Michele Roselli – vicario episcopale per la formazione e direttore dell’ufficio catechistico e del Servizio per il catecumenato della diocesi di Torino
«Quella che viviamo non è solo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca». Le parole di papa Francesco, note e spesso citate, hanno il pregio di fotografare in modo lapidario ciò che anche la realtà ci pone di fronte quotidianamente. Mettendole al riparo dai rischi di logoramento che ogni formulazione a slogan porta con sé, queste parole risuonano come un alert che esortano a fare esodo dalle abitudini che ci ingabbiano. Innanzitutto, perché invitano la Chiesa a condividere una consapevolezza che non è ancora sufficientemente praticata e che rischiamo di rimuovere. Siamo come schiavi di gesti e parole di un mondo (religioso) che non è più. In questo senso, uno dei tratti del cambiamento di epoca da assumere è certamente quello della fine della cristianità, come modo di stare al mondo della Chiesa. È finito, infatti, il tempo storico caratterizzato dalla stretta saldatura tra l’appartenenza alla società civile e quella alla comunità ecclesiale. Oggi, lo iato tra il modello della comunità cristiana e la novità del tempo è via via sempre più profondo. Viviamo in un tempo in cui non si è più normalmente cristiani. E in cui la fede è una scelta da rifare continuamente tra molte alternative possibili. È finita la cristianità, è cambiata un’epoca. Lo diciamo, ma siamo davvero capaci di assumerlo? Non continuiamo forse a costruire le nostre proposte pastorali, per inerzia, su presupposti che furono, ma che non sono più veri?
Ad esempio, l’aspetto sacramentale delle nostre proposte è ancora preponderante. Il servizio alla Parola coincide ancora troppo con la catechesi, intesa come istruzione per già credenti, mentre non siamo preparati ad annunciare il vangelo ex novo a chi cristiano non è. I processi iniziatici sono relegati nelle prime età della vita – come se diventati credenti da piccoli non si possa che restarlo per sempre – e, di fatto, delegati alla catechesi – come se la vita cristiana non avesse a che fare anche con la celebrazione e la fraternità, le relazioni. Ci sfianchiamo in un’impresa sterile già in partenza, per la quale non abbiamo più le forze e che ci sottrae energie che potremmo investire in qualche proposta nuova. Ora, come mette bene in evidenza, ad esempio, il teologo ceco Thomas Halìk, la fine della cristianità e i processi di secolarizzazione non segnano la fine del cristianesimo, ma ne postulano il cambiamento, la trasfigurazione.[1]
Questo «cambio di epoca» domanda cioè di compiere «un serio tentativo per mostrare al mondo un volto del cristianesimo completamente diverso».[2] Bisogna essere avveduti. Non si tratta di una goffa manovra per essere alla moda, correndo a rimorchio della mutevolezza dei tempi, ma di realizzare un reale atto di Tradizione, una profonda riforma che corrisponde a ciò che la Chiesa – per natura e per missione – è da sempre. E cioè viva dentro la storia. In questo senso, anche il confronto con questo nostro tempo può essere fecondo. Costituisce un’occasione – dolorosa, certo – perché la Chiesa si «ridica», in fedeltà a se stessa, in modo nuovo e inedito. Riscoprendo di se stessa qualcosa che solo l’attuale cultura e quest’epoca le consentono di riscoprire.
Abbozzata la complessità della sfida, poniamo l’ipotesi che il paradigma della comunicazione generativa possa offrire spunti interessanti per immaginare la missione della Chiesa in questo nostro tempo. Nel rispetto della differenza tra i contesti (epistemologici) delle scienze umane e delle scienze teologiche (ecclesiologia, teologia fondamentale, missiologia…) implicate, stabiliamo un dialogo tra questi due «mondi» mettendoci in ascolto delle scienze della comunicazione e chiedendoci quali punti di attenzione segnala, su quali ambiti invita a presidiare, di che cosa chiede di sbarazzarsi.
