Andrea Grillo – professore di teologia dei sacramenti e filosofia della religione al Pontificio Ateneo S. Anselmo
Non si deve nascondere che la pubblicazione dei due documenti sui ministeri istituiti (Spiritus Domini e Antiquum ministerium), seguiti dalla Nota CEI di applicazione italiana della nuova disciplina, ha suscitato immediato interesse per la non piccola novità della rimozione della «riserva maschile»: ora, si è detto subito, anche le donne potranno accedere ufficialmente ai tre ministeri. Ma la recezione della novità spesso si è accompagnata con la piccola delusione circa la destinazione prevalentemente «liturgica» di questi ministeri. La «riduzione» appariva così assicurata e l’impatto ecclesiale drasticamente minimizzato. Come a dire: l’effetto sulla vita sarà quasi irrilevante. In realtà, è proprio la nuova inclusione determinata dal tramonto della «riserva maschile» a rendere possibile una rilettura simbolica complessiva della azione rituale, nella sua decisiva importanza per la identità ecclesiale. Non si tratta di «aggiungere» il soggetto femminile alla consueta comprensione dei ministeri istituiti, ma di pensare più a fondo la loro identità proprio a partire da quella realtà plenaria e inclusiva, solo oggi ufficialmente autorizzata, e che li costituisce e li potrà caratterizzare solo se lo vorremo davvero, con tutta la forza e la creatività di cui occorre essere capaci in questi casi. Se la differenza femminile era stata, anche nella Chiesa, elemento di emarginazione e di discriminazione, che avevamo addirittura confuso con una precisa e immodificabile volontà di Dio, ora che il «segno dei tempi» dell’entrata della donna nello spazio pubblico è stato riconosciuto, almeno a parole anche nella Chiesa da esattamente 60 anni – ossia dalla enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII –, dobbiamo confidare che questa grande novità, ossia l’accesso formale della donna agli «uffici» ecclesiali – ossia in quello che possiamo considerare lo spazio pubblico della Chiesa – comporti simbolicamente una certa discontinuità. Di cui conosciamo per ora solo una piccola parte, visto che i simboli sono tali solo quando sono in esercizio. Di questo esercizio, per ora, sappiamo poco perché, appunto, non lo esercitiamo, restando nella inerzia della «riserva maschile», che mentalmente è ancora molto forte. E se si avrà paura, ci sarà sempre la strada aperta a un rimedio minore e infausto: una soluzione potrebbe essere infatti quella di chiudere la novità dei tre documenti in un bel cassetto, in attesa che non se ne parli più. La burocrazia, ogni burocrazia, ha sempre pronta questa diabolica via di fuga, che ovviamente non è augurabile, ma che va riconosciuta come una possibilità.
Per evitare soluzioni burocratiche, anzitutto dobbiamo chiederci: che cosa significa che abbiamo a che fare con «ministeri liturgici»? La liturgia non è la «rappresentazione esteriore» della fede. Non è «cerimonia esterna». È invece l’accesso più intimo, più corporeo e più relazionale alla «vita in Cristo». Perciò affermare che si tratta di «ministeri liturgici» non significa alludere a qualifiche e funzioni riservate al «giochino formale del culto», ma riconoscerle consegnate alla serietà di un rapporto con l’originario della fede, della relazione con Cristo e della qualità comunitaria della Chiesa. Questo vale in modo diretto per le prime due forme di ministero (lettorato e accolitato); ma non è troppo forzato riferirlo anche alla terza forma, nuova, di ministero istituito, (quella del catechista), dove la iniziazione alla fede accade sempre in vista di «soglie sacramentali», che chiedono l’affinarsi graduale di capacità simboliche. Anche il catechista, quando non sia portato a pensare a una fede diretta e senza mediazioni, sa che la «prova esistenziale» del credo si forgia in lunghe e complesse simboliche di Parola ascoltata, di pane e calice condiviso, di preghiera elaborata e trasformata in linguaggio quotidiano. A differenza del lettore e dell’accolito, che lavora «dentro il gioco rituale», il catechista sta, contemporaneamente, dentro e fuori, e frequenta più stabilmente la soglia tra dentro e fuori. Comunque, tutti e tre i ministeri attestano che nella parola comune di supplica e di lode, come nel pasto comune di rendimento di grazie, si trova la forza di vivere non solo con fede, ma di fede.
Questo però non appare affatto evidente finché la liturgia resta mera «cerimonia esterna» di un evento invisibile che è «dono di grazia». A questo modo di pensare (che non è affatto di fede) abbiamo ritenuto di dover credere anche per la organizzazione stessa della cosiddetta cerimonia: così per molti secoli, essendo stata affidata alle cure del prete, per il singolo credente la cosa prendeva facilmente la via della «esperienza passiva» di un «muto spettatore». Questo assetto classico non solo non aveva bisogno di ministri istituiti, ma non riusciva neppure a concepirne la necessità. Per questo, in quel modello, il lettore e l’accolito non erano altro che «gradi», velocemente percorsi, per arrivare a esercitare il ruolo dell’unico vero ministro: ossia del prete-sacerdote. Solo ricostruendo liturgicamente, ecclesialmente e teologicamente in modo diverso l’azione liturgica possiamo oggi non solo concepire «uffici ulteriori», che chiamiamo appunto «ministeri istituiti», ma chiedere loro di arricchire simbolicamente le nostre assemblee. Qui è consigliabile non pensare le cose soltanto in un senso, ma anche in senso inverso: non solo è vero che una Chiesa riconosciuta come «popolo di Dio» richiede una ministerialità articolata e ricca, ma è anche vero che solo una nuova ricchezza ministeriale, nuove simboliche di presenza, di autorità e di mediazione possono manifestare realmente il corpo di Cristo che è la Chiesa nel suo momento sorgivo e culminante dell’atto liturgico. Proprio questa «duplice lettura» ci porta a meglio comprendere la delicata importanza di quella che Romano Guardini chiamava «conoscenza simbolica», in vista della quale abbiamo bisogno non solo di essere «formati alle» nuove ministerialità, ma anche di essere «formati dalle» nuove ministerialità.
Per saper interpretare la liturgia davvero in modo simbolico – e non come un «atto amministrativo» che va da sé purché posto da un sacerdote – possiamo ricostruirne il senso secondo questo schema illuminante: il dono della Parola vive liturgicamente di una recezione, per poi diventare contro-dono sul piano esistenziale. Il fatto che la parola di Dio si faccia vita non semplicemente per una operazione intellettualistica di comprensione, ma mediante una azione complessa, allo stesso tempo verbale e non verbale, che si struttura comunitariamente, questo è il contesto nel quale imparare a leggere, in modo nuovo, il ruolo che questi rinnovati ministeri istituiti possono ora assumere, se liberati dalla camicia di forza di una comprensione storica, limitata, che a lungo li ha letti come «semplici gradini verso l’ordinazione sacerdotale.
La differenza tra funzione e ministero resterà grande: ma la opportunità di offrire forme autorevoli all’annuncio della fede, che si facciano pedagogia di iniziazione, identificate in uomini e donne della comunità, istituiti in un ministero ecclesiale, può diventare realtà dinamica e principio di nuova testimonianza del vangelo.
Tratto da Orientamenti Pastorali n.11/2022, EDB. Tutti i diritti riservati