evidente – di un nuovo, maggiore e diverso slancio ecumenico.
Per intendere la portata della questione, è necessario rimarcare che si tratta di un tema cruciale per l’identità stessa della Chiesa. L’unità dei credenti in Cristo non è solo una delle fondamentali notes Ecclesiae nel primo credo cristiano stilato al concilio di Nicea nell’anno 325 (“Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica”), infatti, ma anche il requisito decisivo in vista di una testimonianza credibile del vangelo nel tempo attuale che registra l’es-culturazione del cristianesimo dagli scenari culturali europei (C. Theobald). Come possiamo essere fratelli tutti – sulla linea dell’enciclica del 2020 di papa Francesco – se non ci sentiamo e non viviamo, noi cristiani delle varie confessioni, da fratelli e sorelle, pur essendo fondati sullo stesso battesimo e sullo stesso credo, nonché fiduciosi nella stessa parola di Gesù contenuta nelle stesse Scritture? Ecco perché l’ecumenismo dovrebbe finalmente uscire dagli scaffali degli specialisti per entrare stabilmente negli ordini del giorno dei consigli parrocchiali, dei movimenti ecclesiali, dell’attuale Cammino sinodale, di quella che si chiama(va) la pastorale ordinaria. Vasto programma, certo, ma anche indilazionabile. Ne è convinto Bergoglio, che per l’ennesima volta il 6 maggio scorso – parlando al Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani – si è espresso nel merito in termini perentori: “Nel secolo scorso, la consapevolezza che lo scandalo della divisione dei cristiani avesse un peso storico nel generare il male che ha avvelenato il mondo di lutti e ingiustizie aveva mosso le comunità credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, a desiderare l’unità per cui il Signore ha pregato e ha dato la vita”. E ancora: “Oggi, di fronte alla barbarie della guerra, questo anelito all’unità va nuovamente alimentato. L’annuncio del vangelo della pace, quel vangelo che disarma i cuori prima ancora che gli eserciti sarà più credibile solo se annunciato da cristiani finalmente riconciliati in Gesù, Principe della pace; cristiani animati dal suo messaggio di amore e fraternità universale, che travalica i confini della propria comunità e della propria nazione”.
Ma qual è la situazione odierna, al netto delle recenti turbolenze? A proposito dello stato di salute dell’ecumenismo è da tempo invalso l’uso di ricorrere alle immagini meteorologiche, per cui si è a lungo riferito dell’inverno ecumenico, o almeno di un autunno quanto mai grigio, seguito alla primavera densa di speranze (anzi, alla vera e propria euforia ecumenica) che caratterizzò la stagione conciliare e i suoi immediati dintorni. Quando diversi fattori incisero nelle coscienze di tanti cristiani, singoli o riuniti in gruppo, delle differenti confessioni, fino a far pensare come imminente il momento in cui la Chiesa sarebbe tornata (meglio che diventata!) una: la pressione di base di numerose comunità ecclesiali, una buona elaborazione teologica in progress, ma anche il clima culturale generale degli anni Sessanta e Settanta, ben disposto, nonostante mille contraddizioni, al dialogare, alla ricerca della pace e della giustizia su scala planetaria, al superamento delle discriminazioni fra i popoli e all’interno delle singole nazioni. Non andò così. Anzi, i successivi e impetuosi processi di globalizzazione, resi obsoleti i classici strumenti di analisi sociopolitica, concorreranno a produrre un pianeta ancor più squilibrato, preda di reciproche paure e diffidenze, incapace di guardare positivamente al futuro e convinto in tante sue componenti di stare vivendo un autentico scontro di civiltà. Da più parti, così, si è cominciato a parlare di un’epoca post-ecumenica… Fino all’oggi. Quando, a monte, si continua coraggiosamente a ripetere che, in un mondo globalizzato e in crisi su più fronti ivi compreso quello pandemico, così come gli italiani, crocianamente, non possono non dirsi cristiani, non possiamo non dirci ecumenici. Il teologo evangelico Oscar Cullmann, peraltro, già decenni or sono sosteneva che l’impazienza ecumenica – “le cose non progrediscono abbastanza celermente” – potrebbe rivelarsi persino nociva alla causa dell’unità, rischiando di sottovalutare i progressi vissuti, “sorprendenti e irreversibili dopo una separazione di molti secoli”.
Adottando uno sguardo vasto, in sintesi, mi pare che l’ecumenismo sia oggi chiamato ad affrontare la ricerca dell’unità fra i cristiani nel contesto di quattro straordinarie fratture che ci fanno sentire il secolo breve appena trascorso quanto mai lungo e articolato, sul piano religioso: il contesto geopolitico in costante trasformazione, la rinnovata concezione della missione, una diversa qualità dei fondamentalismi e una differente geografia delle religioni. All’ecumenismo, così, si richiede di rispondere a una triplice e pressante esigenza: quella di far fronte alla responsabilità della memoria divisa delle chiese; di trasformare le divisioni in (legittime) differenze; e di elaborare processi comuni, praticando l’ermeneutica evangelica dell’alterità. Nell’incontro ecumenico, infatti, l’ascolto reciproco è soprattutto condivisione della vita e dei beni spirituali, frequentazione reciproca per imparare i rispettivi linguaggi, apprendimento paziente di ciò che può ferire l’altro o risultargli irricevibile. Imboccando tali sentieri, potrebbero allentarsi i pregiudizi, si sconfiggerebbe la paura dell’altro e la tentazione di identificare tout court differenza e divisione: mentre si aprirebbe la possibilità di ripensare con l’altro – e non più contro l’altro! – la propria fede, la sua (faticosa) trasmissione generazionale, l’evangelizzazione di quel mondo che Dio ha tanto amato da dargli il suo unico Figlio. Sì, per noi, cristiani immersi nella cultura della postmodernità, a oltre cent’anni dall’avvio del movimento ecumenico, il dialogo fra le nostre chiese non dovrebbe risultare un’opzione fra le tante, da perseguire o meno a seconda delle stagioni, bensì la forma comune dell’essere cristiani oggi. E la ricerca dell’unità non andrebbe letta come una pura e semplice questione tattica, adottata per il conseguimento della forza ritenuta necessaria contro gli altri, i non cristiani o i (cosiddetti) non credenti. Come spiegò, definitivamente, Giovanni Paolo II nel 1995, nell’enciclica Ut unum sint: “L’ecumenismo, il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche appendice che si aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo” (n. 20).
L’ecumenismo non si è definitivamente esaurito, e non stiamo attraversando un’era glaciale, a dispetto degli indizi che ci potrebbero spingere a pensarlo. Il dialogo, piuttosto, sta cambiando di forma, di stile, di metodo, e non è sempre facile riconoscerne la positiva trasformazione nel cuore di una crisi indubbia che però è una crisi di crescita, destinata a farci fare, mi auguro, ulteriori passi in avanti.
Tratto da Orientamenti Pastorali 5(2022), EDB. Tutti di diritti riservati