- Una comunicazione generativa di umanità: cinque idee dalle scienze della comunicazione
È possibile pensare a una comunicazione umana e generativa, nell’era in cui tutto è comunicazione? Come? E a quali condizioni? Rispondendo a queste domande, Chiara Giaccardi tratteggia una mappa di criteri/condizioni che esponiamo sinteticamente intorno a cinque nodi.[3]
- Non controllo e determinismo, ma accessibilità e condivisione
Nessuno possiede da solo l’intero di tutta la verità. Per avvicinarsi a essa occorre l’apporto e il contributo di tutti. Per questo, il dialogo è una componente fondamentale della comunicazione. La comunicazione generativa è dunque una generazione nel segno dell’accessibilità e della condivisione e non nel segno della manipolazione e del controllo, che sono sempre esercizi di potere. Il determinismo, che è il contrario della comunicazione generativa, funziona secondo logiche duali di azione-reazione, di causa-effetto. Esso pretende di controllare la comunicazione secondo logiche meccaniche, di concatenazione; logiche unilaterali che imbrigliano e riducono semplicisticamente la comunicazione che, invece, è un evento complesso, fatto di parti in relazione nel tutto che lavorano simultaneamente. E che avviene secondo dinamiche circolari, reticolari, mutuali.
- Non termini, ma parole. La comunicazione come apertura di senso
La comunicazione umana e generativa è fatta di parole, non di termini. I termini sono quelli usati dalla comunicazione scientifica: sono univoci, sono «etichette senza resto». Indicano un oggetto e solo quello. Definiscono. Cioè, alla lettera, confinano il significato, lo recintano. Le parole, invece, sono simboliche, tendono a mettere insieme, a unire (sun-ballein, secondo l’etimologia greca). Rimandano oltre sé stesse, sconfinano. Le parole sono «finestre» e trampolini. Si aprono su mondi di significato diversi e inesauribili, che si arricchiscono continuamente negli scambi della comunicazione.
- Non trasmissione, ma dialogo
Ancora molto frequentemente, pensiamo la comunicazione come trasmissione di messaggi da un’emittente a un ricevente, come trasferimento di contenuti da chi ha verso chi ancora non ha. Ora questo modo di intendere la comunicazione è molto riduttivo e parziale. Non è tipicamente umano, dal momento che anche le macchine funzionano così. Ed è un modello rigido: emittente, messaggio e ricevente non si modificano nel corso dell’interazione. Compresa in questo modo, la comunicazione ha come obiettivo il riprodursi uguali a se stessa, riducendo al massimo il rischio di perdita di informazioni. Assomiglia più a una clonazione che non a una generazione. La comunicazione interpersonale, invece, è una comunicazione dialogica: cioè, etimologicamente, fatta di parole che attraversano e uniscono le distanze. Nella comunicazione dialogica tutto è connesso: le persone che comunicano e ciascuna di esse con l’ambiente in cui si trova. La rete di connessioni tra quanti comunicano, e di ognuno di essi con l’ambiente, non è neutrale: condiziona ed è, allo stesso tempo, condizionata; trasforma ed è trasformata nell’evento stesso della comunicazione. In altri termini, è in questa dinamica di interazioni complesse e non riducibili a rapporti di causa-effetto che noi prendiamo forma e diamo forma al mondo.
- Identità e relazioni: non un già dato, ma un avvenire e un darsi reciproco
I cammini del diventare sé stessi, non sono percorsi preformattati, per tirare fuori ciò che già siamo, ma sentieri inediti lungo i quali ognuno si forma/forma/ed è formato – simultaneamente, reciprocamente – in relazione a ciò che lo interpella e lo mette in movimento. È questo il dinamismo profondo che caratterizza la comunicazione interpersonale. Non quello di individui che costruiscono relazioni, ma di esseri che si individuano, che continuamente diventano chi sono, nel tempo, in relazione/comunicazione con l’ambiente e con altre persone. Potremmo dire così: nella comunicazione umana l’io non sta prima dell’altro. Ma l’altro e l’io avvengono insieme, si danno e si ricevono insieme. E ogni io avviene attraverso l’altro. Così come l’altro avviene anche attraverso di me.
- Non pro o contro l’altro, ma mai senza l’altro
La comunicazione umana e generativa parte da situazioni di fraintendimento, di «fatica a comprendersi, e cerca di ridurre questa distanza». La radice stessa del termine comunicazione richiama il mettere insieme, il condividere un dono. La comunicazione è cum-munus, costruzione di un mondo comune, da abitare insieme. La comunicazione genera la comunità, la unisce, perché tesse legami, cuce e ricuce il legame sociale. Il suo contrario è l’immunità, la paura del diverso. Il suo veleno è la menzogna, la fake news, che spacca costringendo a schierarsi. Comprendere la comunicazione (e la comunità che ne è il frutto e il contesto) in questo modo non significa misconoscere la possibilità del conflitto o del fallimento. La comunicazione e la comunità nascono ferite, si muovono tra il già di una distanza riconosciuta e il non ancora della speranza di un contatto. Ed è proprio questo spazio di vuoto e di incompletezza ad accendere il desiderio dell’altro, a suscitare la tensione del movimento verso l’altro che è appunto la comunicazione.
Queste riflessioni ci permettono di mettere in evidenza le caratteristiche della comunicazione umana e di intravedere come queste siano al tempo stesso le condizioni della sua portata generativa: di identità, di relazioni, di comunità, di cultura… Riteniamo, come abbiamo già affermato, che questi tratti antropologici della comunicazione si rivelino cruciali e pertinenti anche per la prospettiva teologica e pastorale, perché la missione della Chiesa è fatta anche di comunicazione e di relazione. In questa parte, dunque, ci chiediamo: quali attenzioni segnalano e quali conversioni aiutano a intravedere per uno stile ecclesiale nel segno della generatività?
2. La teologia pastorale in eco con la comunicazione generativa
La proposta della generatività come chiave di stile ecclesiale non è inedita. Ci inseriamo qui nel solco della proposta di pastorale – noi possiamo tranquillamente parlare di missione – generativa (pastorale d’engendrement) che, ormai vent’anni fa, un gruppo di studiosi di area francofona lanciò. Per sintonizzarsi sulla giusta lunghezza d’onda, vale la pena di ripartire da un racconto molto conosciuto del catecheta André Fossion. «Il 26 dicembre 1999, un uragano chiamato Lothar ha dilagato sull’Europa, in particolar modo nell’est della Francia, con venti a più di 150 km orari. Si stima che 300 milioni di alberi siano stati abbattuti sul territorio francese… Dopo la catastrofe, alcuni uffici tecnici hanno velocemente elaborato programmi di rimboschimento, progetti di reimpianto, piani di semina. Si trattava di approfittare della catastrofe per ricostruire la foresta secondo l’immagine ideale che era possibile farsene. Ma una volta che si è trattato di attuare questi piani di rimboschimento, gli ingegneri forestali hanno constatato che la foresta li aveva anticipati. Hanno osservato una rigenerazione più rapida di quella prevista che veniva a ostacolare i piani di rimboschimento manifestando talora delle configurazioni nuove, più vantaggiose, alle quali gli uffici tecnici non avevano pensato. La rigenerazione naturale della foresta manifestava, sotto molti aspetti, una migliore biodiversità e un miglior equilibrio ecologico… Da una politica volontaristica di ricostruzione della foresta secondo i loro piani, gli ingegneri forestali sono passati a una politica, più duttile, di accompagnamento della rigenerazione naturale della foresta… Non si trattava di rinunciare a ogni intervento, ma, piuttosto, con più competenza, di accompagnare, in maniera attiva e vigilante, un processo di rigenerazione naturale. “Giovani piantine di alberi di varie specie sono cresciute. Il nostro lavoro – dice uno degli ingegneri intervistati – è stato allora di liberarle delicatamente, di accompagnarle. Di accogliere la vita della natura invece di credere che fosse scomparsa, invece di reimpiantarla artificialmente”. Anche la Chiesa ha conosciuto, soprattutto da una quarantina d’anni (oggi dovremmo dire una sessantina, d’anni, n.d.a.), un uragano. Il panorama religioso, almeno nelle sue espressioni tradizionali, è devastato. Certo, il paragone non può diventare norma: l’umanità non è una foresta e gli esseri umani non sono delle piante. Ma ciò che ci interessa, analogicamente, per il nostro scopo, è il cambiamento di atteggiamento dei forestali: il loro passaggio da una politica volontaristica di ricostruzione della foresta, a una politica di accompagnamento, attiva e lucida, di una rigenerazione in corso. Non si dovrebbe operare lo stesso passaggio anche in pastorale: passaggio da una pastorale di “inquadramento” (encadrement) a una pastorale di “generazione” e di “accompagnamento” (engendrement)?».
Il racconto è evocativo e va dritto al punto. Pensare la missione della Chiesa in termini generativi significa operare una scelta di campo, vuol dire abbandonare le logiche dell’encadrement. Le logiche di inquadramento richiamano un già dato a cui uniformarsi, un modello entro cui entrare, a cui assimilarsi passivamente. Sono logiche spaziali, di (ri)conquista e quindi di potere, che disegnano un dentro/fuori. Le logiche generative interrompono la unilateralità, sono dinamiche, reciproche, mutualmente inclusive. Sono logiche che evocano i processi, che decentrano la Chiesa da se stessa, che rispettano l’imprevedibilità e la sorpresa dei cammini di vita (di fede). Sono più appropriate al cristianesimo del futuro, (che è anche il cristianesimo nel suo statuto originario n.d.a.), se è vero ciò che afferma Giovanni Ferretti. E cioè che esso «dovrà sempre più passare dal “sacrale” al “simbolico”; cioè da una realtà religiosa fissa e immutabile, nei confronti della quale si è solo passivi, a una realtà religiosa sempre aperta e in movimento, che richiede di essere fatta propria con una interpretazione e una partecipazione personale; da una realtà esteriore che agisce o si impone autoritativamente, a una realtà vissuta e sperimentata interiormente, in cui si è liberamente coinvolti con convinzione e retta coscienza».[4]
3. Cinque passi per una missione generativa
Vorremmo ora provare a essere più concreti, risuonando in modo libero, ma punto per punto, con quanto abbiamo raccolto nella prima parte. Siamo consapevoli della complessità di questa operazione. Infatti, parlare di stile missionario vuol dire riferirsi all’azione pastorale, ma anche al modo in cui la Chiesa vive e celebra la fede; al modo in cui favorisce il diventare, il restare o il ridiventare credenti; al modo con cui essa sta al mondo e nella cultura. E sappiamo che tutto questo ha a che fare con il paradigma di evangelizzazione, con le dinamiche di comunicazione e di relazione, con le forme di presenza della Chiesa sul territorio, con i processi di decisione e di potere. E tuttavia, proviamo a offrire qualche spunto, senza la pretesa di esaurire tutte le questioni richiamate. Raccogliamo le nostre affermazioni nella forma di piste di risposta alla domanda che riformula in modo generativo la missione della Chiesa: come rendere accessibile a tutti, oggi, la straordinaria bellezza del vangelo?
- Abbandonare l’idea di poter controllare (la fede). La missione generativa nel segno della gratuità e della libertà
La fede è sempre un dono di Dio. Un dono che, misteriosamente, Dio fa a tutti, anche «fuori dei confini visibili della Chiesa […], dato che la grazia di Dio è misteriosamente all’opera nel mondo intero».[5] In senso proprio, dunque, la Chiesa non trasmette la fede. Essa non «costruisce» la «presenza di Dio», ma può aiutare a «scoprirla e svelarla» (Cf. EG, n. 71), vigilando sulle condizioni che ne possono favorire il riconoscimento. In questa prospettiva, l’agire pastorale si trova come ricollocato, invitato a fare un «passo di lato», a servizio dell’agire di Dio dentro la vita degli uomini. Dio è un reale soggetto-interlocutore, non solo l’oggetto di cui si parla. I cammini della fede sono sempre aleatori e imprevedibili. Lo Spirito non si può ingabbiare e ogni vita (credente) è un unicum, un inedito. Lo scopo dell’azione pastorale non è di riprodurre copie del nostro modo di essere credenti, ma permettere la singolarità di vita credente di ciascuno, «che suscita sorpresa nello stupore e anche nel disappunto».[6] Diventa una pastorale della sorpresa perché l’annuncio è sempre una sorpresa. La sorpresa di un dono gratuito – annunciamo non perché l’altro sia salvato, ma che l’altro è già salvato – e la sorpresa di un esito non programmabile a priori, perché viene dalla libertà di Dio e sollecita la libertà dell’uomo. Questo rilancia, per la teologia pastorale, un approccio di teologia pratica, non come deduzione o applicazione sulla realtà della teologia, ma come discernimento teologico delle pratiche in corso, con un metodo che parte dalle pratiche e ritorna a esse con uno stile «pensosamente pratico».[7] In quest’orizzonte ci sembrano acute le riflessioni di Yves Saint-Arnaud,[8] che identifica due modelli di azione per il «praticien reflexive». Il paradigma della «expertise» e il paradigma della «incertitude». Nel primo, legato alla riflessione sull’azione, «si prescinde dalle particolarità di una situazione» e ci si appoggia «sul sapere omologato – teorie, modelli, concetti, griglie – per spiegare ciò che accade in un’interazione e per pianificare l’azione». Il paradigma della «incertitude», che è legato alla riflessione nell’azione, invece permette una «conversazione riflessiva con una situazione unica e inedita».[9] Questo paradigma permette all’operatore pastorale di tener conto dell’azione così come si svolge, valorizzandone il carattere sempre particolare. Tutto questo ha un prezzo da pagare: l’incertezza e la perdita di controllo che «disarciona» il teologo pratico invitato a «rinunciare al prêt-à-porter e a creare le condizioni per cercare con il suo interlocutore una soluzione su misura».[10]
- Parole conchiglia. La missione e i suoi linguaggi generativi
«Il cristianesimo ha bisogno di parole che esercitino la capacità di ascolto. Per poter essere cristiani bisogna esercitarsi perché le parole non scivolino sulla superficie, non soffochino nell’indifferenza e si perdano tra le chiacchiere».[11] Rifacendosi alla riflessione K. Rahner sulla parola poetica, Antonio Spadaro nota la differenza che il teologo tedesco riconosce tra parole che sono come «farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei vocabolari»,[12] e parole viventi, che esistono da sempre e che, «quasi per miracolo, rinascono continuamente».[13] Queste ultime «lasciano trasparire la infinita gamma della realtà, simili a conchiglie dentro le quali risuona il vasto mare dell’infinità». Nella finitezza, nella parzialità, nella distorsione, perfino nello spessore e opacità della storia risuona l’infinito di Dio. Per questo noi crediamo che la missione di annunciare il vangelo oggi domandi la capacità di una parola kerygmatica più che dottrinale, come era in passato. E crediamo che questa parola kerygmatica debba essere fatta di parole-conchiglia. Concretamente pensiamo a un annuncio esistenziale, che sappia parlare il «dialetto» (papa Francesco) della vita, ovvero offrire significati credibili alle esperienze umane fondamentali interpretate alla luce della fede, adattandosi all’esperienza delle persone. Pensiamo a una missione nel segno del dialogo con il mondo, capace di sconfinare nella vita, proprio come faceva Gesù che frequentava i banchetti, le strade, le case, proponendo un cristianesimo «secolare», riconoscendo il mondo intero come spazio dell’agire di Dio….
- Non solo trasmissione, ma dialogo. La missione generativa fa spazio all’altro
La storia della evangelizzazione mostra come, per molto tempo, essa si sia modellata sul presupposto di una trasmissione meccanica, come se l’annuncio e la missione di portare al mondo la gioia del vangelo fossero un’azione binaria e unilaterale da parte di chi possiede il vangelo verso chi non lo ha ancora. Un movimento di imposizione da noi a loro. Ha funzionato la logica di una specie di presunzione, nell’altro, del vuoto. E invece, anche solo dai brevi cenni che abbiamo presentato e che recuperano gli elementi di una teologia della grazia, traspare che la vita dell’altro «prima di essere raggiunta dalla proposta di fede è già attraversato da tracce di Dio».[14] Non un vuoto, dunque, ma un pieno. Appare chiaro che il vangelo non è un possesso in mano a chi evangelizza, ma un dono che raggiunge contemporaneamente chi evangelizza e coloro che sono evangelizzati. Che esso è un dono che continuamente riceviamo dall’Altro e dall’altro; che tutti siamo, continuamente e innanzitutto, «destinatari del vangelo»,[15] oltre che suoi testimoni. Per questo, la figura dell’evangelizzazione è un triangolo (chi evangelizza e chi è evangelizzato e Dio), non un binario. Segue le logiche del dialogo, della ricerca comune, della reciproca implicazione per rimanere in ascolto dell’unica Parola che salva. Nessuno esce indenne da questo annuncio/ascolto, tutti ne escono trasformati, cambiati. Sta proprio in questa simmetria del discernimento la vera novità di EG che la Chiesa è invitata a vivere nell’oggi della storia: non solo un discernimento della Chiesa sul mondo, ma anche del mondo sulla Chiesa. La missione generativa intesa come dialogo, fa spazio alla receptio. Il suo gesto non è soltanto quello di chi «passa il testimone», ma anche quello di chi «fa posto a ciascuno nella ricezione dell’eredità».[16]
- Accettare di muoversi e di lasciarsi smuovere. La missione alla prova dell’alterità e della reciprocità
La categoria di generatività evoca la ricchezza semantica della vita, implica il riferimento immediato al gesto bello, delicato e fecondo di chi genera – il figlio –, mentre si genera mutuamente come marito e moglie ed è generato come genitore. Richiama le dinamiche del dono e dell’accoglienza, esprime la reciprocità. È dunque in gioco l’identità non solo di chi è generato, ma anche di chi genera; le due realtà si co-implicano e avvengono co-attivamente. Ogni generazione, e analogamente ogni generazione alla vita di Dio, ha bisogno della differenza. La differenza dice alterità: non ci si genera da soli, né si può farlo; e dice diversità, pluralità. L’alterità e la pluralità poi, dicono la relazione, legame con altri. E su questo si innestano due osservazioni stimolanti. Da una parte, infatti, esso indica che essere generati alla vita di Dio, significa entrare in una nuova relazione con Dio, e – attraverso un contatto-contagio – con quanti, già trasformati da questa relazione, pongono le coordinate umane della possibilità dell’accoglienza del dono di Dio. È il vangelo stesso a insegnare l’inscindibilità di questi due legami – con il Padre e con i fratelli –, quando riporta la preghiera che Gesù insegna ai suoi: il Padre nostro che esprime figliolanza e fraternità. Sono qui in gioco anche le relazioni Chiesa-mondo e fede-cultura. In senso profondo, significa che la Chiesa è sempre nuovamente generata alla sua propria identità dai semina Spiritus che è chiamata a discernere nelle trasformazioni della cultura in cui vive.
- Comunità generative. La missione e le forme della Chiesa
Nel suo racconto di conversione, un catecumeno descrive l’esperienza dei suoi primi passi nella Chiesa attraverso la cifra di «comunità di spalle».[17] Il riferimento fisico rimanda a una comunità già radunata per la celebrazione. Tuttavia, nel suo racconto questa espressione diventa il segno di una «postura relazionale». Una comunità di spalle è una comunità che non si accorge di chi arriva. Essa assomiglia di più a una realtà già data, immutabile, alla quale si accede per assimilazione e integrazione. Una comunità generativa è una comunità inclusiva, invece è una comunità nella quale ogni altro è incontrato in termini di relazione e comunicazione, in modo da permettergli di partecipare. Non si tratta solo di integrare nella comunità ma di fare Chiesa insieme: il criterio è evangelico non ecclesiocentrico.[18] Questo, dunque, porta con sé anche una visione di Chiesa: essa non è da costruire o da fare; non è neppure già data una volta per tutte. È «da ricevere qui e ora nella sua genesi sempre fragile»,[19] prendendo sul serio la figura istituita della Chiesa ma anche, con coraggio, il suo istituirsi nella società, perché la Chiesa, infatti, è il popolo di Dio che cammina nella storia. Vivere la missione nel segno della generatività, significa fare esodo da logiche di inquadramento di una missione intesa come crociata per riportare tutti nel recinto della Chiesa che fu. Significa incamminarsi fuori dai percorsi abituali, nelle Galilee e nelle Samarie contemporanee: luoghi di vita, luoghi, forse, di idolatria e di meticciato religioso, dove però non manca la sete di Dio e dove Gesù ci precede (cf. Gv 4).
[1] T. Halìk, Pomeriggio del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2022. Cfr. in particolare, pp. 5-14 e pp. 61-80.
[2] T. Halìk, Il segno delle chiese vuote, Vita e pensiero, Milano 2020, p. 10.
[3] Cf. L’intervento di Chiara Giaccardi a TEDxLakeCom. bit.ly/3ZTug2n. Accesso: 12 marzo 23. Le citazioni tra virgolette «» che sono contenute in questa parte sono espressioni riprese alla lettera dal suo discorso.
[4] G. Ferretti, Essere cristiani oggi, Elledici, Torino 2011 p. 50.
[5] G. Ferretti, Essere cristiani oggi, Elledici, Torino 2011, p. 42.
[6] Cf. di N. Sarthou-Lajus, L’arte di trasmettere, Qiqajon, Biella (Bi) 2018, p. 21.
[7] L’espressione deriva dal progetto Secondo Annuncio. Cf. in particolare, E. Biemmi (a cura di), Generare e lasciar partire, EDB, Bologna 2014, pp. 29-32. Si rifà, tra le altre, all’idea del praticien reflexif di D.A. Schön circa la necessità di integrare nella formazione, oltre al sapere teorico, anche il sapere che deriva dall’esperienza. Rilancia quindi l’importanza della riflessione sulle pratiche e nelle pratiche.
[8] Y. Saint-Arnaud, «La réflexion dans l’action. Un changement de paradigme», in Recherche et formation, 36(2001), pp. 17-27. La traduzione dal francese è nostra.
[9] Ivi, p. 20.
[10] Ivi, p. 26.
[11] A. Spadaro, «L’orecchio alla conchiglia del mondo», in La Rivista del Clero italiano, 9(2006), pp. 625-633. Qui, p. 626.
[12] Citato in Ivi, p. 626.
[13] Citato in Ivi, p. 626.
[14] Cf. S. Currò L’orizzonte educativo-corporeo-affettivo della catechesi. Ripartire dalla famiglia?, intervento al Congresso dell’Equipe europea di Catechesi (EEC), Madrid 31 maggio – 5 giugno 2017, Pro manuscripto.
[15] Cf. A. Fossion, «Evangelizzare in modo evangelico», in bit.ly/409qKAs. Accesso: 15 ottobre 2022. Riecheggiano qui le affermazioni di DV n. 1.
[16] Cf. N. Sarthou-Lajus, L’arte di trasmettere, p. 47.
[17] Cf. B. Blazy – A. M. Boulongne – E. Grieu – C. Peguy, Quand Dieu s’en mêle, Les Editions de l’Atelier/Editions Ouvrières, Paris 2010, p. 29.
[18] Rimandiamo qui a M. Roselli, «Nuovi modelli di iniziazione cristiana», in Rivista Liturgica, 2(2022)109, pp. 97-113.
[19] C. Theobald, Urgenze pastorali, EDB, Bologna 2019, p. 363.